Dalla Chiesa e l’operazione “Carlo Alberto”. L’intrigo – Parte seconda
Le resistenze alla concessione al Prefetto di Palermo di poteri di coordinamento che lo ponessero in condizione di effettuare una incisiva lotta alla criminalità mafiosa, non provenivano soltanto dagli apparati governativi, ma anche da autorevoli esponenti della Polizia. Un funzionario della mobile, ovviamente anonimo disse “meglio che se ne stia al mare a sciacquarsi le palle”. Anche al Palazzo di giustizia, secondo un cronista del Manifesto, l’atmosfera non era favorevole al Generale: “….a parlare del Generale nei corridoi del Palazzo può capitare di sentirsi ridere quasi in faccia (o rispondere “non è la presenza di un uomo che cambierà, che c’entrano i poteri eccezionali”). Anche i politici regionali venivano dipinti dall’articolista come sostanzialmente ostili a Dalla Chiesa.
Appare di tutta evidenza, alla stregua di quanto fin qui detto che, come previsto da Dalla Chiesa nel suo diario, ancor prima di essere nominato, era palese una ostilità nei suoi confronti degli ambienti politici, a livello centrale e regionale e dei vertici della Polizia, tutti contrari alla attribuzione a Dalla Chiesa di ampi poteri di coordinamento nella lotta alla mafia.
Secondo quanto riferito da un articolo pubblicato da The Wall Street Journal Dalla Chiesa aveva richiesto al Governo statunitense di effettuare pressioni su Spadolini al fine di ottenere quei poteri che gli venivano negati. Si legge nell’ordinanza del maxiprocesso, nella parte che tratta dell’omicidio del Generale Dalla Chiesa: “Da un articolo pubblicato da the Wall Street Journal del 12.2.1985 si è appreso che nella mattinata del 3.9.1982, in un incontro segreto con Ralph Jones, console generale USA, a Palermo, il gen. Dalla Chiesa riferì come i politici l’avessero dimenticato in merito alla sua richiesta di ottenere poteri straordinari, promessigli per affrontare la mafia. Nel fare i nomi di altri esponenti ufficiali che a suo avviso sarebbero stati implicati nella cosa, egli sollecitò il Governo statunitense ad esercitare pressioni sull’allora Primo Ministro Giovanni Spadolini, Il signor Jones rammenta che “ egli riteneva che soltanto il Governo statunitense potesse fare qualcosa ad alto livello per smuovere le acque” (Ordinanza sentenza, Abate Giovanni +706 vol. 18, pag.3537). Nessuna smentita è stata data all’articolo di stampa.
I poteri che non si erano voluti concedere a Dalla Chiesa verranno poi concessi, anche in misura più ampia, al suo successore. Ma se il Generale Dalla Chiesa era mal visto dagli ambienti politici ed imprenditoriali (lo stesso aveva posto la sua attenzione sui cavalieri del lavoro di Catania e sui collegamenti degli stessi con la mafia catanese e palermitana), certamente non era ben visto dalla organizzazione mafiosa che lo considerava estremamente pericoloso per cui doveva essere immediatamente eliminato.
La pericolosità per Cosa Nostra era stata presa in considerazione dalla mafia ancor prima che il Generale assumesse l’incarico di Prefetto di Palermo come risulta dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori, quali Gennaro Totta e Vincenzo Sinagra, affiliato quest’ultimo alla famiglia di Corso dei Mille. Questi riferiva di avere appreso da Rotolo Salvatore che Filippo Marchese, rappresentante della famiglia di Corso dei Mille voleva “la morte del Generale” e lo aveva incaricato di seguirne i movimenti. Si era prospettata la possibilità di tendergli un agguato presso l’ albergo Villa Igea dove il Generale si recava a fare il bagno o per pranzare al ristorante annesso all’albergo. Si era anche ipotizzato un agguato dal mare mentre faceva il bagno. Rotolo riferiva ancora di avere appreso da Vincenzo Sinagra detto “Tempesta” che il Generale non poteva “arrivare a nulla” poiché sarebbero trascorsi solo pochi giorni e se lo sarebbero levato di mezzo.
Si accertò peraltro che l’Albergo ristorante cui faceva riferimento il Sinagra Vincenzo era in realtà l’Hotel Splendid La Torre di Mondello che, come riferito dal direttore Monforte Salvatore, era frequentato quasi settimanalmente da Dalla Chiesa specialmente dopo il matrimonio e dove, come si è visto, era diretto, insieme alla moglie, la sera in cui si verificò l’eccidio.
Che l’omicidio del Generale fosse riconducibile ad una decisione dei capi di tutte le famiglie mafiose risulta dalle dichiarazioni del Sinagra il quale così ebbe a dichiarare al giudice istruttore : “….E’ mia opinione che l’omicidio del Generale non sia stato deliberato ed attuato soltanto da Filippo Marchese bensì da tutti i capi delle cosche”, precisando e ribadendo che “in occasione di fatti importanti, come omicidi di personalità o di inquirenti occorreva il consenso di tutti i capi che si riunivano appositamente per valutare il da farsi”.
Furono quindi i vertici di Cosa Nostra a decidere l’eliminazione del Prefetto di Palermo. L’intervento di Dalla Chiesa veniva visto come una minaccia per il consolidarsi della egemonia dei corleonesi raggiunta dopo l’eliminazione di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e di tanti altri affiliati-alleati.
L’omicidio del Generale Dalla Chiesa fu preceduto da tutta una serie di omicidi nella zona di Casteldaccia, Altavilla e Bagheria, il cosiddetto triangolo della morte. Il 10 agosto e cioè lo stesso giorno della uccisione di Pietro e Salvatore Di Peri, perveniva al quotidiano L’Ora di Palermo una telefonata anonima del seguente tenore : “Siamo i killers del triangolo della morte. L’operazione da noi chiamata Carlo Alberto in omaggio al prefetto, con l’operazione di stamani l’abbiamo quasi conclusa, dico quasi conclusa”.
Il 4.9.1982 e cioè il giorno successivo all’omicidio alle ore 11.50 perveniva un’altra telefonata al quotidiano “La Sicilia” di Catania del seguente tenore : “L’operazione Carlo Alberto si è conclusa”. I suddetti episodi costituiscono una prova incontrovertibile della matrice mafiosa dell’assassinio del Prefetto. Il coinvolgimento della mafia catanese ha poi trovato riscontro oltre che nelle indagini espletate, in ciò che ha dichiarato il terrorista pentito Luciano Bettini (all’epoca dell’omicidio detenuto in carceri speciali) secondo cui “successivamente all’omicidio Dalla Chiesa, il prestigio dei detenuti catanesi di maggior spicco, nelle carceri speciali, è aumentato in modo incredibile”.
La matrice mafiosa dell’assassinio e in particolare la sua riconducibilità ai corleonesi che vedevano nella attività del Prefetto un pericolo per i propri interessi e per la posizione di egemonia dagli stessi raggiunta in seno all’organizzazione, trovava un ulteriore riscontro nelle dichiarazioni del libanese Bou Ghebel Ghassan, personaggio chiave nel procedimento penale per l’omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici. Era stato lui a rivelare agli organi investigativi la preparazione di un attentato, con un autobomba nei confronti di un magistrato palermitano senza tuttavia indicarne il nome. Il Ghassan, coinvolto in numerosi traffici internazionali, riferiva infatti di avere appreso da due trafficanti di stupefacenti palermitani, Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi “che si era sbagliato ad uccidere Dalla Chiesa perché ne era venuto fuori un casino ma dal momento che le cose stavano così bisognava reagire continuando in queste azioni contro tutti quelli che “ficcavano il naso nella mafia…”. Indicava inoltre, sempre per averlo appreso da Rabito e Scarpisi, che i responsabili dell’omicidio Dalla Chiesa erano i Greco di Ciaculli.
Ulteriore riscontro della matrice mafiosa del delitto fu poi costituita dal fatto che entrambi i Kalashnikov impiegati per l’omicidio erano stati usati in altri omicidi di mafia tra cui quelli di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.