Dalla Chiesa. A chi fece il favore il ragioniere Bernardo Provenzano
Buscetta non è in stato in grado di riferire alcunché in merito all’omicidio di Dalla Chiesa dato che all’epoca viveva in Brasile. Ha tuttavia raccontato un episodio verificatosi appunto in Brasile e riportato nell’ordinanza sentenza del maxiprocesso nella parte relativa alla trattazione dell’omicidio. Si legge infatti in tale provvedimento:
“Come si è già accennato nel trattare l’omicidio di Alfio Ferlito, Buscetta e Badalamenti la sera del 3.9.1982 (e quindi qualche ora dopo l’assassinio di Dalla Chiesa, data la differenza di fuso orario), si trovavano all’Hotel Regent di Belem (Brasile) e guardavano la televisione. Quando venne trasmessa la notizia dell’agguato di via Carini, Badalamenti commentò subito che “sicuramente era stato un atto di spavalderia dei corleonesi che avevano così reagito alla sfida contro la mafia lanciata da Dalla Chiesa. Soggiunse che certamente erano stati impiegati i catanesi –appunto perché più vicini ai corleonesi- che avevano così ricambiato il favore ricevuto con l’uccisione di Alfio Ferlito e disse ancora che “qualche uomo politico si era sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza troppo ingombrante ormai, del generale”…”
(Ordinanza sentenza, vol.18,pag. 3720)
Buscetta peraltro, sentito il 16 novembre 1992 dalla commissione parlamentare antimafia, adombrava dei dubbi sulla matrice esclusivamente mafiosa dell’omicidio. Dichiarava infatti: ”E’ il primo omicidio eccellente e Dalla Chiesa viene cercato. E’ difficile che io trasferisca questa mia logica a voi… ma la mafia si era spostata a questi livelli solo perché aveva detto (Dalla Chiesa n.d.r.) che i fogli rosa non si dovevano fare più. Noi avevamo subito il prefetto Mori e non lo si era ammazzato. Non si era ammazzato il Prefetto Mori né quando era prefetto né quando si ritirò. Cercare Dalla Chiesa non è più un problema mafioso, è un problema che va al di là della mafia. Poi si ammazza perché sta andando ad indagare sui costruttori di Catania o sulle patenti. Il Generale viene ucciso perché mandato in Sicilia a disturbare i mafiosi e i mafiosi avrebbero dovuto liberarsi come un fatto fisiologico; tu ci disturbi, noi ti ammazziamo! Ma è questo il vero motivo perché viene ammazzato Dalla Chiesa? E’ troppo in alto che si va, questa è la mia opinione”.
Buscetta, sia pure nel suo linguaggio contorto, sembra volere dire che Dalla Chiesa sarebbe stato mandato in Sicilia a “disturbare i mafiosi”, con la consapevolezza da parte di chi lo aveva mandato che quella sarebbe stata la reazione della mafia e alla mafia sarebbe stata attribuita la responsabilità dell’assassinio. Ciò avrebbe consentito di coprire le vere motivazioni dell’omicidio e i veri mandanti; ”è troppo in alto che si va”.
Più esplicito è Buscetta sentito nell’aula bunker di Padova, nel processo che vedeva Andreotti imputato dell’omicidio Pecorelli, dove esordì dicendo “Pecorelli e Dalla Chiesa sono cose che si intrecciano”. Riferì infatti di avere appreso, nel 1980, a Palermo, da Stefano Bontate che l’omicidio Pecorelli era stato effettuato su decisione della commissione per essergli stato richiesto dai cugini Salvo in quanto il giornalista “disturbava politicamente”.
Riferendosi poi al colloquio avuto il 3 settembre in Brasile con Badalamenti, allorquando apprendevano dalla televisione dell’uccisione del Prefetto dichiarava : “Badalamenti mi disse: lo hanno fatto per fare un favore ad Andreotti”, aggiungendo : “il giornalista stava appurando porcherie politiche, segreti che anche Dalla Chiesa conosceva. Badalamenti mi disse che quell’omicidio c’interessava ad Andreotti e l’abbiamo fatto noi tramite la richiesta dei cugini Salvo”.
Il pubblico ministero cercò di approfondire le affermazioni di Buscetta.
PM: Noi chi scusi?
Buscetta: Io, cioè Badalamenti e Stefano Bontate, non la “Commissione”, la Cosa Nostra. Posso citare la parola che mi fu detta, la traduzione la farete voi. “U ficimu nuatri”, io e Stefano. Bisogna capire il linguaggio, Bontate non è uomo che viene a Roma a sparare a Pecorelli, lo può dire ad altre cinquemila persone
PM: ma dopo che lei aveva equivocato con questo Pecorella ( Buscetta aveva creduto che Badalamenti si riferisse a tale Pecorella un picciotto assassinato insieme al figlio di Inzerillo n.d.r.), Badalamenti cosa disse?
Buscetta: Si mise a ridere e mi disse… il fatto del giornalista che voleva arrecare dei disturbi al Presidente, che aveva documenti scottanti che voleva pubblicare.
PM: Di quali documenti si trattava glielo disse?
Buscetta: Secondo lui erano documenti segreti che riguardavano Moro
PM: in quale circostanza si parlò del generale Dalla Chiesa?
Buscetta: Il generale Dalla Chiesa era quello che aveva i documenti segreti, le bobine secondo Badalamenti, che poteva darli o li aveva dati a Pecorelli, il giornalisata
AVV. Coppi: Erano documenti o bobine?
Buscetta: ma c’era una grande confusione, i discorsi si accavallavano, documenti certo, so di documenti con certezza, di bobine non so…
Aggiungeva Buscetta: “Tra uomini d’onore c’è l’obbligo di dire la verità. Bontate e Badalamenti non mi possono avere mentito quando mi hanno fatto il nome dei Salvo e sono convinto che i Salvo non si sarebbero mai permessi di commettere un omicidio del genere senza informare l’interessato, e cioè Andreotti, non sapendo quali potessero essere gli sviluppi del fatto”
Andreotti, imputato dell’omicidio Pecorelli, insieme a Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti, Pippo Calò, Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera fu assolto dalla Corte di Assise di Perugia nel 1999. Successivamente il 17 novembre 2002, la Corte di appello condannò Badalamenti ed Andreotti a 24 anni di reclusione. Il 30 ottobre 2003 la Corte di Cassazione annullò senza rinvio la sentenza di appello che divenne così definitiva.
Ma ulteriore elemento che indurrebbe a ritenere non esclusiva la matrice mafiosa del delitto e la convergenza di interessi con elementi esterni a Cosa nostra, è dato dal contenuto di una intercettazione che ha luogo tra Giuseppe Guttadauro, primario dell’Ospedale civico di Palermo e capomafia di Brancaccio. e il suo amico Salvatore Aragona.
“Guttadauro: Salvatore tu partici dall’ottantadue. Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a Dalla Chiesa…andiamo, parliamo chiaro. Insomma viene questo qua che non ha nessun potere…ma perché noialtri dobbiamo sempre pagare le cose. E perché glielo dovevamo fare questo favore”
Aragona: E’ quello che dico io
Guttadauro: Chi è che glielo ha dovuto fare…chi glielo ha fatto, perché glielo ha fatto questo favore…questo spingere determinate esasperazioni. Perché? Per farci mettere nel tritacarne e continuare per sempre. Noi a parole non possiamo risolvere e capire tutte le cose, ci sono delle cose che io non dirò mai, non mi usciranno mai. Te lo scrivo, chiudiamo il foglio e poi te lo faccio leggere”
L’Aragona mostrandosi d’accordo faceva cenno ad un grande “orchestratore”.
Dal contenuto di questa conversazione si deduce che Guttadauro riteneva che nella strage Dalla Chiesa vi fosse una regia occulta di qualcuno che aveva armato la mano della mafia e che si era sostanzialmente salvato dalla situazione, facendo ricadere le conseguenze della strage esclusivamente sulla mafia. Lo stesso tra l’altro riteneva del tutto inutile l’omicidio dato che Dalla Chiesa non aveva, di fatto, alcun potere e non vi era nessun motivo di fare questo favore a chi lo aveva richiesto
Ma dei dubbi sulla opportunità della esecuzione di un incarico così dirompente, come riferito dal collaboratore Tullio Cannella, ebbe anche Pino Greco detto Scarpuzzedda, uno degli esecutori materiali dell’eccidio. Disse infatti quest’ultimo al Cannella. “Stu omicidio Dalla Chiesa non ci voleva. Per lo meno ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca. Qua io ho avuto uno scherzetto in questo omicidio, e stu scherzetto me lo fece u ragioniere. Qua c’è a mano du ragioniere, u ragioniere u sapi chiddu chi cumminu”.
Cannella ha spiegato che il ragioniere era Bernardo Provenzano. Anche da queste dichiarazioni del Cannella si arguisce che la decisione della strage era stata presa da Provenzano per fare un favore a chi gliela aveva richiesta, decisione che non aveva avuto l’approvazione della organizzazione, per le conseguenze che ne erano derivate. Qualche tempo dopo Scarpuzzedda scomparve. Proprio quando aveva cominciato ad avere troppi dubbi su Bernardo Provenzano.
L’11 settembre viene aperta ufficialmente la cassaforte di Dalla Chiesa. La chiave venne ritrovata otto giorni dopo l’omicidio; si trovava all’interno di un cassetto con tanto di targhetta di riconoscimento, vicino la cassaforte, cassetto che era stato in precedenza ispezionato e nel quale non era stata rinvenuta la chiave. All’ interno della cassaforte nessun documento, soltanto l’argenteria di famiglia. Ci si chiede perché si aspettarono 14 ore per apporre i sigilli a quella cassaforte.
Nelle intercettazioni effettuate nel carcere di Opera dove Riina si trova rinchiuso in regime di 41 bis parlando con il compagno d’aria Alberto Russo dell’omicidio Dalla Chiesa affermava: “Appena è uscito con sua moglie lo abbiamo seguito a distanza. Potevo farlo là, per essere più spettacolare, nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio”. Ed ancora: “Certe volte rido con la figlia di canale 5, questa è appassionata con suo padre…l’indomani gli ho detto “Pino Pino ( si riferisce a Pino Greco detto scarpuzzedda, spietato killer di Cosa nostra) vedi di andare a cercare queste cose che…prepariamo armi”. A primo colpo, a primo colpo ci siamo andati noialtri…eravamo qualche sette, otto di quelli terribili, eravamo terribili. Nel frattempo lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato là dove stava, appena è uscito fa …ta…ta….ta..ed è morto”. E a proposito della cassaforte svuotata dice Riina: “Gli hanno portato via tutto”.
Nel 2002 sono stati condannati, in primo grado, all’ergastolo per l’assassinio i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Gli uomini della “Cupola”, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco, erano già stati condannati al maxiprocesso. Scrissero i giudici nella sentenza: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale.”