Chi ha paura del coronavirus?
Viaggio tra i Paesi e le misure adottate, sulla storia delle pandemie e sulle notizie vere e false. Con una domanda tutt’altro che secondaria: perché continuiamo a stupirci?
Siamo rimasti sorpresi nel 2002 quando un nuovo coronavirus chiamato SARS è emerso dalla Cina meridionale e si è diffuso in 17 Paesi, causando oltre ottomila casi di malattia e quasi ottocento morti. Siamo rimasti sorpresi nel 2009 quando un nuovo ceppo di influenza, l’H1N1, è emerso in Messico e ha causato il panico in tutto il mondo. Siamo rimasti sorpresi nel 2014 quando è esplosa la diffusione del virus Ebola in tre Paesi dell’Africa occidentale, con quasi trentamila casi e oltre undicimila morti.
Ed eccoci qui, di fronte alla comparsa di un nuovo agente infettivo, il coronavirus chiamato 2019-nCoV (o, dal 12 febbraio, secondo la nuova nomenclatura del Center for disease control, SARS-CoV-2 per l’agente infettante e COVID-19 per la malattia che ne consegue), che è probabilmente sul punto di causare una pandemia. Al 6 febbraio, più di ventottomila persone erano state infettate con 2019-nCoV, e 565 persone erano morte (fig. 1). Quando leggerete questo articolo i numeri saranno certamente cresciuti. Alla stessa data, erano già stati segnalati quasi duecento casi in 26 Paesi oltre alla Cina, incluso un decesso nelle Filippine (Fig.2). Questo bilancio, che si aggrava di giorno in giorno, rappresenta un aumento tragico e sorprendente rispetto a un mese fa, quando sembrava che non vi fossero più di 50 pazienti con il virus a Wuhan. La megacittà cinese continentale (60 milioni di abitanti) dove si pensa che il virus abbia avuto origine, probabilmente per un salto di specie da animale (serpente? Zibetto?) a uomo, favorito dalle condizioni igieniche dei wet market locali.
La copertura delle notizie relative al 2019-nCoV nel 2020 è molto diversa rispetto a Ebola nel 2018. La nostra valutazione di qualsiasi malattia infettiva si basa su due fattori: quanto velocemente e facilmente si trasmette e quanto è grave. Da ciò che sappiamo attualmente, 2019-nCoV non è letale come la SARS o la Sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS), attualmente in incubazione nella penisola arabica. Eppure, a differenza della SARS o della MERS, si sta diffondendo in lungo e in largo, agendo come un virus influenzale in termini di trasmissione tra le persone, viaggiando rapidamente ed efficacemente nell’aria. I virus non cambiano quando attraversano i confini politici, quindi possiamo aspettarci che 2019-nCoV continui a comportarsi ovunque come in Cina. Nulla che un governo possa fare potrà effettivamente fermarne la diffusione.
Molto probabilmente 2019-nCoV causerà aumenti importanti dei ricoveri e della necessità di approcci medici ad alta tecnologia, come l’ECMO (ExtraCorporeal Membrane Oxygenation, una tecnica di circolazione extracorporea utilizzata per trattare pazienti con insufficienza respiratoria acuta grave) di cui nessun Paese al mondo ha una disponibilità adeguata. Nonostante i resoconti dei media, la possibilità di un vaccino efficace e sicuro è distante di almeno 18 mesi dalla disponibilità effettiva. Dunque problemi scientifici, organizzativi e finanziari rendono non realistico al momento attuale un approccio di cura globale.
Non è solo la prospettiva che qualcuno di noi si ammali o muoia. Gli effetti di secondo e terzo ordine possono essere devastanti per il benessere economico e personale. Con le catene di approvvigionamento industriali e la produzione alimentare ampiamente globalizzate, siamo sempre in balia dell’anello più debole della catena. Ad esempio, il Center for infectious disease research and policy dell’università del Minnesota ha identificato 153 farmaci essenziali per un trattamento salvavita di malattie frequentemente riscontrate negli USA, senza i quali i pazienti morirebbero entro poche ore. Tutti sono generici e molti, o i loro ingredienti farmaceutici attivi, sono prodotti in Cina. Sessantatré di essi già non sono disponibili in breve tempo per le farmacie o sono comunque in stato di carenza già in circostanze normali. Il focolaio di infezione da 2019-nCoV e le misure di blocco all’esportazione dalla Cina che ne conseguono minacciano ulteriormente la fornitura di questi farmaci. Non importa quanto sia tecnologico ed efficiente un moderno ospedale in una grande città occidentale se le bottiglie e le fiale sul carrello sono vuote.
Tutti i dati epidemiologici e clinici disponibili mostrano che l’infezione di cui parliamo è molto contagiosa e che devono essere seguite misure di controllo. Quindi, come ci prepariamo per una possibile pandemia? Innanzitutto, dobbiamo comprendere che anche nei Paesi attualmente considerati a basso rischio, fra cui l’Italia, non c’è alcun modo di realizzare un confine impenetrabile ai virus. L’istituzione di restrizioni globali ai viaggi rallenterà solo leggermente la diffusione del coronavirus. Adesso è il momento per ogni sistema sanitario locale e regionale di pianificare la potenziale ondata di pazienti che necessitano di posto in ospedale, alcuni dei quali potranno richiedere terapie ad elevata intensività. Nel corso delle prossime settimane le aree di emergenza dovranno fare fronte alle richieste di pazienti con sospetto di 2019-nCoV, sperabilmente pochi “reali” ma certamente molti “preoccupati”, che necessitano comunque di un test.
L’attuale stagione influenzale, che già grava su molti ricoveri ospedalieri, renderà ulteriormente complicato il problema. Gli operatori sanitari sono sensibili al virus come tutti, e i rinforzi sono quasi inesistenti nella maggior parte dei luoghi. L’economia dell’assistenza sanitaria impone che la maggior parte degli ospedali disponga di scorte estremamente limitate di dispositivi di protezione individuale, compresi i respiratori.
Come risponderemo se non abbiamo abbastanza lavoratori in un momento di grande necessità? Come reagiranno le scuole? Quali piani hanno le aziende per la continuità della leadership e degli affari?
Soprattutto, dovremmo considerare questa crisi come un banco di prova per focolai molto più grandi e mortali che potrebbero arrivare. Per quanto il 2019-nCoV possa diffondersi a livello mondiale, probabilmente non sarà la più grande delle epidemie della storia. Se e quando questa dovesse arrivare (probabilmente sarà una pandemia simile a quella di influenza Spagnola del 1918) agirà in in un mondo con tre volte la popolazione di allora e con centinaia di milioni di esseri umani e animali domestici che vivono a stretto contatto in megacittà impoverite. E viaggiano ovunque in un tempo molto inferiore rispetto al periodo di incubazione del virus.
Ci sono ancora così tante cose che non sappiamo su 2019-nCoV, incluso il modo esatto in cui viene trasmesso, dove si sta diffondendo e quanto è mortale. Questa incertezza è importante perché i virus hanno molti strani modi di sorprenderci: H1N1 “influenza suina”, che era una pandemia, si è rivelata molto meno mortale di quanto temuto (una malattia può essere pandemica e non particolarmente grave) L’Ebola, d’altra parte, era noto alla scienza da decenni ma si è comportato in modi che hanno preso alla sprovvista gli esperti di malattie infettive durante l’epidemia 2014-2016 in Africa occidentale. Date le incognite su 2019-nCoV, nei prossimi giorni e settimane, ci aspettiamo alcuni colpi di scena. Per ora, molti esperti ritengono che questa epidemia potrebbe andare molto peggio: sovraccaricare il sistema sanitario cinese, diffondersi nei Paesi più poveri con sistemi sanitari più deboli e ammalare e uccidere migliaia di persone lungo la strada. In alternativa, potrebbe andare molto meglio, con nuovi casi e morti in costante calo, e dati degli ultimi giorni sembrerebbero confermare questa ipotesi.
Vediamo ora in quali scenari l’epidemia cinese potrebbe diventare una pandemia.
La Cina non può contenere il nuovo coronavirus
La Cina ha segnalato per la prima volta questo focolaio all’Organizzazione mondiale della sanità il 31 dicembre 2019. Da allora sono emersi rapporti scientifici che suggeriscono che la malattia probabilmente ha iniziato a diffondersi diversi mesi prima, forse dallo scorso autunno. In entrambi i casi, ciò significa che nel giro di pochi mesi, il virus ha infettato almeno trentamila persone in Cina e si è diffuso in tutto il mondo. È un aumento insolitamente rapido per un virus nuovo di zecca. È anche sorprendente se si considerano le misure draconiane adottate dalla Cina per controllare il virus, compresa una quarantena senza precedenti di oltre cinquanta milioni di persone. E c’è la reale possibilità che il vero numero di casi sia ancora più elevato – poiché la Cina potrebbe non essere in grado di trovare e rilevarne di nuovi, le persone con malattie lievi potrebbero non andare in ospedale e quindi non essere conteggiate, e altri Paesi potrebbero non essere in grado o non volere cercare e confermare i casi di infezione da 2019-nCoV. Inoltre, ci sono dubbi sulla volontà della Cina di condividere i dati e sul fatto che i responsabili della salute pubblica stiano segnalando con onestà l’entità del problema.
Secondo un nuovo modello, pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet dagli accademici dell’università di Hong Kong, settantacinquemila persone potrebbero essere già state contagiate solo a Wuhan dal 25 gennaio. Dunque, se l’epidemia continua ad accelerare, potremmo avere una pandemia. Ci saranno più malattie e morti non solo in Cina, ma anche in altri Paesi del mondo, poiché dai casi in viaggiatori singoli o a piccoli gruppi si passerà a epidemie locali in piena regola. A questo punto, più che controllare un virus che è già ovunque, i sistemi di sanità pubblica di ogni Paese colpito passerebbero dal tentativo di contenimento agli sforzi per mitigarne l’impatto: istituendo ospedali per isolare e curare per i pazienti, formulando raccomandazioni per il “distanziamento sociale” (come la cancellazione di eventi pubblici) e elaborando protocolli di triage per le molte persone che potrebbero aver bisogno di cure ospedaliere.
Il nuovo coronavirus si diffonde nei Paesi con sistemi sanitari deboli
Di particolare preoccupazione è la possibilità che 2019-nCoV inizi a diffondersi in Paesi con sistemi sanitari più deboli, dove i responsabili della salute pubblica avrebbero un compito ancora più difficile nel limitare la diffusione rispetto alla Cina. Quest’ultimo è un Paese a reddito medio-alto con una rete di scienziati di livello mondiale, un numero ragionevole di operatori sanitari per persona e una solida rete di rilevamento delle malattie, capace di identificare e circoscrivere nuovi focolai mentre si verificano.
Molti Paesi in tutto il mondo non hanno questi vantaggi. Questo è parte del motivo, ad esempio, per cui ci sono voluti mesi per identificare l’epidemia di Ebola 2014-2016 nell’Africa occidentale, che alla fine ha infettato oltre ventottomila persone e ne ha uccise undicimila. Dunque i focolai di 2019-nCoV in questi contesti a basse risorse pongono una preoccupazione particolare, non solo perché hanno maggiori probabilità di non essere identificati precocemente. Dato che la letalità di una malattia varia in base alla popolazione, anche se questo coronavirus non sembra altamente letale in Cina in questo momento, potrebbe comportarsi diversamente in Africa, regione peraltro particolarmente a rischio a causa dei suoi legami con la Cina, con oltre un milione di lavoratori cinesi presenti sul territorio.
Il virus è più letale di quanto sembri in questo momento
Un segno distintivo della pandemia di influenza Spagnola del 1918 era che non si limitava a uccidere le persone molto anziane o molto giovani, colpendo invece individui apparentemente sani in qualunque età della vita. E anche se il tasso di mortalità – o il numero di decessi per persona infetta – era solo del 2,5% (dato che la popolazione mondiale non era mai stata esposta al virus e il virus poteva diffondersi facilmente e uccidere una parte rilevante della popolazione), questa percentuale si è tradotta del decesso di un numero di persone che va tra i 20 e 50 milioni al termine della pandemia.
Con il nuovo coronavirus, le morti sembrano riguardare gli individui già a rischio per altre malattie respiratorie: anziani e persone con patologie di base. Quindi, diversamente dall’influenza Spagnola, 2019-nCoV non sembra al momento uccidere giovani peraltro sani. Ma il tasso di mortalità per infezione da 2019-nCoV al momento si aggira intorno al 2%, dunque con numeri analoghi alla pandemia da influenza Spagnola del 1918. Nello scenario peggiore di una pandemia globale, ciò si tradurrebbe in milioni di morti.
I divieti di viaggio isolano i Paesi, diffondono la xenofobia e aggravano i focolai
La scorsa settimana, la Russia, Singapore e l’Australia hanno sigillato i loro confini con la Cina. Il governo degli Stati Uniti ha intensificato drammaticamente la sua risposta, dichiarando un’emergenza sanitaria pubblica, emanando un avviso di allarme di altissimo livello sui viaggi in Cina e vietando temporaneamente ai cittadini stranieri che sono stati di recente in Cina di rientrare nel loro Paese.
Anche l’Italia ha bloccato i voli e istituito procedure di quarantena al ritorno dalle aree a rischio. La ricaduta di queste mosse sta influenzando molto più della salute pubblica, e di fatto sta minacciando tutto, dall’economia globale all’industria manifatturiera cinese. Perfino gli affari nei ristoranti cinesi lontani dalla zona calda. Si stanno già accumulando dati che suggeriscono che 2019-nCoV – e la reazione globale ad esso – ha esacerbato il sentimento anti-cinese, mettendo in atto nuovi tipi di discriminazione.
È sempre più evidente inoltre il problema relativo alla carenza di cibo e forniture mediche in alcune regioni della Cina. Al di là del pedaggio psicologico ed economico, isolare il Paese potrebbe avere effetti di vasta portata sulla risposta alle epidemie: vale a dire diffondere la paura e ridurre la segnalazione dei casi di infezione, sia in Cina che in Paesi che finora non abbiano avuto casi noti. Se questi non segnalano ciò che sta accadendo dentro i loro confini, controllare la diffusione dell’infezione sarà ancora più difficile.
Cosa potrebbe invece bloccare lo sviluppo di una pandemia?
La Cina riesce a contenere il virus
Lo scenario più favorevole per l’attuale situazione sarebbe che la Cina riesca a contenere il virus in modo che cessi di diffondersi internamente e in tutto il mondo. Alcuni dati – incluso il basso tasso di infezioni all’interno delle famiglie in cui una persona è infetta e il numero apparentemente basso di infezioni degli operatori sanitari – suggeriscono che 2019-nCoV non sia altamente trasmissibile come i virus dell’influenza o quelli che causano la SARS e la MERS.
I cluster locali dell’infezione in altri Paesi non crescono
Nessun Paese in cui sono stati segnalati casi isolati di infezione ha ancora dichiarato un focolaio epidemico locale. In questo momento, la maggior parte delle infezioni non cinesi sono legate ai viaggi. Se questa tendenza continua e il virus non si sta ancora trasferendo in comunità al di fuori della Cina, il rischio di una pandemia è minimo.
Il virus non può diffondersi nei Paesi più poveri con climi più caldi
Tra i molti misteri del nuovo coronavirus, c’è il fatto che non sappiamo come si comporta in luoghi con climi caldi, come i Paesi dell’Africa meridionale. In genere i coronavirus sono virus invernali, e quando il clima è caldo e umido non si diffondono così come quando è freddo e asciutto. Mentre rimane la preoccupazione che i luoghi in via di sviluppo nel sud del mondo non abbiano i sistemi sanitari per rilevare il virus e tracciare i contatti, il fatto incoraggiante è che il clima in alcuni di quei Paesi è caldo e umido, il che non favorisce la diffusione di 2019 nCoV.
Il virus è meno micidiale di quanto sembra
Con la SARS nel 2003, la Cina ha ritardato la segnalazione dell’epidemia di mesi. Quindi ci sono voluti diversi mesi per identificare il virus che causa la malattia e sviluppare la diagnostica per trovare le infezioni. Al contrario, il nuovo coronavirus è stato sequenziato in pochi giorni dalla sua scoperta e immediatamente i Paesi di tutto il mondo sono stati in grado di diagnosticare i casi. Questa capacità diagnostica immediata ha significato che stiamo identificando più casi più velocemente, in gran parte casi più lievi, gonfiando i numeri e facendo apparire l’epidemia peggiore rispetto alla SARS. Allo stesso tempo, potremmo imparare che la malattia, sebbene abbastanza grave da aver ucciso ad oggi molte centinaia di persone in tutto il mondo, non è letale come sembra in questo momento. Se vengono scoperti più casi o anche più casi asintomatici, il tasso di mortalità diminuirà. In effetti il tasso di mortalità del 2 percento potrebbe essere stato largamente sovrastimato. Nel migliore dei casi, questa epidemia potrebbe assomigliare più all’influenza suina H1N1 che alla SARS o all’influenza Spagnola. Quando H1N1 è stato riconosciuto per la prima volta nel 2009 e si è diffuso in tutto il mondo, c’erano grandi preoccupazioni per la sua mortalità. Negli USA furono chiuse le scuole, persone del Nord America furono messe in quarantena quando arrivarono in altri Paesi, i voli furono cancellati. Non solo queste misure non riuscirono a contenere il virus, ma si è poi scoperto che H1N1 non era poi così mortale, e oggi conviviamo ancora con quel virus, che circola in ogni stagione influenzale.
In ultima analisi, perché ogni volta rimaniamo sorpresi da una nuova infezione che minacci di trasformarsi in una pandemia? La realtà è che l’ambiente in cui tutti gli organismi viventi si sono evoluti per centinaia di milioni di anni riprende ancora una volta il sopravvento e utilizza le trappole dell’Antropocene – viaggi aerei, popolazione in crescita e megalopoli del Paese a basso reddito, invasione di habitat naturali e un sistema globale interconnesso di consegna just-in-time – per estendere la sua portata. Abbiamo già ricevuto vari avvertimenti, ma non appena ogni crisi è finita, vogliamo solo dimenticare piuttosto che usare la nostra esperienza collettiva.
Il problema è che non ci prepariamo a difenderci dalle malattie infettive come facciamo con altre minacce alla sicurezza globale. Prenderemmo in considerazione di andare in guerra senza essere in possesso di portaerei o altri sistemi d’arma per il combattimento? Tuttavia, è così che spesso trattiamo i vaccini e i trattamenti farmacologici per le malattie con potenziale epidemico. Siamo tristemente impreparati a causa della mancanza di investimenti e della volontà pubblica. Se vorremo seriamente tutelarci, e la lezione di 2019-nCoV dovrebbe essere un eccellente stimolo, i governi del mondo dovranno fare investimenti proattivi a lungo termine in agenti farmaceutici, attrezzature mediche, forniture e ricerca di base sulle malattie trasmissibili.
Antonio Craxì, Dipartimento PROMISE, Università di Palermo
Rosa Di Stefano, Professore Ordinario di Virologia, Università di Palermo