Cats, o di quanto troppi effetti speciali rischiano di guastare un capolavoro
Convincenti le interpretazioni degli attori, in testa Francesca Hayward e Taylor Swift, nella rilettura del regista Tom Hooper
Cats non è semplicemente un film o uno spettacolo teatrale, è un fenomeno culturale globale che ha attraversato indenne quarant’anni di mutamenti politici e sociali su scala internazionale. Portato in scena per la prima volta l’11 maggio del 1981, al New London Theater del West End, rappresenta oggi una pietra miliare del musical, sia per il teatro che per il cinema.
Basato su un testo per bambini di Thomas Stearns Eliot, “Il libro dei gatti tuttofare”, edito nel 1939, Cats è sempre stato un simbolo della semplicità con cui un messaggio, in particolare se rivolto ai più piccoli, possa essere veicolato facilmente attraverso musica e parole. È uno spettacolo educativo quanto evocativo, il cui significato passa attraverso numerose stratificazioni verbali, volutamente allusive ed evanescenti come solo i gatti sanno essere.
Il problema di questa nuova versione cinematografica risiede proprio nella mancanza di semplicità in larga parte derivante dalla scarsa qualità dinamica della CGI (computer-generate imagery, immagini ed effetti speciali creati al computer) e dal disturbante scollamento tra scenografia digitale e azione drammatica. Per questo la costruzione cinematografica diretta da Tom Hooper risulta fin troppo asettica agli occhi dello spettatore.
Pur cercando di replicare l’originale impianto registico utilizzato da Trevor Nunn, mantenendo pressoché inalterate le musiche composte da Andrew Lloyd Webber, il film non convince soprattutto per l’uso invasivo di una grafica digitale goffa e soffocante nelle interazioni con gli attori. Sebbene degno di nota, ed in alcuni punti molto ben riuscito, anche il tentativo di trasporre le classiche accademiche teatrali dai tratti felini in texture virtuali risulta a tratti disturbante. Questo a causa di un’interazione incompleta del digitale con la componente sartoriale dei costumi, in particolare rispetto agli accessori di alcuni personaggi. Emblematici a tal proposito risultano il capello senza buchi per le orecchie di Mr Mistoffelees e il vestito multistrato a taglia variabile di Jennyanydots.
Il salto dalla costruzione scenica semplice e costante dello spettacolo teatrale, nonché del film uscito nel 1998, a quella complessa della pellicola di Hooper non convince scenograficamente per una evidente sproporzione nelle fisicità degli oggetti come nelle proiezioni volumetriche degli ambienti, le cui dimensioni rispetto agli attori variano fastidiosamente in base all’inquadratura. Questi errori, come nella coreografia virtuale dei topi e degli scarafaggi durante la canzone della stessa Jennyanydots, abbassano catastroficamente le potenzialità di un film che comunque riesce a non tradire il contenuto dello spettacolo teatrale: anzi, lo contestualizza riportandolo alla contemporaneità attraverso piccole modifiche nella struttura narrativa e nei dettagli di qualche caratterizzazione.
Innegabilmente, uno dei pregi del regista – autore dello splendido “Il discorso del re” – risiede nella capacità di scelta e valorizzazione del potenziale recitativo. Trarre il meglio dagli attori è una delle abilità principali dei grandi autori ed in questo il lavoro di Tom Hooper non delude. A dispetto dei problemi fin qui riscontrati, che ad esempio falsano completamente l’interpretazione dell’attrice australiana Rebel Wilson, della gatta salottiera Jennyanydots, il cast riesce a catturare l’attenzione dello spettatore senza tradire l’essenza dei personaggi.
Tra i tanti gatti del quartiere londinese di Jellicle le stelle più brillanti, e le interpreti più convincenti, risultano Francesca Hayward, nel ruolo di Victoria, e Taylor Swift nei panni di Bombalurina.
La prima è una danzatrice classica al suo esordio cinematografico, una giovane promessa capace di esprimersi sia nelle sequenze musicali che in quelle drammatiche attraverso una delicata gestualità, una corporeità elegante ed un’ottima mimica facciale. La seconda invece è una popstar di fama internazionale, lei cui innegabili doti canore la pongono, nelle sequenze musicali, un gradino sopra il resto del cast.
Analizzando la performance della Swift, risulta interessante notare come l’assolo di cui è protagonista, con la canzone dedicata al malvagio Macavity, riprenda scenograficamente e coreograficamente la sequenza di presentazione della Satine di “Moulin Rouge!”, interpretata da una stupefacente Nicole Kidman, costituendo un omaggio all’opera del maestro Baz Luhrmann.
Suggestiva è anche l’interpretazione di Judi Dench nei panni dell’anziana matriarca Old Deuteronomy, che qui assume una valenza leggermente politicizzata rispetto alla versione teatrale, con un accostamento alla figura dell’attuale sovrana britannica marcato attraverso una serie di rimandi alla regina Vittoria. Allo stesso modo, più sottile e pungente rispetto all’originale, risulta il Gus di Ian McKellen. Conosciuto Coke “il gatto del teatro”, il suo ruolo di critica sociale, in chiave antimoderna, viene qui sottolineato creando un piccolo paradosso rispetto al massiccio impiego della CGI che ha svilito la forza espressiva della pellicola.
Degli altri interpreti – dal divertente e convincente seduttore Rum Tum Tugger, portato in scena con un’ottima fisicità dal ballerino Jason Derulo, all’impacciato gatto magico Mr Mistoffelees di Laurie Davidson – il più convincente risulta essere un sorprendente Idris Elba. Evidentemente ormai a proprio agio nei panni del cattivo, il suo Macavity assume con pochi gesti uno spessore ed una personalità superiori a quelli delle versioni teatrali, rendendolo credibile come “Napoleone del crimine”. Al contrario, è piuttosto bidimensionale la reietta Grizabella, interpretata da Jennifer Hudson, le cui limitare capacità recitative vengono riscattate da quelle canore attraverso una toccante esecuzione della storica Memory, vero pezzo portante del film come dello spettacolo teatrale.
È un peccato constatare come i numerosi limiti tecnici, di un prodotto forse troppo ambizioso, abbiamo rovinato quello che poteva essere un onesto tributo all’opera di Lloyd Weber, rendendo invece la pellicola una tra le favorite ai Razzie Awards 2019, gli antioscar rivolti ai peggiori film della stagione.