Memoria del PCI in Sicilia
Dalle origini all’onorevole tramonto
Premessa
L’articolo ripercorre in modo sintetico la storia del Pci, dalle sue origini fino alla svolta della Bolognina, con un occhio rivolto alla realtà siciliana. Un partito che, dopo aver accolto l’eredità della rivoluzione bolscevica e delle idee leniniste, si stacca dal socialriformismo e dal trasformismo di inizio Novecento per poi fare ritorno, negli anni Ottanta, al socialismo riformista di età giolittiana. Tuttavia, la storia del Pci resta per chi scrive un’esperienza da promuovere a pieni voti ascrivendole il merito non indifferente di aver educato alla democrazia e alla partecipazione intere generazioni di uomini e donne unite da antichi ideali e dal coraggio di cambiare le sorti del nostro Paese.
La storia del Pci come una grande biografia
Partito comunista italiano: anche in Sicilia, dal 1921, cento anni di vita nominale, di cui soltanto sessantotto reali, fino al fatale 1989, per la memoria storica della sua azione e appena quarantotto se al conteggio si sottrae il lungo ventennio di clandestinità coincidente con il periodo fascista.
In concreto, meno della vita vissuta da un uomo morto ancor giovane, appena pervenuto alla maturità. Eppure nessun partito nell’isola era mai stato come e più di quello comunista realmente un partito. ovvero, per dirla con Gramsci, un “principe”, un soggetto collettivo capace di convogliare e formare coscienza politica di popolo, con tanta efficacia da far sì che, per effetto della sua esperienza, la Sicilia diventasse un’“altra Sicilia”, evadendo finalmente dai limiti antichi della sua condizione insulare e periferica. Per quanto sia da riconoscere che questa considerazione sarebbe fin troppo generica, per chi volesse accingersi (non però qui il sottoscritto) a ricostruire in modo organico e completo la storia di tale esperienza, e che può qui leggersi come il dettato celebrativo di un vecchio militante in occasione di un centenario, mi sembra quasi indubbio che di nessun’altra formazione politica si potrebbe scrivere la storia pensandola unitariamente come una specie di biografia, così assumendo proprio l’attività di un soggetto (nel caso specifico un soggetto collettivo) quale fulcro e motore degli eventi narrati e non viceversa.
Naturalmente, sfidando il senso comune (però sul filo di una nota e autorevole affermazione di Eric Hobsbawm), si potrebbe anche accettare che il biografo migliore sia, di solito, lo studioso capace di vedere le cose dall’”interno”, ovvero lo storico che da militante abbia avuto parte nella biografia. E va subito rilevato che un biografo del genere – il quale, in quanto militante comunista, non potrebbe non essere anche un marxista, soprattutto per quel che riguarda le origini del Pci in Sicilia – non potrebbe avviare la sua ricostruzione nella memoria se non con qualche disagio.
Infatti, se non niente, assai poco di quel che la teoria e la prassi marxiste ritenevano necessarie per la costituzione, e soprattutto per il radicamento sociale di un’”avanguardia comunista” (che non fosse soltanto un piccolo club di volenterosi con idee di importazione), esisteva realmente nell’isola. Certo, in qualche misura la questione, data l’arretratezza complessiva dell’intera Italia rispetto ai processi della modernizzazione industriale, non riguardava soltanto la Sicilia e l’insieme del Mezzogiorno, perché coinvolgeva intere ed ampie regioni settentrionali del Paese. Ma il Nord poteva contare sulle già imponenti masse lavoratrici della Torino operaia, del Milanese, del Genovesato e di altre aree nelle quali anche lo sviluppo dei conflitti sociali nelle campagne avevano espresso forme organiche e stabilizzate di lotta di classe, sempre meno contenibili (soprattutto dopo la grande guerra) entro gli schemi di controllo sociale messi a punto dal giolittismo nei termini e nei limiti di una dialettica tra liberalismo e socialismo.
La Sicilia tra socialriformismo e trasformismo di sinistra
Quanto in Sicilia, nel primo ventennio del XIX secolo, ancora alla vigilia della fondazione di Livorno, già esisteva ai fini della formazione di quello che sarebbe stato, dal 1921, il Partito comunista d’Italia (PCdI) una piccola “avanguardia operaia” organizzata dalla Fiom e largamente coincidente con i lavoratori sindacalizzati del cantiere navale di Palermo. Che però – a parte la sua esiguità – rischiava di essere un’“avanguardia” senza esercito, ovvero una paradossale avanguardia del niente, in una nebulosa di mestieri artigiani e di vario sottoproletariato urbano più inclini al perseguimento di immediate opportunità corporative che ad organiche strategie di azione ideologicamente motivate. All’ombra di una Camera del lavoro le cui componenti settoriali molto faticavano a fondersi nello spirito di un’unitaria “coscienza di classe” da movimento operaio e subivano, piuttosto, le conseguenze della linea opportunistica (la cui attenzione era nei fatti ristretta soltanto alla questione dei miglioramenti salariali) perseguita da dirigenti subalterni al padronato (in specie all’egemone Casa Florio) e al personale politico di ufficiale e molto impropria militanza “socialista”. Che tale padronato condizionava e talvolta addirittura esso stesso formava nelle figure di leader “riformisti” come Aurelio Drago, Giuseppe Garibaldi Bosco, Filippo Lo Vetere, Ubaldo Guarrasi, Francesco Musotto, Vito Raja, Emmanuele Raimondi, e Alessandro Tasca di Cutò (il cosiddetto “principe rosso”), spesso non estranei ad oscure alleanze elettorali ora con il liberale Vittorio Emanuele Orlando, ora con il “democratico” Camillo Finocchiaro Aprile e persino, in empiti di generalizzato sicilianismo, con politicanti mafiosi “a stipendio” dei Florio come Vito Palizzolo.
Insomma, nel complesso, sia a Palermo che nella Catania di Giuseppe De Felice Giuffrida, il tutto del socialriformismo consisteva in una provinciale nebulosa di trasformismo di sinistra (interno alla stessa organizzazione che si richiamava al socialismo) che bloccava le istanze pur autentiche di lotta del mondo del lavoro confinandole alle pratiche di un sindacalismo spicciolo e subalterno, in una visione sostanzialmente corporativa dei rapporti tra padroni ed operai.
Come si vede, non poche sono nei fatti le ragioni che stanno alla base del disagio, circa le origini del Pci in Sicilia, sopra dichiarato da uno storico come il sottoscritto che, in una fase di ormai avvenuta affermazione, ne ha personalmente vissuto la militanza. Persistendovi l’inconsistenza di un movimento operaio, non sarebbe stata credibile, da una prospettiva marxiana, persino l’ipotesi che un tale partito potesse nascervi, se non nella forma di un qualche pittoresco cenacolo di intellettuali e di visionari. Ma spesso l’andamento reale dei processi storici (come nel caso più eclatante è accaduto in Cina e, in parte, anche in Russia) interviene a smentire o a rendere perlomeno “adattabili” le previsioni e le petizioni di principio della teoria. Questo spesso accade per la forza inattesa di eventi imprevisti e imprevedibili.
La Grande guerra e la Rivoluzione d’ottobre “sparigliano le carte”
Nel caso in questione, l’evento decisivo fu la guerra mondiale. Nell’immediato, si potrebbe dire che sparigliò tutte carte dell’uggioso gioco politico-clientelare di un “riformismo socialista” rimasto per oltre un quindicennio (1901-1915) confinato ad una dimensione prevalentemente urbana e in specie a quello delle città più moderne e popolose (Palermo, Catania, Messina). Mentre nelle campagne, soprattutto dell’area centro-occidentale dell’isola, restava del tutto irrisolta la questione della terra e le emergenti forze popolari, seppure organizzate in cooperative e leghe, restavano isolate nel loro tentativo di affrancarsi dal potere dei latifondisti e dei gabelloti mafiosi, e subivano violente e sanguinose repressioni (si pensi agli eccidi di Castelluzzo, Gerratana, Grammichele ecc.), nonché l’assassinio dei loro attivisti più coraggiosi, tra gli altri i Bernardino Verro e i Lorenzo Panepinto.
A questo punto, è obbligatorio richiamare l’eccezionale conflittualità sociale del dopoguerra che avrebbe, da lì a poco, travolto in Italia lo Stato liberale e che intanto rimpinguò di più vaste basi di massa sia i sindacati che il vecchio Psi e diede impulso alla nascita del nuovo grande partito dei cattolici (il Ppi) e slancio a importanti movimenti di reduci e combattenti che avanzavano richieste radicali di cambiamento per il lavoro, per i diritti e per le opportunità individuali e sociali, attivando, insieme ai socialisti e ai cattolico-popolari, un’offensiva contadina per la conquista della terra con diversificati ma convergenti progetti di “riforma agraria”. [Per la ricostruzione e l’analisi dell’intero processo, rinvio al mio Partiti e lotta di classe in Sicilia da Orlando a Mussolini, Bari, De Donato, 1976].
Specificamente per quanto riguarda l’inedita possibilità della nascita in Sicilia di un partito comunista idoneo ad appartenere, ben al di là dei limiti geografici e storici dell’isola, all’orizzonte strategico del “Nord operaio” disegnato dal torinese “Ordine Nuovo” di Gramsci e Togliatti, è da evidenziare l’influenza ideologicamente innovativa e di decantazione organizzativa che esercitò sull’intera esperienza dello stentato riformismo socialista isolano la lezione della Rivoluzione d’ottobre. Con la sua contestuale lezione leninista per impostare e rendere efficace in termini di prospettiva rivoluzionaria un’alleanza tra operai e contadini, tra “città” e “campagna”, che fosse idonea ad attrarre anche l’apporto di una più vasta intellighenzia di intellettuali e borghesia progressista.
La strategia leninista e gramsciana dell’”alleanza operai-contadini” era, in concreto, anche quella di un’alleanza nazionale Nord-Sud, in alternativa all’assai duraturo blocco storico tra padronato industriale e latifondisti ed agrari meridionali che aveva contrassegnato l’intera storia del regno fino a tutta l’età giolittiana, condannando, come si già rilevato innanzi, il riformismo ad una stentata sopravvivenza ampiamente complice e subalterna.
La fertilità, per le questioni che si agitavano in Sicilia, della lezione proveniente dalla Rivoluzione russa consisteva – oltre che nel segnare le direttici per riscattare da un lungo isolamento rispetto alla “città” le forze popolari delle “campagne” – soprattutto nella risposta risolutiva (“la terra ai contadini”, e in proprietà diretta e personale, non sotto i vincoli di un’obbligante “socializzazione”!) che essa offriva al mondo contadino. Una risposta che il socialismo, condizionato dalla dommatica e dalla retorica di una vetero-ortodossia marxista, non era mai stato in grado di elaborare. Averla colta, quella strategia leninista, nel suo significato innovativo rispetto alla tradizione del vecchio riformismo e averla posta a guida dell’azione progressista per mete differenziate ma integrabili di rivendicazioni e di lotte popolari, sia nell’ambito urbano-operaio sia in quello rurale-contadino, fu tout court l’atto di nascita (in una specie di scomoda culla socialriformista presto abbandonata) di un Partito comunista in Sicilia e il viatico per il suo radicamento.
Della sua traduzione nella prassi del lavoro politico-organizzativo si resero protagoniste a Palermo, con proiezioni nell’intera isola, le forze aggregate dalla Fiom nel cantiere navale e nel modesto tessuto industriale della città, guidate da quell’eccezionale sindacalista che era Giovanni Orcel, il cui omologo nelle campagne, alla guida dei contadini che occupavano le “terre incolte o mal coltivate” nell’entroterra palermitano, era il colto contadino Nicola Alongi [se ne veda la mia ampia rievocazione biografica, Vita e martirio di Nicola Alongi, contadino socialista, Palermo, Novecento, 1997].
Dall’azione protocomunista alla nascita dell’“avanguardia”
L’azione, nel 1920, di entrambe le componenti di un unitario movimento di classe che poteva ben dirsi a diverso titolo “proletario”, precedette in Sicilia la stessa formazione ufficiale del Partito comunista, ma era comunque un’azione protocomunista. E questo fu possibile che accadesse – si sottolinei l’osservazione – perché nella memoria delle forze popolari in Sicilia sopravvivevano la tensione ideale e la progettualità politica di una grande esperienza di cui l’isola era stata originale, per quanto sfortunata, protagonista alla fine del secolo precedente: un’esperienza costituita da quel movimento di massa (precocemente anch’esso di simbiosi tra città e campagna) i cui organismi operativi, i Fasci dei lavoratori, per molti versi anticipavano i soviet che avrebbero contrassegnato le rivoluzioni in Russia, da quella del 1905 all’altra del 1917.
Lo stesso Nicola Alongi veniva da tale esperienza che, per così dire, riprese il suo corso nel 1920 evolvendosi, rinnovandosi, sotto l’impulso che veniva dal Nord, come partecipazione del “proletariato” siciliano al “biennio rosso”, nella simbiosi operativa tra occupazioni dei latifondi e occupazioni delle fabbriche (in primis, il cantiere navale di Palermo).
È triste ricordare che in quello stesso anno di lotte finalmente – svoltesi non più in una condizione di solitudine insulare ma di partecipazione a un movimento nazionale (dalla “Torino operaia” alla Sicilia “contadino-operaia”) – i capi del movimento, Nicola Alongi e Giovanni Orcel, l’uno dopo l’altro furono assassinati dalla mafia che operava come strumento di autodifesa del fronte padronale. Ma da quelle tragiche sorti nacque, a superamento dei vecchi e impotenti opportunismi socialriformisti di inizio secolo, l’”avanguardia” destinata a riconoscersi e a consolidarsi nel “Partito comunista d’Italia (PCdI), organo dell’Internazionale comunista”.
Certo, trattandosi soltanto di un’“avanguardia” (per definizione quantitativamente assai limitata e per giunta in una realtà come la Sicilia che restava comunque periferia dei processi decisivi della storia nazionale), essa, alla sua non facile evoluzione in partito, dovette pagare un prezzo di settarismi e di polemiche interne, sempre più accese e divisive, tra la corrente bordighiana (appunto quella che si riconosceva a livello nazionale nel napoletano Amedeo Bordiga) e l’altra “ordinovista”, all’inizio minoritaria, che si stava formando con la leadership di Gramsci, Togliatti, Tasca e Terracini.
La fiammata idealmente “rivoluzionaria” dell’anno 1920 sarebbe stata spenta dal fascismo che aveva le sue basi in Sicilia – oltre che, come nel resto d’Italia, nel disagio dei ceti medi e nella contestuale condiscendenza delle vecchie correnti liberali (si pensi al ruolo di Vittorio Emanuele Orlando) – soprattutto nel blocco dei poteri mafiosi e dei tradizionali interessi agrari.
Comunque, dall’anno successivo – l’anno della nascita del PcdI con la scissione di Livorno – l’insediamento sociale del nuovo partito nell’isola (del resto come altrove) si sviluppò in modo molecolare, con crescenti migrazioni dall’area del frantumato socialismo storico (in specie dalla corrente massimalista nazionalmente organizzatasi intorno a Giacinto Serrati). Al fine, era stata consapevolmente prescelta la strada di una forma-partito di ispirazione bolscevica, ovvero di una formazione partitica non proiettata verso un’estensione organizzativa di massa ma destinata ad agire nella società come una centrale di quadri militanti (secondo la loro auto-definizione, “rivoluzionari di professione”).
Conseguentemente, nel breve periodo in cui fu consentita la sopravvivenza della lotta politica in Italia – prima delle “leggi fascistissime” del 1926 che imposero definitivamente la dittatura e il monopartitismo fascista – la raccolta di nuovi militanti comunisti in Sicilia restò quantitativamente assai modesta. In tutto, secondo i dati ricavati dalle carte dell’archivio Pio La Torre presso l’Istituto Gramsci siciliano, 776 iscritti nel 1921, scesi poi a 530 nel 1926. Più consistenti furono i risultati conseguiti in termini di consensi elettorali: 10.840 voti nelle elezioni politiche del 1921, in percentuale un risultato dell’1,59%, di poco inferiore a quello ottenuto dai “socialisti unitari” (2,16%, con 14.736 voti), ma superiore a quello ottenuto dai “massimalisti” di Serrati (1,3%, con 7.673 voti); un esito elettorale complessivamente confermatosi nelle elezioni del 1924, quelle svoltesi sotto i vincoli della “legge Acerbo” imposta dal nascente regime, con poco più di 10.000 voti che fruttarono l’elezione al parlamento del primo comunista siciliano, il messinese Francesco Lo Sardo, appena transitato al PCdI dai socialisti massimalisti, prossima figura eroica, ingiustamente quasi dimenticata, dell’opposizione alla dittatura.
La clandestinità
Poi, nel ventennale inverno della clandestinità, reiterando il suo originario modello organizzativo di partito di quadri, sopravvisse stentatamente, mantenendo faticosi rapporti con il “Centro interno” e con quello “estero” (soprattutto con la succursale clandestina insediatasi in Tunisia). Tenendo in vita i collegamenti con le basi proletarie della militanza nelle campagne e nelle miniere e avviando o rafforzando, qui e là, le alleanze con gli intellettuali e con i borghesi democratici (si pensi, tra gli altri, a Giovanni Guarino Amella) e persino con i cattolici progressisti (tra questi, in primis, Giuseppe Alessi). Questo, ovviamente, fronteggiando a malapena le difficoltà di una situazione che esponeva alla vigilanza occhiuta dei podestà, dei federali e delle prefetture, alle retate della polizia fascista, alle “ammonizioni”, alle carcerazioni e al confinamento.
Certo, lo si è già rilevato, una forza che nel suo complesso era assai limitata, predisposta ad operare come una specie di lievito progressista nella società, con una preminente presenza di giovani, tra i quali quel gruppo di studenti dell’Università di Palermo che, provenienti dal socialismo di estrema sinistra, intorno a Giuseppe Berti e a Giuseppe Granata, già nel 1921 erano entrati nel PCdI [cfr. Gastone Manacorda, Storia di un antifascista. G.Granata, in “Studi storici”, 3, luglio-settembre 95, n. 36]. Tenuto conto del lavoro politico che riuscì a svolgere, non è il caso di sopravvalutarla, tale forza, ma sarebbe un far torto alla realtà come pure ha fatto il bravo Sebastiano M. Finocchiaro in un recente saggio (Il Partito comunista nella Sicilia del dopoguerra, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2010) definirla «poco più di un pulviscolo di gruppi locali, con una forte tendenza al frazionismo», per quanto anticipasse «l’esperienza dei movimenti per la rinascita del Mezzogiorno promossi poi da Alicata, Amendola e De Martino».
Oltre tutto, come quel “pulviscolo” rissoso avrebbe potuto anticipare la “rinascita del Mezzogiorno”? Invero, è più corretto riconoscere che non di un “pulviscolo” si trattava, ma di una rete di cellule attive e volenterose per le quali, data la condizione periferica dell’isola e il proibitivo stato delle comunicazioni sotto la dittatura fascista, non era sempre facile un organico allineamento alle strategie politiche elaborate dalla direzione nazionale del partito.
Tale rete, ovvero, se si preferisce una metafora, tale arcipelago di cellule, costituì in vario grado la forza propulsiva dell’antifascismo siciliano del ventennio, una parte del quale – con personaggi di alto livello e di grandi capacità sia politiche che militari (per tutti basti richiamare Pompeo Colajanni e Salvatore Di Benedetto) – avrebbe partecipato, nell’Italia del Nord, alla guerra di liberazione. Forza propulsiva ed anche egemone, soprattutto nel centro dell’isola e nel suo occidente, l’area nella quale più densa e intollerabile era l’oppressione esercitata sui contadini e sui lavoratori delle miniere di zolfo dai tradizionali poteri della mafia e degli agrari protetti dall’ordine del regime. Ed anche l’area nella quale risultava più facile, e quasi necessario, costruire una clandestina operosità antifascista insieme alle correnti cattoliche del popolarismo sturziano, ancora presenti nel territorio con gli Aldisio, gli Alessi, i Milazzo, i La Rosa.
A netto vantaggio dei comunisti, a determinarne il ruolo egemone non fu tanto la pur sempre modesta consistenza quantitativa dei quadri di cui disponeva il partito, quanto il fatto che essi fossero reali espressioni organiche del popolo, ovvero dotati di autorevolezza e di stretti collegamenti con vaste masse di contadini, minatori ed operai.
Esemplare per incisività organizzativa e per costanza fu, in tale quadro, specificamente nel Nisseno, l’attività di Calogero Boccadutri – un militante mai sufficientemente ricordato, se non soltanto come maestro riconosciuto di un futuro grande dirigente nazionale del livello di Emanuele Macaluso – che creò condizioni idonee ad assicurare una larga base popolare all’antifascismo di una vivace élite di intellettuali formatisi all’ombra di Elio Vittorini e nel cenacolo dell’editore Salvatore Sciascia, tra i quali, oltre il già menzionato Pompeo Colajanni (il futuro “comandante Barbato” ), Gaetano Costa, Gino Cortese (futuro partigiano e poi deputato), Nicola Piave ed anche il giovane, già brillante scrittore, Leonardo Sciascia. E non meno rilevante fu, nell’Agrigentino, l’analogo ruolo svolto da dirigenti come Cesare Sessa, Giuseppe Sciabica e Gaetano Gaglio.
Girolamo Li Causi e la nascita del “partito nuovo” in Sicilia
Quanto si è fin qui sommariamente ricostruito potrebbe assumersi come un complesso antefatto della storia reale del grande partito del secondo dopoguerra, il partito di massa (ovvero il “partito nuovo” secondo la definizione di Togliatti). Ma, invero, non di un mero antefatto si tratta, bensì di un processo generativo, perché fu proprio dall’esperienza frammentata del PCdI, da quell’arcipelago di cellule (sempre più tra loro collegate e rese combattive da un antifascismo che faceva aggio sull’originaria ispirazione bolscevica) che nacque anche in Sicilia, nel 1944, il corpo compatto del grande Pci, guidato da quel mitico dirigente siciliano venuto dal Nord, formatosi nel movimento operaio e temprato dalla partecipazione alla Resistenza, che era Girolamo Li Causi, “lo zio Mommo” dei contadini [per una completa biografia, rinvio a Massimo Asta, Girolamo Li Causi, un rivoluzionario del Novecento, Carocci, Roma 2018].
Il “partito nuovo” poteva contare su quadri già maturi e sperimentati sia nella profonda Sicilia delle campagne, sia nelle città dove la maggiore novità era forse costituita, a latere delle cellule operaie, dall’attivismo di “intellettuali organici” anche di provenienza borghese cresciuti nell’antifascismo, tra i quali, a Palermo, con un riconosciuto ruolo preminente, un raffinato giurista come il professor Giuseppe Montalbano e il futuro critico d’arte Franco Grasso, molto vicino al giovane “compagno” Renato Guttuso.
Non nasceva dal nulla, quel “partito nuovo”, come invece sembra suggerire, con la malizia di una certa visuale di riformismo anticomunista, Alfio Mastropaolo parlando di una lunga” invenzione” del Pci nell’isola [cfr. Idem, Come fu inventato il Partito comunista in Sicilia tra il 1943 e il 1948, in “Meridiana”, 90]. Questo, anche se è persino ovvio non dubitare del fatto che pochissimi (compresi gli intellettuali) tra quelli che affluirono al Pci e ne divennero combattivi militanti avessero letto Marx e gli scritti teorici del marxismo. I più vivevano il fascino dell’Armata rossa vittoriosa sul nazifascismo e tributavano un tanto ingenuo quanto fervido culto alla Russia del compagno Stalin, solare e rosso Paese del socialismo realizzato. Come è per altri versi vero che moltissimi tra i giovani siciliani (secondo quanto sempre più si sta finalmente riscoprendo per merito del lavoro di studio e di ricerca dell’Anpi) divennero comunisti combattendo al Nord la guerra di liberazione nelle brigate “Garibaldi”.
In definitiva, il Pci, in Sicilia, si consolidò e si espanse, dando un’estensione di massa a quell’egemonia sull’antifascismo che già le sue cellule avevano conquistato nel corso del ventennio fascista. E dire “estensione di massa” equivale a far riferimento al successo dell’azione guidata da Li Causi tendente ad attivare nell’isola lotte di popolo (in specie delle grandi masse contadine) che, per la loro qualità di liberazione da antiche ingiustizie ed oppressioni aggravate dalla dittatura fascista, fossero de facto l’equivalente nell’isola della guerra contro il nazifascismo che nel 1944 si stava combattendo al Nord.
Questa operazione – bene evidenziata da una, pur filologicamente rigorosa, storiografia militante (cfr. ad esemplificazione, l’aurea sintesi di Francesco Renda, Il movimento contadino in Sicilia, De Donato, Bari, 1976) – cominciò a svilupparsi nel quadro della politica meridionalistica avviata, ancora nell’Italia sotto occupazione militare, dal comunista Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura del secondo governo, di unità nazionale, presieduto dal generale Badoglio. Con i “decreti Gullo” dell’ottobre 1944 (per una nuova disciplina dei patti agrari e per l’assegnazione a cooperative di contadini delle “terre incolte o mal coltivate”, ovvero di vaste estensioni di latifondo in mano ai poteri agrario-mafiosi), l’iniziativa politica comunista, in un fronte comune con i socialisti del Psi, riattivò, dotandole di una visuale strategica orientata verso la conquista di una grande “riforma agraria”, le rivendicazioni del mondo popolare delle campagne (particolarmente dei braccianti e dei piccoli coltivatori), sulle medesime linee d’azione già tracciate dal movimento del primo dopoguerra (ne erano stati allora il detonatore i decreti “Falcioni e Visocchi” emanati dal governo Nitti) nel fuoco del “biennio rosso”.
L’azione contadina e il movimento separatista
Di nuovo, nelle campagne, per l’attuazione della legislazione Gullo, riprese vigore l’azione contadina con l’occupazione dei cosiddetti “feudi”. E di nuovo, le bandiere rosse che si issavano sulle terre occupate sventolavano insieme al tricolore, in un movimento consapevole di non essere isolato, ma sostenuto nazionalmente dal movimento operaio e dalle forze combattenti della Resistenza.
Il che, come è noto ed è il caso di ricordare, comportò, per l’azione diretta da Li Causi, due convergenti direttrici di lotta: l’una, eminentemente sociale, contro il capillare e criminale potere di ostruzione e di intimidazione permanente della mafia; l’altra, soprattutto politica, contro il cosiddetto “indipendentismo siciliano” di Andrea Finocchiaro Aprile, la forza irruenta del separatismo sicilianistico (organizzata nel Mis) che, alimentata dalla mafia e sostenuta dai latifondisti, aveva attratto vaste porzioni della popolazione, con rilevante coinvolgimento dei ceti medi.[Per un’analisi di dettaglio, rinvio alla mia Storia del separatismo siciliano, Editori Riuniti, I ed. Roma 1976].
Furono efficaci allo scopo – per quanto sempre travagliati ed esposti ad una concorrenza non sempre leale e alla discordia – i rapporti di alleanza instauratisi su tali questioni con il mondo cattolico della Dc (gli Aldisio, gli Alessi, gli Scelba, i Mattarella, i Milazzo, i Restivo). ll MIS fu affrontato con un’abile tattica tendente ad emarginarlo dal lavoro istituzionale per la rinascita democratica, nonché a deprivarlo progressivamente di sostegno sociale e di “svuotarlo” di credibili proposte politiche, assorbendone e “normalizzandone” le rivendicazioni positive ai fini di un impianto democratico delle nuove istituzioni e assorbendone l’area di “sinistra” (quella già rappresentata in forme aggressive dal giovane e sfortunato “guerrigliero sicilianista” Antonio Canepa e l’altra costituitasi intorno al futuro deputato comunista Antonio Varvaro), convogliando il tutto verso il traguardo dell’Autonomia speciale della Sicilia che fu raggiunto nel 1947 concretizzandosi, prima ancora della Costituzione, nello Statuto siciliano.
Nel contempo, l’azione contro il blocco agrario-mafioso per la riforma agraria fu condotta con un organico lavoro sindacale della Cgil unitaria e con sempre più efficienti organizzazioni di massa (la Federbraccianti, l’”Alleanza dei contadini”, la Lega delle cooperative). Tra grandi manifestazioni, occupazioni di terre e poi anche con costante pressione politica nel parlamento regionale, diede slancio alla coinvolgente esperienza di popolo che avrebbe conseguito un risultato parzialmente corrispondente alle istanze del mondo contadino con la riforma agraria varata, nel 1950, dall’Assemblea regionale.
Nell’insieme, tutta una fase storica contrassegnata da lotte pagate, fino alla strage di Portella della Ginestra e parecchio oltre, con un centinaio di vittime della violenta reazione mafiosa, una fase eroica, di cui giustamente la memoria storica dei militanti coltiva l’epopea [cfr. Dino Paternostro, La lunga strage dei contadini, in G.C.Marino (a cura di), La Sicilia delle stragi, pp. 274-332, Newton&Compton, Roma, I. ed., 2007].
La via italiana al socialismo
In quella fase, la politica di Li Causi sostanzialmente tradusse in una prassi sistematica, in Sicilia, le direttive per la cosiddetta “democrazia progressiva” del “partito nuovo” togliattiano sempre più funzionale ad una “via italiana al socialismo” originale e autonoma rispetto al Cominform e all’Unione Sovietica [per l’intera questione, rinvio a Aldo Agosti, Togliatti, Utet, Torino 1996, pp. 277-293]. Conseguentemente, fu un’azione ideologicamente “laica” nel liberarsi da residui di settarismo e nell’aprirsi a collaborazioni interclassiste, così conquistando, e inglobando, quote crescenti di borghesia progressista e soprattutto di intellettuali e tecnici di alto valore. Persino, a volte, provenienti dal personale di enti creati dal regime fascista, come l’ingegnere Mario Ovazza, presto resosi attivo ed autorevole militante, insieme a quelli che erano stati i suoi diretti collaboratori (gli Otello Marilli e i Serafino Scrofani) alla guida dell’Ente (già fascista) per la colonizzazione del latifondo.
Giovani quadri, quali Nicola Cipolla, Emanuele Macaluso, Francesco Renda e innumerevoli altri perfezionarono la loro formazione politica tra sindacato e partito. A latere, cominciò a svilupparsi un avveniristico processo organizzativo delle donne comuniste nell’Udi. Né va trascurato il ricordo del lavoro culturale svolto direttamente o indirettamente dal partito tramite una rivista come “Chiarezza” (il pendant siciliano, edito da S. Fausto Flaccovio, de “Il Politecnico” di Vittorini) e poi, in modo sistematico, con inchieste coraggiose e rubriche di vasto impatto informativo e civile, sulle pagine del quotidiano palermitano “L’Ora”, specialmente sotto la direzione di Vittorio Nisticò; celebri gli apporti specifici di firme quali quelle di Felice Chilanti, Danilo Dolci, Leonardo Sciascia.
Volendo adesso riassumere, si può rilevare che il mito di un’”età dell’oro” per il Pci della stagione che si intitola a Li Causi (e nella sua parte finale anche a Paolo Bufalini) si fonda sui dati reali di un’azione coerente e ricca di risultati positivi (al di là dell’utile elettorale dello stesso partito che era arrivato in tempi rapidi, nel 1947, a conquistarsi addirittura, insieme ai socialisti alleati nel cosiddetto “Blocco del popolo”, la maggioranza dei seggi nel primo parlamento regionale). Le cui direttrici fondamentali, e convergenti, erano state le tre seguenti: la lotta nelle campagne per la riforma agraria; l’antimafia radicale e intransigente pagandone deliberatamente gli alti prezzi per la vita dei militanti; il convinto impegno per la fondazione dell’Autonomia siciliana e per l’attuazione del suo Statuto, innalzando la vecchia e irrisolta “questione siciliana” al livello di una questione istituzionale e sociale nazionale.
Chiusasi la fase storica degli anni Cinquanta, nel corso della quale – in un orizzonte difficile segnato dalla configurazione centrista del sistema politico nazionale-regionale all’ombra del primato elettorale della Dc – il Pci aveva visto crescere in Sicilia la sua forza e il suo prestigio quale principale partito di un ”autonomismo democratico”, fortemente ancorato sia alle masse popolari (specie contadine) che alla borghesia progressista, ed era stato determinante per il cambiamento dell’intera morfologia sociale dell’isola con i colpi decisivi inferti dalla sue lotte all’antico sistema socio-economico del latifondo e ai tradizionali poteri agrario-mafiosi.
Quel che si è già anticipato all’inizio di questo scritto può adesso ottenere una più puntuale conferma. Un’ “altra Sicilia”, riscattata da un lungo passato di autoesclusione dalla modernità si apriva a quello sviluppo complessivo del Paese che sarebbe stato chiamato “miracolo economico”, con la dotazione di forze dirigenti nuove, di inedita origine popolare, che la stessa militanza nel sindacato, nelle organizzazioni di massa e soprattutto nel partito avevano educato ad un uso attivo della democrazia. Ma c’è da chiedersi adesso quali sarebbero stati per il Pci e sul Pci, anche in Sicilia – nel successivo quarantennio, dalla stagione del centro-sinistra a quella successiva del cosiddetto “compromesso storico” e della “solidarietà nazionale”, fino alla lunga fibrillazione degli anni Ottanta che precedette la sua fine – gli effetti dei cambiamenti che esso stesso aveva decisivamente contribuito a determinare.
Il primo e il più generale di questi effetti è forse da vedersi in un processo di crescente “normalizzazione” in quella dinamica partitocratica felicemente denominata da Pietro Scoppola “repubblica dei Partiti”. Pur mantenendo i tratti della sua originalità classista e un costante impegno nella direzione della togliattiana “democrazia progressiva”, confermando e adeguando alle situazioni via via mutate il suo ruolo-guida nell’antimafia, nella promozione della giustizia sociale e nelle battaglie pacifiste e anti-imperialistiche – così continuando a preservare quella sua “diversità” che sarebbe stata rivendicata da Enrico Berlinguer – tuttavia sempre più il Pci in Sicilia prese a funzionare, tra forze concorrenti (tra le quali adesso anche quelle del Psi), come un organo regionale, per quanto fosse il più ufficiale e caratterizzato organo di sinistra, della dinamica partitocratica nazionale che, de facto, stava svuotando l’ “autonomia” della Regione, dato che i partiti anche nell’isola si stavano trasformando in centrali di trasmissione, burocraticamente vigilate e dirette, delle decisioni elaborate dai partiti in sede nazionale e consegnate all’imperioso lavoro esecutivo delle rispettive segreterie nazionali.
La burocratizzazione del Pci e l’Operazione Milazzo
Nel corso di tale processo, che segnava rilevanti cambiamenti rispetto alla situazione precedente, nel Pci le tattiche messe in campo nella sede parlamentare dell’isola (l’ “Assemblea regionale”) per l’esercizio del suo ruolo di ufficiale opposizione al sistema di potere democristiano divennero difficoltosamente, e non sempre coerentemente, sintonizzate con le urgenze e le rivendicazioni di una base militante. Che, a dispetto delle speranze già sollevate dal successo conseguito con la riforma agraria, si trovava ad affrontare, sull’estrema frontiera del Mezzogiorno, i disagi e le contraddizioni prodotti da nuovi, imprevisti fenomeni di riconferma del sottosviluppo tra i quali il progressivo svuotamento delle campagne per la “fuga” verso il Nord industriale e verso l’Europa, in una nuova ondata emigratoria, di gran parte dei contadini attratti dal miraggio di migliori condizioni di vita; una caotica urbanizzazione stimolata dalle centrali della burocrazia regionale; il contestale rafforzamento della presenza della mafia nelle realtà urbane; il dilagare della corruzione nelle amministrazioni pubbliche; l’evidenza di altre diseguaglianze in aggiunta a quelle tradizionali non rimosse e il più pesante sfruttamento del lavoro.
Data la difficile sintonia sopra evidenziata, spesso il “far politica” nella sede del lavoro parlamentare, con tutte le sue esigenze di tatticismo e di duttilità ai compromessi, divenne prevalente rispetto ad un’“opposizione sociale” tenuta in vita, e solitamente ancorata a richieste tutto sommato moderate di “passi in avanti” entro l’esistente, provenienti dal Sindacato e dagli organismi di massa.
Non a caso tra i militanti si cominciò a parlare del pericolo di “imborghesimento” del partito. Comunque, a parte l’imprecisione e il carattere provocatorio di tali opinioni, è indubbio che, per quanto riguardava la leadership del partito, si stesse passando dai “rivoluzionari di professione” dell’antico PCdI ad una burocrazia partitica di funzionari calati dall’alto, soltanto formalmente eletti dalle assise congressuali del territorio e, specificamente nel caso dei segretari federali e di quello regionale, di norma direttamente nominati dalla Direzione nazionale. Una leadership amministrativa, pertanto, per un partito molto simile ad una chiesa guidata da un suo specifico clero che pure, con riferimento alla sua ideologia e al complesso della sua organizzazione, continuava a vantare titoli di “avanguardia” e di “cervello collettivo” della classe operaia. Solo che, invero, in Sicilia la “classe operaia” restava piccola cosa, mentre il mondo contadino che nel concreto – come ha scritto non troppo felicemente Sebastiano Finocchiaro – ne aveva sostenuto la linea di sviluppo “contadinesca”, si stava dissolvendo, rendendo prevalente una più generica e interclassista forza democratico-progressista il cui vistoso “fiore all’occhiello” era costituito dalla colta corrente di intellettuali e di simpatizzanti non organici che vi confluiva.
Nel suo “far politica” dentro le istituzioni il prestigio conseguito fu più grande dell’entità reale della sua forza reale. In altri termini, il perfezionamento interclassista della cosiddetta “politica delle alleanze” – perseguito dai successori di Li Causi alla segreteria regionale – rese il partito, nella sede parlamentare siciliana e nella percezione della società civile, ancor più influente di quel che di per se stessi i consensi registrati nel corso delle competizioni elettorali (mediamente tra valori di poco inferiori al 20% e valori di pochi punti superiori a tale soglia) avrebbero consentito.
La linea strategica perseguita, nell’orizzonte degli orientamenti meridionalistici specificamente ascrivibili soprattutto ad Alicata e ad Amendola, fu in generale quella stessa elaborata dalla direzione togliattiana, seppure con delle varianti indotte dall’”autonomismo” (ancora fermamente radicato nel partito siciliano) che ne complicarono e alla fine ne resero infelice l’attuazione. E qui la memoria corre inevitabilmente alla cosiddetta “operazione Milazzo” (1958-1960), denominata enfaticamente anche “operazione Sicilia”, di cui fu protagonista il segretario regionale Emanuele Macaluso, in sintonia con l’esponente di un’anomala sinistra liberale sicilianistica, Domenico (Mimì) La Cavera.
Volendo qui limitarci ad un breve richiamo di quell’operazione, è utile indicarne l’originaria conformità con la strategia nazionalmente perseguita da Togliatti, il quale, infatti, aveva impegnato il partito su due fronti di battaglia contro il sistema di potere capitalistico-democristiano: l’uno, economico, per una lotta ai cosiddetti “monopoli” (privati); l’altro, politico, per disarticolare, confondere e dividere il fronte avversario e, possibilmente, la stessa Dc che stava vivendo il travaglio di un conflitto interno tra la sua destra e la sua sinistra.
La lotta ai “monopoli”, nella versione che se ne poteva avere traducendola in “siciliano”, equivaleva ad una lotta contro un ennesimo tentativo nordista di accaparramento delle risorse dell’isola con una conseguente neocolonizzazione. Un tentativo, già in corso con aziende dei settori chimico e petrolifero, particolarmente avversato tanto dalle componenti del mondo agrario-imprenditoriale rappresentate dal democristiano Milazzo quanto da quelle della Sicindustria siciliana (in rotta con la Confindustria), impersonate dall’ingegnere La Cavera, che temevano il soffocamento di un autonomo sviluppo industriale siciliano. Come è arcinoto, la ferma disubbidienza di Milazzo all’ordine, impartitogli dalla segreteria nazionale retta da Fanfani, di dimettersi dalla carica di presidente della Regione perché eletto con il concorso dei voti comunisti, fece esplodere una rivolta sicilianistica che, per tensioni e temi sollevati, richiamava quella del separatismo del dopoguerra. Ad essa parteciparono in diverso grado di coinvolgimento tutte le forze partitiche (comprese quelle neofasciste del Msi) avverse alla Dc, la quale, a sua volta, si spezzò in due, avendo Milazzo costituito – per un biennio alla testa di due successive Giunte di governo sostenute da abborracciate e piuttosto stentate maggioranze assembleari – un suo Movimento politico (l’Uscs) che, diretto da personaggi di lucida intelligenza e prestigio quali Francesco Pignatone e Ludovico Corrao, ottenne nel breve periodo un assai consistente successo elettorale.
Nell’intera vicenda fu il Pci, sotto l’abile guida di Macaluso, il collante e la forza egemone di quella stramba alleanza tra partiti che aveva persino accantonato l’antifascismo: il prezzo più eclatante e compromettente – ma insieme a molti altri, tra i quali la subalternità alla Sicindustria e agli agrari in nome della difesa degli interessi della Sicilia, nonché il via libera ad una quasi sistemica corruzione per alimentare un clientelismo diffuso, dentro e fuori l’Assemblea regionale, funzionale al mantenimento della maggioranza assembleare – che fu pagato al conseguito obiettivo togliattiano di dividere e condannare la Dc all’opposizione.
Per quei fatti un emarginato e dissenziente Li Causi, lontano dall’isola, insieme al più affezionato tra i suoi seguaci, Mario Ovazza, soffrì molto in silenzio [ne scrivo diffusamente nel mio Mario Ovazza, il comunismo come pratica della ragione, Istituto Gramsci Siciliano, Palermo, 1998]. Ed oggi, quale che ne sia il giudizio, sarebbe impossibile per una memoria militante ricordarli, quei fatti, senza un angoscioso turbamento.
Certo, per il comportamento del Pci nella caduca ma intensa ”operazione Milazzo”, si potrebbe parlare di realpolitik o di un “machiavellismo” mal riuscito e dilettante. Sembra però più convincente prenderne atto come di una prima evidente conseguenza del fatto che il partito stesse facendo declinare il suo ruolo, come si è già rilevato, in quello di un organismo tra gli altri della dinamica partitocratica, esponendosi, e cedendo, ai giochi trasformistici di palazzo e persino alle pratiche clientelari prima severamente stigmatizzate nei suoi avversari.
L’accesso ad una tanto filistea quanto devastante pratica del clientelismo e dell’opportunismo (spesso coperta e giustificata con il formale e dichiarato intento di rendere dei servizi alla causa del partito e della democrazia) si esplicò tramite le assunzioni di vario livello nelle amministrazioni della Regione e dei Comuni, nelle aziende a partecipazione statale, nelle banche, nelle cooperative e, soprattutto, nei vari Enti pubblici regionali (l’Eras, per l’attuazione della riforma agraria e l’Ente minerario per il settore in crisi delle miniere, e poi l’Espi, succeduto alla Sofis, e l’Irfis, per la promozione dell’industria).“Carrozzoni” di spreco e di parassitismo che la deputazione comunista all’Assemblea regionale aveva decisivamente contribuito a costituire nel perseguimento di una politica fermamente orientata al primato della “mano pubblica” nell’economia e alle nazionalizzazioni, affascinata dai miti d’epoca (specie da quello dell’industrializzazione) e proposta come volano di sviluppo democratico e di “socializzazione”, in concreto sulla falsariga di un keynesismo avventurosamente e maldestramente interpretato.
Il “ritorno” al riformismo
L’esito socio-politico ne sarebbe stato, dagli anni Sessanta in poi, un molecolare spostamento al di fuori del partito, e spesso contro il partito, nei cosiddetti gruppuscoli “extraparlamentari”, delle originarie istanze della militanza comunista (con molta evidenza tra i giovani, nel movimento del Sessantotto, che pure, in Sicilia, non fu grande cosa, a parte certe vivaci espressioni, per lo più a reiterazione di eventi di “importazione”, tra gli studenti medi e le “femministe”, e in alcune particolari Facoltà universitarie).
Nonostante tutto – per gli effetti di “trascinamento” in sede regionale dell’elevato prestigio conseguito dal partito in sede nazionale sotto la guida di Enrico Berlinguer che determinò un trend di crescita dei consensi in tutto il Paese – in Sicilia il partito preservò la consistenza elettorale di uno “zoccolo duro” mediamente non inferiore al 20%, con una punta del 26,82% conseguita nelle regionali del 1976 (un vero e proprio balzo in avanti rispetto all’assai modesto 12,56% del 1971. Preludio dell’ottima affermazione (specie nelle aree meridionali dell’isola) poi ottenuta nella circoscrizione dell’Italia insulare nelle europee del 1984 (28%), le elezioni del “trapasso” del Pci rispetto alla Dc, all’indomani della drammatica morte di Berlinguer.
Nel frattempo, però, le profonde mutazioni, in gran parte figlie dell’ormai avvenuto cambiamento dell’intera Italia da Paese agricolo a Paese industriale, avevano inciso anche sulla morfologia sociale della base militante del Pci e in Sicilia (regione rimasta alla periferia dello sviluppo, ancora in bilico tra l’arretratezza della sua antica struttura agrario-latifondistica soltanto da poco superata e una difficile modernizzazione industriale appena avviata) se ne erano esplose tutte le contraddizioni politiche, come si è visto, nell’ “operazione Milazzo”.
Rispetto al passato, si correva ormai sul filo di una languida continuità che, mentre della tradizione stava cambiando la sostanza (i contenuti ideali, la deontologia e gli obiettivi corrispondenti alla cosiddetta “società dei consumi” e alla generalizzata istanza di “benessere” come metro della giustizia sociale), ne preservava comunque tenacemente la forma-partito, verso un tramonto onorato e onorevole.
Inevitabilmente, i militanti si trovavano di fronte alla questione dei radicali cambiamenti di cultura e di ideologia, e di concreti comportamenti, nella leadership e nelle articolazioni di un’organizzazione (dal sindacato ai vari organismi di massa) sempre più coinvolta in modo compromettente, seppure come ben riconoscibile componente dialettica, nella dinamica di un sistema che, con antica definizione, continuava ad essere ufficialmente stigmatizzato in quanto “capitalistico” e “borghese”. E c’è, pertanto, da chiedersi in proposito: si era imboccata la strada di una specie di inconsapevole “tradimento” della speranzosa storia “rivoluzionaria” faticosamente costruitasi nel secondo dopoguerra o si trattava, piuttosto, di un altrettanto inconsapevole ritorno alle pratiche già familiari tra fine Ottocento e primo Novecento, ovvero a quelle socialriformiste dei peculiari movimenti popolari e di classe in Sicilia?
Sembra più corretta e convincente l’ipotesi di un inconsapevole e non calcolato “ritorno”, di un’aggiornata “riconferma”: infatti, dagli anni Sessanta in poi, si rese sempre più evidente (per quanto mai apertamente riconosciuto) un processo di lento affievolimento del rapporto con la lezione leninista e gramsciana che aveva guidato l’élite dei Padri fondatori, a netto vantaggio di un orientamento prammatico e riformista che riprendeva non poco di quelle che erano state le idee e le pratiche opportunistiche del socialismo riformista in età giolittiana.
Non a caso, a parte Li Causi e dopo di lui, gli unici dirigenti di grande rilievo non soltanto locale che il Pci riuscì a generare in Sicilia e ad offrire alla direzione del partito, Emanuele Macaluso, Pio La Torre e Napoleone Colajanni jr., appartenevano alla cosiddetta corrente dei “miglioristi”, ovvero dei riformisti.
E “miglioristi” erano in gran parte i dirigenti regionali. Fu Pio La Torre, rientrato come segretario regionale dal suo lungo e fertile lavoro a Botteghe Oscure, nello spirito di quel riformismo che si ricollegava idealmente anche alle lotte generose guidate nelle campagne per la riforma agraria, il protagonista dell’ultima grande battaglia del partito in Sicilia: quella pacifista e anti-imperialistica, ma anche democratica in senso lato e interclassista, contro l’istallazione dei missili con testate nucleari a Comiso. Una battaglia imponente per capacità di mobilitazione di massa (condotta insieme alle forze cattoliche delle Acli di Angelo Capitummino e “benedetta” dal cardinale Pappalardo) che si concretizzò in un fronte di popolo ben più vasto delle aggregazioni partitiche.
E va ricordato che La Torre (in quanto titolare della più efficace legislazione di contrasto alla criminalità organizzata mai concepitasi e varata in Italia e nel mondo), già prossimo alla sua tragica morte, deteneva, insieme a quello delle lotte contadine, anche il testimone della lunga azione contro la mafia, condotta nel tempo, con variabili gradi di passione e di forza, dal partito in Sicilia. Dopo quel martirio, cominciarono a correre gli anni che avrebbero condotto al discorso di Achille Occhetto alla “Bolognina” che decretò la fine del partito e che, comunque, avrebbe sollecitato a tirare le somme dei dati di un ottantennio per un bilancio storico.
Tempo di bilanci
Anche per la Sicilia, può ben riconoscersi, nel complesso, tra successi e insuccessi, conquiste ed errori, un bilancio attivo e molto onorevole, soprattutto dal punto di vista sociale, al quale si è già accennato innanzi e sul quale sembra opportuno insistere. Negli anni migliaia di poveri ed oppressi erano pervenuti ad una piena maturità civile e avevano conquistato una chiara consapevolezza dei diritti della libertà in uno Stato democratico; numerosi ex contadini ed operai erano cresciuti in conoscenze e in capacità di partecipazione alla modernità, spesso diventando dirigenti di sindacato e di partito, non raramente anche “imprenditori” in una fioritura di cooperative, cantine sociali ed aziende coltivatrici, in quelle che erano state le campagne del latifondo parassitario; moltissimi, uomini e donne, erano ascesi da disagiate origini proletarie e addirittura sottoproletarie alla condizione di professionisti, pubblici funzionari, insegnanti dei vari ordini e gradi dell’istruzione, scienziati e ricercatori, giornalisti, scrittori, artisti, medici ed operatori sanitari, magistrati.
Il Partito (meritatamente da scriversi con la maiuscola), con tutti i cambiamenti che l’avevano attraversato alla fine stravolgendolo, aveva funzionato come una centrale di educazione alla democrazia e di formazione per una nuova classe dirigente dell’isola, “cervello collettivo”, grande scuola popolare ed anche scala di ascesa sociale. E quanti vi avevano militato, al di là dell’amarezza di una storia conclusa ne avrebbero serbato una memoria attiva, se non la sensazione di continuare a vivere della rendita di coraggiose lotte e di antichi ideali.
Giuseppe Carlo Marino