Macaluso, il milazzismo e la Sicilia come osservatorio privilegiato
Intervista a Elio Sanfilippo
Emanuele Macaluso è stato definito la “destra” del Pci. Sei d’accordo?
Insomma. Io penso che si tratti di etichettature mistificatorie. Non so se Macaluso fosse di destra e altri, ad esempio Folena, fossero di sinistra. Certamente erano etichettature che si appiccicavano ai fini della lotta politica interna.
Veniva considerato di “destra” colui che era dedito al compromesso, al moderatismo. Di sinistra, invece, chi era di solito maggiormente pugnace, un rivoluzionario insomma. Io, ad esempio, penso che Macaluso fosse di sinistra e Folena di destra. Nella battaglia politica interna, faceva comodo etichettare i miglioristi come la destra del partito. Del resto, era un retaggio stalinista. Si racconta che in Unione Sovietica, quando la situazione economica peggiorava, specialmente in riferimento a settori come l’agricoltura, Stalin dicesse che la responsabilità di questa crisi fosse della destra.
L’eterna diatriba tra miglioristi e movimentisti.
La parola “migliorista” fu coniata da Pietro Ingrao il quale, durante un intervento, definì così quei compagni che volevano migliorare il sistema. Ovviamente, Ingrao e i movimentisti quel sistema non volevano migliorarlo ma cambiarlo. Comunque la pensassero, nonostante le diversità politiche, tra Ingrao e Macaluso ci furono sempre un grande rispetto e una stima reciproca.
Hai citato Folena. Quello scontro ha segnato profondamente il partito.
Nel 1992, Folena era il segretario regionale del Pds. La sua candidatura come capolista alle elezioni politiche era praticamente scontata. Nella riunione della direzione nazionale del partito, su proposta di Napolitano, si ritenne che questa candidatura fosse debole e quindi, per rafforzare la lista e riunire il partito superando le divisioni politiche interne, fu avanzata la proposta di nominare capolista Macaluso. A sostenere questa proposta venne D’Alema, allora numero due del partito che, con un atto che definirei di imperio, nominò capolista Emanuele Macaluso, suscitando la reazione violenta di quelli che, allora, si chiamavano i Folena boys.
Cosa accadde?
In un primo momento, i foleniani occuparono la federazione. Una cosa inaudita, horribile dictu, nella storia del partito comunista. Nessuno l’avrebbe mai fatto ai tempi di Togliatti. Successivamente, nel corso della campagna elettorale, per scoraggiare gli elettori di sinistra indecisi se votare Macaluso, affermarono che se fosse stato eletto, si sarebbe certamente alleato con Craxi.
La fine della storia è nota: Folena, alla fine, vinse.
I sostenitori di Folena avevano in mano la direzione della federazione e quindi tutti gli strumenti organizzativi, finanziari, propagandistici a differenza di Macaluso. Era evidente che fosse una battaglia impari.
Macaluso mise sempre la Sicilia al centro del suo impegno politico, anche quando iniziò a ricoprire incarichi a livello nazionale.
Macaluso è stato nell’organizzazione nazionale del partito ai tempi di Togliatti, ma fu anche componente della Commissione agricoltura e foreste. Ebbe incarichi importanti anche ai tempi di Longo e di Berlinguer. Fu persino direttore de L’Unità, ma non ha mai reciso le proprie radici. Anzi, ha fatto tesoro delle sue esperienze a livello nazionale per rafforzare il suo legame con la Sicilia. Anche perché dall’isola traeva alimento e sollecitazioni culturali per le sue battaglie politiche di respiro nazionale.
Qual è l’impronta che Macaluso ha lasciato nella storia della Sicilia?
Indubbiamente l’”operazione Milazzo”. Parlare di milazzismo senza parlare di Macaluso è impossibile. Parlo ovviamente del secondo Milazzo. Ecco, Macaluso fu il regista di quell’operazione.
Ai tempi, Emanuele era il segretario regionale del partito comunista. Si doveva eleggere il nuovo governo regionale, anche perché si era aperta una crisi legata alla nascita della nuova leva democristiana che soppiantava il popolarismo di Alessi. A guidare questo rinnovamento era Amintore Fanfani che decise di proporre come presidente della Regione uno dei suoi luogotenenti, Giuseppe La Loggia.
Questi, però, non riuscì ad avere la maggioranza. Su 90 deputati mi pare che ottenne 44 preferenze, perché gran parte della Dc votò assieme all’opposizione vedendo in quell’operazione un’imposizione di Fanfani, e quindi uno svilimento dell’autonomia siciliana. Non poteva essere Roma a dire chi dovevano eleggere i siciliani. La Loggia dunque finì in minoranza ma, nonostante ciò, non volle saperne di dimettersi perché si sentiva abbastanza protetto da Fanfani. Il quale, in occasione di un comizio a Palermo, precisamente a piazza Politeama, affermò che La Loggia avrebbe governato ugualmente, con i voti o senza. A quel punto, dentro l’Ars scoppiò un putiferio.
La Loggia contava sulla protezione di Fanfani ma anche sull’appoggio del Movimento sociale.
Sì. Tuttavia, quando sottopose il bilancio all’Assemblea, questo fu bocciato e si aprì un’aspra battaglia politica. Macaluso, allora deputato regionale, fece un ostruzionismo molto duro assieme ai socialisti.
Si racconta che abbia telefonato a Togliatti riferendogli della battaglia che avevano intrapreso e che questi abbia risposto “Che Dio ce la mandi buona!”. In effetti, andò bene. Perché La Loggia fu costretto a dimettersi. La Sicilia divenne un caso nazionale. Al suo posto, fu eletto Milazzo con i voti del Pci e di una parte consistente della Dc. L’”operazione Milazzo” iniziò così.
Cosa accadde a quel punto?
La Dc pensava di aver dato una lezione a Fanfani e decise di liberarsi di Milazzo, chiedendogli di dimettersi in cambio di un assessorato. Ma questi rifiutò.
Quali furono le reazioni del mondo politico?
Dietro l’”operazione di Milazzo” c’erano Sturzo, Scelba, il vecchio popolarismo sturziano della Dc insomma. Si trattò di un’azione molto audace che rappresentò un vero e proprio sussulto autonomistico per la Sicilia. Rispetto ad altre esperienze, fu vissuta dal corpo sociale siciliano con favore. Non fu percepita come un fatto interno solo alla politica, al sindacalismo e alla Confindustria.
Ovviamente, le reazioni della politica e delle parti sociali furono diverse. La Chiesa non la vide di buon occhio, anche perché Milazzo aveva fondato, assieme a Francesco Pignatone (padre dell’attuale procuratore Francesco), l’Unione cristiano sociale, un nuovo partito cattolico che di fatto spaccava la Dc. Il cardinale Ruffini gridò al colpo di Stato comunista e il Corriere della Sera invocò l’intervento dell’esercito in Sicilia. La Sicindustria, allora guidata da Mimì La Cavera, invece, appoggiò quell’operazione legandola alla battaglia – che era poi anche di Macaluso – contro la discesa dei monopoli e delle grandi imprese del Nord.
L’esperienza milazziana durò poco.
Fu sconfitta perché debole. Troppi nemici: gli americani interessati al petrolio e anticomunisti, la Chiesa che vedeva minata l’unità cattolica con la nascita di un secondo partito, la Confindustria che vedeva colpiti i suoi privilegi perché ambiva ad accaparrarsi le risorse finanziarie messe a disposizione dalla regione. Persino l’Eni di Mattei ebbe un ruolo ambiguo, prima appoggiando Milazzo e poi abbandonandolo.
E, infine, la grande questione: la mafia appoggiò Milazzo? Il colpo di grazia venne poi dallo scandalo del tentativo di corruzione di alcuni deputati (Vincenzo Marraro e Ludovico Corrao n.d.r.) che avevano votato Milazzo.
La vicenda lasciò comunque una ferita profonda anche nel Pci perché, sebbene appoggiata da Togliatti, non tutti dentro il partito concordavano su quell’operazione, penso a Girolamo Li Causi e a Pietro Ingrao. Macaluso definì il milazzismo come l’ultimo sussulto autonomistico della Sicilia. Dopo di che, l’autonomia avrebbe imboccato la strada del declino.
Cosa ti mancherà di più di Macaluso? E che vuoto lascia nel panorama politico desolante nel quale stiamo vivendo?
Le telefonate, ci sentivamo spessissimo. Scambiavamo opinioni. In un’intervista rilasciata qualche anno fa mostrò una grande tristezza per la sua Sicilia che definì senza antimafia e senza classe dirigente. Soffriva la mancanza di una forza di sinistra nel Paese.
Non aderì mai al Pd, perché lo riteneva un partito senza un preciso profilo ideale, culturale e politico. Una sommatoria di sigle insomma e, soprattutto, un’esperienza politica in cui non appariva netta la scelta di agganciare tale forza di sinistra al socialismo europeo. In fondo, dopo la Bolognina, il tentativo di unire il partito al socialismo europeo è sempre stata la battaglia storica dei miglioristi. I quali fecero un documento aggiuntivo a quello di Occhetto in cui, sin da allora, si chiedeva l’adesione all’Internazionale socialista e che il partito democratico di sinistra avesse nel nome un riferimento chiaro al mondo del lavoro e al socialismo.