Pillole di incertezza
O della filosofia, necessaria, di accettare le incognite
Uno degli aspetti emersi prepotentemente in questi mesi di emergenza sanitaria è la condizione di incertezza. Un’incertezza generalizzata che riguarda non solo la salute (personale e collettiva), ma anche l’economia, l’assetto politico, le relazioni sociali; incertezza sul presente e, soprattutto, incertezza sul futuro. Tante domande senza risposta o – peggio – con risposte diverse e contraddittorie.
Dai dubbi sull’origine del virus, sul modo di contare i contagiati e i morti (per o con il coronavirus?), sull’effettività utilità delle mascherine, fino alla messa in discussione della stessa efficacia delle misure restrittive, per fare soltanto gli esempi più facili. Eppure, la mia impressione è che, nonostante non siano mancati anche interventi su questo aspetto, il tema dell’incertezza sia rimasto più spesso sullo sfondo, e forse non è un caso.
Questa condizione — e non mi riferisco soltanto allo stato psicologico individuale — è difficile da accettare e non è esclusiva del particolare momento che stiamo vivendo ma, direi, costitutiva dell’essere umano. Esagerando, si potrebbe perfino leggere tutta la storia dell’umanità come un tentativo continuo di superare, o almeno tenere a bada, questa incertezza costitutiva. Perché, se tale condizione è tipicamente umana, non lo è da meno il bisogno di certezza.
Si deve fare attenzione, però, a non confondere il bisogno con la pretesa. Esigere certezza dove non c’è — e talvolta proprio non può esserci — è un male peggiore della stessa incertezza. Soprattutto quando, come in questo momento, è comunque necessario prendere decisioni, e in fretta, ignorare il dubbio o illudersi di averlo davvero superato può essere pericoloso. Ancora peggio è pretendere questa certezza dagli scienziati (espressione che preferisco al più astratto e insidioso “scienza”, magari con la esse maiuscola).
E preciso subito che questa mia affermazione non ha alcuna venatura anti-scientista. Esigere dalla comunità scientifica (come ha fatto il ministro Boccia sulle pagine del Corriere della Sera il 14 aprile scorso) “certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema” è una pretesa semplicemente assurda e, se viene da un politico, anche pericolosa. Doverlo ribadire sembra in effetti superfluo. La conoscenza scientifica, e tanto più quella delle scienze empiriche, non solo non è certa ma non ha la “certezza inconfutabile” nemmeno tra i suoi obiettivi.
Come sapeva bene Aristotele, il rigore di una conoscenza non si misura in base alla certezza, ma alla capacità di adeguare il metodo all’oggetto; e se l’oggetto non si presta — per ragioni contingenti o per ragioni di principio — ad una conoscenza certa, esigere certezza è quanto di più antiscientifico si possa immaginare. Lo stesso Aristotele ci insegna che tanto maggiore è il grado di incertezza di una conoscenza tanto più avrà peso la fiducia che riponiamo in coloro a cui riconosciamo, con un gesto che è a sua volta rischioso ma non per questo irrazionale, competenza e affidabilità. Ma fidarsi degli scienziati è diverso dal pretendere improbabili sicurezze.
Nella stessa intervista Boccia fa anche un interessante slittamento dalla certezza alla chiarezza, termini che sembra utilizzare come fossero sinonimi. Prosegue, infatti, dicendo “pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza. Noi politici ci prendiamo la responsabilità di decidere, ma gli scienziati devono metterci in condizioni di farlo”. Confondere certezza e chiarezza è un altro errore rischioso. La pretesa di chiarezza — rivolta tanto agli scienziati quanto ai politici — è sì legittima, a patto però che non sia confusa con la certezza. Una risposta chiara da parte degli scienziati non è una risposta che si limita a dare “una sola opzione” (presunta certa) ma è una risposta che ammette l’incertezza e mette in campo le opzioni più plausibili, possibilmente argomentando se (e perché) quello studioso ritiene che una delle opzioni sia da ritenere più plausibile delle altre.
Questo è il modo normale di procedere delle scienze empiriche. E pretendere altro dagli scienziati è, non solo sbagliato, ma pericoloso. Se poi tale pretesa viene da un politico è anche deresponsabilizzante. Affidarsi alle conoscenze scientifiche nella presa di decisione politica è utile e importante, perfino necessario in certe situazioni, ma non è mai tutto. Diventa anzi dannoso se si hanno idee sbagliate sulla scienza, se la si considera come un’entità astratta e monolitica, e si pretende certezza laddove certezza non c’è.
Va anche detto, però, che una parte di responsabilità in questa confusione tra certezza e chiarezza è anche degli stessi scienziati — o almeno di quelli che hanno avuto più spazio nel dibattito pubblico — i quali non hanno messo bene in chiaro che incertezza e scienza non sono nemici ma alleati. Accettare l’incertezza, educarci ad accettarla, è un compito difficile a cui la filosofia non può sottrarsi, se è vero che dall’incertezza la filosofia ha avuto origine e con l’incertezza ha da sempre a che fare.