Pietro Nenni, il socialismo e l’ascesa del fascismo
Il saggio sul diciannovismo a 40 anni dalla scomparsa del leader pubblicato da Harpo nel 2020
Il diciannovismo. Come l’Italia divenne fascista (introduzione di Luigi Covatta e Antonio Tedesco, Roma, Harpo, 2020) è un saggio che Pietro Nenni – nel 2020 si è celebrato il 40° anniversario della sua scomparsa (1 gennaio 1980) – scrisse su invito dell’amico Piero Gobetti, morto esule a Parigi nel 1926, con il titolo di Storia di quattro anni. La crisi socialista dal 1919 al 1922 (Libreria del Quarto Stato, 1ª ed. 1927).
La sua pubblicazione offre l’occasione per ricordare la figura di colui che più e meglio di altri ha incarnato la grandezza e le contraddizioni del socialismo italiano. La nuova versione dello scritto di Nenni sugli avvenimenti di un periodo tra i più drammatici della vita politica e sociale dell’Italia unita era stata preceduta dall’opuscolo Lo spettro del comunismo. 1914-1921 (Milano, Modernissima, 1921).
Nato a Faenza nel 1891 in una terra, la Romagna, fremente di spiriti ribelli, Pietro Nenni resta l’espressione di un socialismo antidogmatico e giacobino, frutto del libertarismo barricadiero di marca ottocentesca, retaggio della sua giovanile adesione al repubblicanesimo rivoluzionario.
Il 1918, anno che segna la fine del primo conflitto mondiale, aveva significato per i destini italiani la conclusione vittoriosa del processo risorgimentale con l’annessione delle terre irredente e il compimento dell’unità nazionale. Tuttavia, la pesante eredità della catastrofe militare aveva aggravato i problemi del Paese dovuti non solo, sotto l’aspetto finanziario, ai disastrosi conti delle finanze statali, al debito contratto con l’estero e all’elevata inflazione. Ma anche, sul piano politico, alla difficoltà di gestire un’inedita situazione di pace, che lasciava aperta la questione del risarcimento morale di masse popolari soverchiate dalle sofferenze scaturite dalla traumatica esperienza bellica.
Occorreva, dunque, riconoscere ad esse la possibilità di una rinascita, ma le aspettative dei poveri e degli oppressi furono deluse: «la guerra – come notò Nenni – lasciava il popolo amareggiato e disilluso, ardente di giustizia e libertà» (p. 33).
Aspre tensioni caratterizzarono il dopoguerra italiano, specchio di quanto stava accadendo sul fronte internazionale, dove eventi epocali, esito subitaneo delle ostilità appena concluse, erano intervenuti a scuotere profondamente i tradizionali assetti della cornice europea. Da un lato, l’affermazione degli Stati Uniti come potenza mondiale e il ridimensionamento delle mire egemoniche del Vecchio continente; dall’altro, la fine annunciata dei grandi imperi multinazionali (austro-ungarico, tedesco, ottomano, zarista) e il leninismo comunista al potere nella Russia agraria ed arretrata.
La ripresa delle attività del partito socialista fu pertanto segnata dal marchio della rivoluzione russa, «il grande evento storico – scrisse Nenni – che doveva conchiudere la guerra in maniera così radicalmente contraria alle previsioni della borghesia, e che doveva gettare, in tutta Europa ed in tutto il mondo, i germi ed il fermento della insurrezione operaia» (p. 33).
La fase del “biennio rosso” (1919-20) fu contrassegnata da moti di protesta per l’alto costo della vita nelle città e dall’irruzione generalizzata delle masse rurali sulla scena politica nazionale. Se il problema della terra restava assolutamente prioritario nel mondo delle campagne meridionali – agitato da dure rivolte per l’espropriazione contadina di terreni incolti del grande latifondo, pesante eredità dell’età feudale – nelle pianure del Nord la battaglia dei braccianti riguardò più rigorose modalità di controllo del mercato del lavoro e toccò inevitabilmente la prospettiva della collettivizzazione della terra.
Nenni accusava il partito di non comprendere cosa effettivamente sul piano sociale stesse accadendo, di trascurare «la forza di quei ceti medi fra i quali si reclutavano gli interventisti» e di «misconoscere in genere il complesso fenomeno combattentistico» (p. 35). Un fatale errore di valutazione che finì per spianare la strada all’avvento del regime di Mussolini.
Il combattentismo fu il tratto dominante di un gruppo sociale che restava il prodotto della guerra e dell’azione incontenibile della piccola borghesia emergente, di indole corporativa e invisa ai governi del momento, che si pose come forza nuova e a suo modo rivoluzionaria, sia rispetto al proletariato sia nei confronti del grande capitale. Di questa classe fu partecipe Gabriele D’Annunzio, che, nel settembre ’19, con i suoi “legionari” compì l’impresa di Fiume, «preludio dell’ottobre del 1922». Un episodio che contribuì a destabilizzare ancor più il quadro nazionale già compromesso dalle difficoltà del governo Orlando di far valere le rivendicazioni adriatiche dell’Italia nella Conferenza di Parigi. Fiume – scrisse Nenni – «non suscitò il bolscevismo, ma accelerò la disgregazione e il discredito dello Stato» (p. 65).
Ma ulteriori gravi fattori intervennero a rendere più instabile lo scenario politico del tempo; tutto allora sembrò scivolare inesorabilmente verso la formazione di un blocco d’ordine. Uno di essi si rivelò la riforma elettorale del ’19, che assicurò la compiuta affermazione dei partiti di massa: dei socialisti, appunto, ma pure del multiforme mondo dei cattolici, per la prima volta, auspice don Luigi Sturzo, riunitisi in organizzazione politica nel gennaio dello stesso anno nella città di Bologna.
Il cambiamento del sistema di voto registrò in modo inequivocabile l’abdicazione dello Stato unitario edificato nel 1861. Il tratto saliente dell’incerto contesto postbellico fu insomma la fine del primato dei moderati, che avevano retto il Paese per un sessantennio conducendolo sulla via dell’industrializzazione. Con il risultato, da un lato, di porsi nel contesto internazionale della concorrenza economica al pari delle più avanzate nazioni d’Europa; dall’altro, di lasciare irrisolti nel Mezzogiorno i nodi della questione agraria.
Con il 32,3% dei voti il partito socialista risultò la prima forza politica del Paese, seguito dai popolari (20,5%) e dallo schieramento liberale, che rispetto al 1913 aveva perso ben 100 seggi, pur restando ancora la compagine parlamentare di maggioranza relativa. È in questo snodo cruciale della vicenda nazionale che Nenni intravide l’estrema debolezza dei socialisti, incapaci di darsi una «mentalità di maggioranza, comprensione cioè dei problemi e degli interessi generali» (p. 74).
La confusione aumentò quando a Livorno, nel gennaio del ’21, durante i lavori del congresso socialista, la frazione filo-sovietica di Bordiga e di Gramsci fondò il partito comunista d’Italia (PCd’I) per inseguire Lenin sulla strada del bolscevismo. Per Nenni Livorno rappresentò «la tragedia del proletariato italiano». Le frustrazioni dei due anni terribili e la frattura del ’21, seguita nell’ottobre del ’22 (poco prima della marcia su Roma) dall’ulteriore scissione dei socialisti unitari di Turati, Treves e Matteotti, produssero in definitiva il netto ridimensionamento dell’offensiva operaia e il fatale arretramento dell’azione socialista, dando così il via libera agli assalti contrari della “borghesia in armi”, che preannunciarono l’avvento di una lunga stagione autoritaria.