La consulta di Palermo
Il capoluogo conta 130 nazionalità straniere. Una realtà che fa da ponte con le altre istituzioni per l’affermazione dei diritti degli immigrati
Aumentare i canali di partecipazione con le istituzioni per una città a misura di tutti, nessuno escluso. L’esperienza della consulta delle culture di Palermo è esempio di partecipazione politica delle comunità e luogo di scambio e contaminazione interculturale.
Composta da 21 membri eletti ogni cinque anni, è l’organo rappresentativo dei cittadini immigrati, comunitari, extracomunitari ed apolidi regolarmente residenti nel territorio comunale, che così concorrono alla vita dell’amministrazione locale con funzione consultiva e propositiva nell’interesse dell’intera popolazione.
«Il migrante non ha diritto di voto, quindi la consulta è necessaria per coinvolgere le comunità straniere presenti sul territorio», afferma Ibrahim Kobena, presidente in carica dal 2018.
Nel contesto politico e istituzionale europeo, la partecipazione politica degli stranieri residenti negli Stati membri dell’Unione è stato ed è tuttora oggetto di attenzione sempre crescente.
Il tema dell’estensione del suffragio agli immigrati residenti in uno Stato europeo, infatti – come riportato in un rapporto dell’ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione) – è stato diffusamente affrontato negli anni, attraverso una serie di atti in cui l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi è indicato come uno dei pilastri delle politiche di immigrazione. In una riunione straordinaria del consiglio di Tampere del 1999 si dichiarava già che una politica di integrazione più incisiva dovrebbe mirare a garantire agli stranieri diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’Unione Europea. Essa dovrebbe inoltre rafforzare l’inclusione nella vita economica, sociale e culturale e prevedere l’elaborazione di misure contro il razzismo e la xenofobia.
La missione della consulta delle culture è infatti l’applicazione concreta di un progetto in cui i diritti di cittadinanza siano connessi esclusivamente con la residenza.
Lo definisce “modello Palermo”. Ne va fiero, il presidente Kobena, che mette al centro del suo operato l’obiettivo di difendere i diritti di tutti senza guardare al colore della pelle. «Per fare ciò –afferma – è necessario attuare un piano di integrazione sociale che passi dalla lotta alla povertà del paese ospitante per il benessere comune, all’abbattimento degli stereotipi legati al lavoro che sono attribuiti agli immigrati solo in virtù della loro provenienza».
«A Palermo – dice lo statistico Girolamo D’Anneo – risiedono 25.522 stranieri (pari al 3,9% della popolazione), provenienti da ben 130 Paesi diversi. Anche se i primi cinque (Bangladesh, Sri Lanka, Romania, Ghana e Filippine), da soli, coprono quasi i due terzi del totale degli stranieri”. Secondo i dati forniti dall’ultimo rapporto SISTAN del giugno 2020, rispetto al 2018 il numero degli stranieri residenti è diminuito di 231 unità.
È indiscusso che Palermo sia una città multiculturale in cui passeggiando lungo i vicoli del centro storico il profumo del cibo da strada si mischia a quello dei sapori dei bazar orientali.
In questo melting pot, però, è proprio la parola “integrazione” ad essere spesso abusata e associata, erroneamente, a quella di inclusione.
A spiegarlo è Barbara Grisanti, antropologa e studiosa dell’identità africana, secondo cui: «Si parla di integrazione quando si tenta di inserire il migrante straniero nel nostro sistema chiedendogli di adattarsi – spiega – per tale motivo includere è invece un processo molto più complesso di integrare. L’inclusione necessita la conoscenza dell’altro nelle sue complessità, riadattando gli spazi condivisi alle diversità».
«Allo stato attuale – commenta l’antropologa – ci troviamo ad osservare un atteggiamento di chiusura della società verso gli stranieri, esclusi e trasformati in nemici della società o spesso accettati e poi isolati o peggio, ghettizzati. E se dopo tanti anni agli immigrati non vengono riconosciuti diritti civili, sociali, politici di cui godono altri stranieri europei presenti sul territorio italiano, non si può parlare di inclusione».
A conferma di questa visione, la “Carta di Palermo” firmata nel 2015 evidenzia come si sia diffusa una sorta di razzismo strisciante di natura economica. Che – partendo dal considerare i migranti come risorse indispensabili per il sistema produttivo di beni e servizi e, allo stesso tempo, soggetti esclusi dai circuiti assistenziali e previdenziali – ha impercettibilmente condotto alla determinazione di un modello di inclusione sociale neo-schiavistico.
Il soffocamento dei diritti passa anche dalla malsana connessione della vita umana ad un pezzo di carta, come il permesso di soggiorno. Proprio durante la manifestazione contro il razzismo dei giorni scorsi, all’eco delle parole “I can’t breathe” collegate alla triste vicenda di George Floyd, Ibrahim Kobane ha infatti affermato che lavorare per il permesso di soggiorno è un altro modo di morire, ancora più lento.
In una città così multiculturale si avverte quindi preminente l’esigenza di certezza legata ai diritti dei cittadini di Paesi terzi e la presenza di un organo come la consulta delle culture diventa strumento chiave per la riappropriazione dei diritti in quanto persona e non soggetto economico. Nella squadra comunale è proprio Aktar Sumidalia, da anni coinvolta nei lavori della consulta, a dichiarare quanto sia necessario che una realtà del genere sia presente in ogni città d’Italia.