Una discesa nel Maelström
Storia di Federica e Alberto. Professione (loro malgrado): “ammortizzatori”
“Incanutito dalla paura ma circa tre anni or sono, mi capitò una avventura quale non è mai toccata a essere umano o almeno a essere che le sia sopravvissuto per raccontarla”.
Inizia così il protagonista del racconto di Edgar Allan Poe, Una discesa nel Maelström , la narrazione del precipitare disperato dentro un abisso da cui nessuno è uscito vivo.
Parole che richiamano quelle di quell’Ismaele unico sopravvissuto al naufragio del Pequod nel capolavoro di Herman Melville, Moby Dick: «io tutto solo sono scampato per rappresentarlo».
In entrambi i casi, il superstite porta con sé un compito: quello di raccontare, di testimoniare. Non è un compito demandabile, il suo, perché l’unicità dell’esperienza lo porta a essere il solo. Scampato, appunto, per ricordare.
E se è fin troppo ovvio paragonare la vicenda della pandemia a una discesa negli abissi o alla lotta strenua contro una balena che, come il Leviatano, incanutisce e paralizza di terrore il mondo, è anche vero che di testimoni, di sopravvissuti, in questo caso ce ne sono tanti. Non solo testimoni diretti, ma anche, insieme a loro, persone che in questa via crucis hanno fatto e fanno da veri e propri ammortizzatori. Qualcosa in meno di “sopravvissuti per raccontare” e qualcosa in più di osservatori diretti.
Immaginate, ad esempio, il ruolo di una giovane donna originaria di un piccolo centro che il coronavirus ha flagellato così forte da essere dichiarato zona rossa. Lei – la chiameremo Federica, rispettando il suo diritto all’anonimato – vive in città, ma con la piccola comunità di provenienza il legame è forte. Tutti conoscono tutti, i vincoli di parentela sono strettissimi.
Iniziano a circolare voci (vere? False?) su contagi in una residenza sanitaria assistenziale. Purtroppo le voci sono vere: insieme agli ospiti, a essere interessati sono gli operatori, che a loro volta hanno famiglia. La rsa si trova in paese, dove vivono i parenti di Federica. A mano a mano che le notizie si concretizzano cresce la paura, aumentano le domande. Lei non può ovviamente raggiungere la zona rossa, ha solo il telefono mentre il panico lievita. Diventa l’ammortizzatore di una situazione molto più grande di lei. Parla ore al telefono con persone anziane, terrorizzate: la sola cosa saggia da fare è nascondere la propria paura. Evocare ricordi familiari affettando tranquillità e, nel frattempo, infilare in quelle lunghissime telefonate qualche domanda che non aumenti l’angoscia. Vincendo lo strazio, Federica cerca di capire chi lavora nella struttura infetta, quando la sua famiglia ha incontrato l’ultima volta soggetti a rischio. Cerca di fronteggiare anche problemi pratici, come quello della spesa.
“Come in una roulette russa – dice Federica – il numero delle persone sottoposte ai tamponi cresceva, e con questo anche l’attesa sfibrante degli esiti. Abbiamo continuato a chiederci, increduli, com’era possibile che il virus fosse arrivato in un paese placido, che guardava il resto del mondo alla tv”.
Il telefono non squilla solo per i parenti imprigionati: ci sono anche i loro figli, sparsi in tutta Italia, che come interlocutore lucido (parola improbabile in tempi di pandemia, ma tant’è) hanno ancora una volta Federica. Le comunicazioni sono di due tipi: quelle con i cugini, in cui si passano al setaccio le informazioni e ci si confronta, e quella con i parenti reclusi, a cui si cerca di dare delle versioni il più possibile rassicuranti.
“Tentavo di tenere i nervi saldi – continua – ma con il passare dei giorni avvertivo una sensazione strana, come se il corpo tremasse da dentro. I miei luoghi, le mie persone, erano improvvisamente fuori dalla mia portata, dalla portata di tutti. Al telefono mi dicevano che si stringevano gli uni agli altri, per farsi coraggio”.
La notte che precede l’annuncio della dichiarazione di zona rossa è una veglia, con i cellulari in mano e la rassegna di tutti gli aggiornamenti, sperando in un’impossibile smentita. Che infatti non arriva: il paese è zona rossa.
Una comunità sconvolta, presidiata all’improvviso dalle forze dell’ordine e alle prese con i problemi quotidiani di un piccolo centro a vocazione rurale: agli animali che stanno fuori città, chi darà da mangiare?
Si cercano il capro espiatorio, poi gli untori, alla fine ci si organizza: i supermercati sono poco fuori dai varchi. Si fissano appuntamenti a distanza, in modo che i rivenditori possano acquistare la merce e portarla in paese.
Il varco è il contatto con il resto del mondo, nelle zone rosse, al sud come al nord. Quella dello zio di Alberto (anche questo nome di fantasia) è la storia di un uomo in cui la crescita anagrafica non sempre ha seguito quella personale. Dopo un matrimonio finito, è tornato a casa di mamma. Come un figlio ha litigato per problemi economici ed è partito: trovandosi nel bresciano al momento sbagliato.
Si è fatto risentire dalla madre (92 anni e la perdita di un figlio alle spalle) dopo tempo, esattamente quando la paura del contagio lo ha paralizzato. Ha continuato a giocare il suo anacronistico ruolo: tempestando una donna già molto provata di chiamate, bollettini sanitari e angosce. Tante, ossessive. Anche in questo caso il ruolo di Alberto è stato ed è quello dell’ammortizzatore: tranquillizza la nonna come può, anche se l’unico cruccio della signora è sopravvivere (almeno questa volta) al figlio che le resta. Con lo zio, le parole di Alberto però se le porta il vento. Lo dimostrano le telefonate che continuano ostinate a cercare, invece di darne, protezione da una donna anziana, addolorata, esausta.