Dall’Arno alla Senna: Charles Alunni e l’attualità del pensiero filosofico-matematico
Intervista inizialmente pubblicata dal blog di matematica applicata “Math is in the Air” il 18 agosto 2019.
Charles Alunni è filosofo e professore alla École Normale Supérieure di Parigi. Grande studioso di filosofia della scienza e del filone razionalista, ha approfondito il pensiero di studiosi francesi quali il chimico e filosofo Gastone Bachelard e il filosofo e matematico Gilles Châtelet, e anche di italiani, come il filosofo Giovanni Gentile. Recentemente Alunni ha curato la pubblicazione del discorso di Bachelard sulla “Metafisica della Matematica”.
Maria Mannone: Professore, come è nata la passione per il suo campo di ricerca, e quali sono stati gli incontri che hanno più influenzato il suo pensiero?
Charles Alunni: La mia passione (è il termine giusto) è nata durante la mia adolescenza. A 13 anni mi facevo delle domande sul significato delle parole, del tipo: «Perché i numeri complessi si chiamano “immaginari”?»; «Perché non si possono risolvere equazioni per radicali di grado superiore al quinto?». Su quest’argomento, mi ero comprato un libriccino della collana famosa dei «Que sais-je?» sulla teoria delle equazioni. E con un compagno di classe, che, devo dire, era molto più dotato di me in matematica, affrontavamo le diverse soluzioni fino al quarto grado. Ma credo che il passo più significativo fu per me la scoperta, alla stessa età, del personaggio di Einstein e delle teorie della Relatività. Mi ricordo che avevo comprato un volume di cui ero molto lontano dal potere capire, pieno di simboli cabalistici che mi sembravano “magici” e impressionanti, ma che ho conservato preziosamente fino a oggi; s’intitolava: 15 lezioni sulla relatività generale con una introduzione al calcolo tensoriale di Jean E. Charon. Mi dicevo che, come in un sogno, «un giorno sarò in misura di entrare dentro e di decifrare il suo mistero». Mi ero procurato anche gli originali di Einstein, come le sue lezioni di Princeton.
Queste parole come “Princeton” evocavano per me una vera sete di sapere e una certa magia. Ma c’è anche un altro motivo che, penso, è stato determinante. Durante i miei studi liceali (ero in sezione scientifica), è emerso il movimento detto della “Riforma della matematica moderna”, cioè dell’entrata, parziale e poi totale, della teoria assiomatica degli insiemi, con i concetti di gruppo, di corpo e di campo. In quel momento, la teoria conosceva propagandisti e oppositori. La mia fortuna è che a 15 anni, in classe di prima liceale, a Nizza, l’insegnante di matematica sbarcava dal Marocco dove era stato il precettore del futuro re. Era molto brillante, e fu il primo a incoraggiarmi a perseguire questi studi paralleli un po’ sospetti, e mi offrì diverse pubblicazioni sull’argomento. L’anno successivo, un altro professore di matematica m’invitò a casa sua, dove avevamo dibattiti spaziando su vari argomenti. Mi fece il regalo di 3 volumi che ho conservato e che mi servono ancora: sono intitolati (è degno di nota) mathématique (al singolare), Terminale C et T (algèbre, géométrie, analyse) di M. Condamine e P. Vissio. Erano libri per la Quinta liceale…
Ma devo dire che in Quinta, mi sono deciso di passare a Filosofia, in quanto, in sezione scientifica, non avevo l’impressione di potere riflettere sul significato e il senso della matematica, ma solo allenarmi a calcolare, punto e basta. Devo dire che a partire di 13 anni, avevo iniziato la mia educazione filosofica, leggendo Voltaire e Platone.
M.M. Potrebbe parlarci della Sua attività fra la Scuola Normale Superiore di Pisa e l’École Normale Supérieure di Parigi?
C.A. Questo è tutt’una storia, se posso dire. In quanto al liceo ho studiato a Nizza, al confine coll’Italia, avevo imparato un italiano “scolastico” o “libresco”, in seconda lingua. Indico che la situazione a Nizza era particolare, in quanto per l’esame della maturità, ci tagliavano 3 punti a priori, in quanto eravamo presunti sapere “naturalmente” la lingua del vicino. Nel mio caso, non aveva senso, in quanto mio padre era un esiliato di famiglia strettamente antifascista di Perugia, arrivato a Nizza a 12 anni (con, come compagno d’esilio, il futuro presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini), entrato nel Partito comunista a 15, e poi, durante la seconda guerra mondiale, prigioniero 5 anni in Germania, di cui, 6 mesi di campo di concentramento e due condanne a morte: condanne di cui s’è salvato evadendo… Quindi, a casa, era vietato parlare in italiano, e siamo tornati veramente in Italia nel 1968, non prima, dove mia zia era rimasta come bracciante agricola, mandriana poverissima. Mio padre non l’aveva rivista per più di 50 anni! Conclusione: non conoscevo la lingua italiana, anche se mio padre parlava il nizzardo… A questo punto un aneddoto. Nel 1976, dovevo preparare il mio dottorato sulla filosofia matematica di Poincaré, con matematici e fisici romani del gruppo di Marcello Cini. [https://it.wikipedia.org/wiki/Marcello_Cini] Cini, Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, erano allora gli autori dell’Ape e l’Architetto, un libro destinato ad essere un vero best-seller in Italia, e questo libro fu la mia prima traduzione professionale, pubblicata dalle edizioni del Seuil a Parigi. Quando sono andato a Roma per incontrarli, dopo avere redatto una lettera indirizzata a Cini, Ciccotti e gli altri scoppiarono a ridere, annunciandomi che la mia lettera aveva fatto il giro di tutta Roma, come un esemplare di letteratura del XVII secolo, talmente il mio stile era “fuori dal tempo”…
All’epoca, studiando presso l’École normale supérieure di Parigi, impegnato con Jacques Derrida [https://it.wikipedia.org/wiki/Jacques_Derrida] alla creazione del GREPH (Gruppo di Ricerca sulla Filosofia), fondato contro la riforma Haby del 1975 (il nome dell’allora ministro dell’educazione nazionale che voleva ridurre l’insegnamento filosofico nell’ultimo anno di liceo a titolo opzionale, già ridotto a un anno solo in quinta). Fui allora incoraggiato, tanto da Derrida quanto da Althusser, a occupare il posto di “Borsista Internazionale di Scambio” presso la Normale pisana. È così che iniziò per me la ricchissima avventura toscana. Proveniente da una formazione filosofica di tipo specificamente francese, allenato alla manipolazione delle nozioni “pure”, alla dissertazione, mi sono ritrovato nel cuore di un’altra tradizione, quella storicista, con un maestro pisano come Eugenio Garin! [https://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Garin] E questo “choc” tra queste due tradizioni culturali fu assai gratificante per me. Mi ha permesso, dopo una laurea alla Sorbona con Jean-Toussaint Desanti, [https://fr.wikipedia.org/wiki/Jean-Toussaint_Desanti] dedicata alla traduzione e al commento della Logica come scienza storica del Della Volpe (l’Althusser italiano), di saldare e fondere le due tradizioni, doppiando la filosofia teoretica (e “strutturalista”) alla francese, con l’erudizione tipica e la profondità storica della pratica peninsulare… È presso la Normale che ho finalmente imparato l’italiano. Dopo il mio perfezionamento, nel 1980, ho passato il concorso nazionale per il posto di ricercatore di ruolo e sono stato qualificato presso la Normale. Subito ho organizzato lezioni su Husserl, all’epoca cosa rarissima in Italia. Ovviamente, continuavo a seguire i seminari del Garin.
M.M. La matematica e la filosofia sono spesso considerate “astratte”. Come motiverebbe per il grande pubblico l’importanza della loro intersezione?
C.A. Certo, filosofia e matematica sono due discipline “astratte”. Rifletto spesso sull’eventuale processo comune a queste due pratiche che sembrano però lontane nelle loro procedure e nella loro relazione alla loro storia. Bisogna soprattutto pensare alla loro origine comune, al posto fondamentale della matematica a partire da Platone, per esempio, e al fatto che, fino al XVII secolo, i matematici erano anche filosofi (e viceversa): pensiamo a Cartesio o a Leibniz. Ma c’è di più, in quanto importanti filosofi come Maximilien Winter, Jean Cavaillès, Albert Lautman, o Gaston Bachelard [https://it.wikipedia.org/wiki/Gaston_Bachelard] hanno sempre mantenuto un legame strettissimo con la matematica (e la fisica matematica) contemporanea.
Ma si trovano anche matematici o fisici molto impegnati in una riflessione strettamente filosofica: basta pensare ad Einstein, Wolfgang Pauli, o Hermann Weyl in Germania, a Federigo Enriques, Giovannino Gentile, [https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Gentile] Gian-Carlo Rota [https://it.wikipedia.org/wiki/Gian-Carlo_Rota] in Italia, o a matematici francesi contemporanei come Alexandre Grothendieck, [https://it.wikipedia.org/wiki/Alexander_Grothendieck] Alain Connes, Pierre Cartier, Laurent Lafforgue, Gilles Châtelet, [https://en.wikipedia.org/wiki/Gilles_Ch%C3%A2telet] ai quali aggiungerei volentieri il matematico colombiano Fernando Zalamea, grandissimo specialista di Peirce e uno dei più grandi conoscitori dell’opera monumentale di Grothendieck.
Il tratto comune essenziale è che queste discipline sono tutte attività del “pensare”: contro la posizione heideggeriana, «la scienza pensa», e pensandosi riflessivamente, è di grandissimo aiuto per il filosofo (e viceversa). La dialettica implicita nella pratica scientifica, la ripresa ed elaborazione dalla matematica di categorie essenzialmente filosofiche come le copie locale/globale, analisi/sintesi, continuo/discreto… sono i punti d’intersezione tra matematica e filosofia nella loro pratica pensierosa. Chi vuole “filosofare” seriamente deve implicarsi nello studio delle scienze contemporanee, in particolare nella matematica e nella logica matematica.
M.M. “La Scienza ci aiuta a rimpiazzare misteri con problemi”. Come intendere questa affermazione di Bachelard?
C.A. Di fronte alle grandi difficoltà per capire il mondo, e in opposizione alla “doxa” che spessissimo dà delle risposte “immediate” o “misteriose”, scienza e filosofia oppongono i “problemi” da risolvere attraverso mediazioni concettuali, procedure rigorose, conoscenze approssimate, e “pazienza del concetto” come diceva Hegel. È questa messa in prospettiva “problematica” che prende il posto del “mistero”. Ma questo presuppone di affrontare l’apparente “semplicità” dell’immediato, il realismo ingenuo, da opporre alla vera “semplicità”, molto importante per il matematico come per il vero filosofo che, come dice Bachelard, «è alla fine del cammino, e non all’inizio»… Tutto questo presuppone una perpetua mediazione, che sempre ricomincia. Questo è il gesto comune tra le due discipline.
M.M. Cos’è esattamente il “gesto bachelardiano” a cui si fa riferimento nel testo?
C.A. Penso che possiamo definire questo “gesto” come un gesto “surrazionalista”: il “surrazionalismo” è stato creato da Bachelard stesso nel 1936, nell’unico numero della rivista del Fronte Popolare Inquisitions che raggruppava scrittori, poeti, scienziati e Bachelard stesso, il filosofo. In questo testo programmatico, che è stato valorizzato per primo dall’amico Mario Castellana dell’Università di Lecce (Italia) negli anni ’70, Bachelard insiste sul supplemento al/del razionalismo sempre rinascente, legato alla sua futura (1949) filosofia del “non-”, complemento al “sopra-”, alla sua concezione del “sopra-oggetto”. La posta in gioco è qui colossale! Ciò che Bachelard chiama la (sorveglianza)3 – sorveglianza sovra-razionale alla potenza 3 – sta operando al livello delle forme e delle strutture (ciò che lui chiama “sur-objets”, molto più complessi e razionali, molto più “costruiti” e induttivamente più matematizzati degli “oggetti”). È lì che si può leggere una certa fibra categorizzante di Bachelard, una sorta di anticipazione dello spirito che anima la teoria matematica delle categorie che lei conosce benissimo e che si lega al “gesto”. Darei due citazioni che testimoniano di questo spirito di categorizzazione bachelardiano: “Conosciamo la forma matematica dalle sue trasformazioni. Potremo dire dell’“essere matematico: dimmi come ti trasformiamo, ti dirò chi sei” (Le Nouvel esprit scientifique [1934], p. 28). Un’altra sull’importanza dell’algebrizzazione nel contesto: “La chiave di volta dell’evidenza è quindi la forma algebrica. Insomma, l’algebra ammassa tutte le relazioni e solo le relazioni” (ibidem). Si ricorderà il tema permanente nelle opere bachelardiane che è stato lanciato a proposito dell’opera di Einstein nel 1938: “All’inizio è la Relazione” (tema non solo relativista, ma categoriale).
M.M. Leggiamo: “Completare il mondo con il pensiero”. E’ corretto dire che comprendere il meccanismo di ‘realizzazione’ della natura (da naturans a naturata) consente di partecipare all’opera creativa mediante il passaggio da ‘construens’ a ‘constructa’? Perché abbiamo bisogno di partecipare alla “costruzione” della natura, e quali limiti, anche etici, comporta questa operazione?
C.A. “Completare il mondo con il pensiero” si può capire come sur-realismo (e quindi sur-razionalismo). La natura come “data”, senza la mediazione del pensiero, è una natura assolutamente “muta”. È sempre legato a questo sovra-razionalismo e alla sua elaborazione che implica anche queste categorie spinoziane. È nel 1933 che Bachelard pubblica un testo integralmente dedicato al filosofo olandese nell’ambito di un convegno della Societas Spinozana, in presenza di Leon Brunschvicg. Questo testo era intitolato Fisica e Metafisica, ed è uno di quei testi poco conosciuti dagli studiosi bachelardiani e di epistemologia storica. Non esiste una versione francese (“Nessuno è un profeta in patria”), ma solo una traduzione italiana che ho pubblicato con Gerardo Ienna, sotto un altro titolo, e commentato (vedi Gaston Bachelard, Metafisica della matematica, Roma, Castelvecchi, 2016). Per Bachelard (ma anche per Spinoza), non c’è una natura “naturale”, ma sempre una sorta di “a-natura”, nel senso che ciò che ne conosciamo non è l’immediato empirico concepito come “il Reale”, assolutamente indipendente delle nostre costruzioni. Questa era la posizione di un opponente a/di Bachelard, Émile Meyerson. [https://it.wikipedia.org/wiki/%C3%89mile_Meyerson] Questo tema è anche legato a ciò che Bachelard chiamerà “fenomenotecnica” (phénoménotechnique), che è centrato sulla dialettica in atto tra “noumenologia matematica” (teorie) e “strumenti costruiti” (pratiche e tecnica). Per Bachelard, ogni strumento scientifico è “una teoria realizzata”. Se ora poniamo la domanda sul lato etico, non abbiamo la risposta che Bachelard avrebbe dato alla domanda. Penso che la sua posizione sarebbe stata quella di Albert Einstein confrontato alla creazione della bomba atomica…
M.M. “Gli strumenti non sono che teorie materializzate”: possiamo parlare di un primato della teoria nello sviluppo scientifico?
C.A. È una domanda molto ricorrente a proposito di Bachelard che è spesso stato accusato d’“idealismo” a questo proposito. È anche il motivo avanzato da sua figlia Suzanne Bachelard per impedire la ripubblicazione delle sue opere maggiori come Il Valore induttivo della relatività del ’39, L’Esperienza dello Spazio nella Fisica Contemporanea del ‘37 o L’Attività razionalista nella Fisica Contemporanea del ’51. Ora stiamo per sorpassare questo veto imposto, al nome di Bachelard, presso gli editori. In realtà, l’idea di un “primato” della teoria non ha grande senso, se non in quanto formulazione a-dialettica. Per Bachelard, come per tutta la tradizione francofona in filosofia delle scienze (da Winter, Cavaillès, Lautman, fino a Gilles Châtelet) c’è solo il movimento di “va e viene”, di “andata e ritorno” tra teorie e tecniche, tra teoria e “pratica” che vale. È sintetizzato nel concetto di “sintesi”, come dimostrato oggi stesso dal lavoro del matematico colombiano Fernando Zalamea nella sua Filosofia sintetica della matematica contemporanea. È come porre la domanda di quello che viene prima tra l’uovo e la gallina… Solo una risposta dialettica, o come la chiamo nel caso di Bachelard, una “sur-dialectique” può essere adattata alla domanda. Questa dialettica aperta e surrationalista prende i due poli dello spettro scientifico (e filosofico) simultaneamente, con una costruzione in(de)finita.
M.M. “[…] il processo di astrazione si rivela prolungabile in due maniere: in estensione e comprensione. […] Su questa via dell’estensione, il più astratto è il più generale e anche il più semplice […]. Ciò che è più astratto è allora il più sistematico, quello che crea maggiormente legami”. Tali idee sembrano ben sposare il pensiero diagrammatico a cui Lei ha dedicato molti lavori, nonché le applicazioni interdisciplinari del linguaggio categoriale su cui hanno lavorato John Baez [https://johncarlosbaez.wordpress.com/] ed altri. Questo stile di pensiero può effettivamente aiutarci a ridurre le separazioni disciplinari e i problemi di gergo e mentalità che dividono le comunità scientifiche?
C.A. È soprattutto il più “profondo”. La profondità è legata alla “semplicità”, ma ottenere la semplicità è un compito molto difficile e assai arduo! Arriva alla fine di tutto un processo dialettico e con una pratica “sintetica”. Ovviamente, come lei lo sa benissimo questo processo è legatissimo alla teoria delle categorie matematiche. a) Perché, come l’abbiamo sottolineato, per Bachelard come per i “categorici”, “All’inizio, c’è la relazione”. Non solo “all’inizio”, ma anche “alla fine”; b) E con la sua concezione dell’“astratto”, del processo di complessificazione delle scienze, concezione espressa in modo incredibilmente sintetico nella citazione che lei fa di Bachelard, lui “con le”, si avvicina molto strettamente alla concezione attuale della matematica, di cui la teoria delle categorie è solo una parte. Tutto ciò implica il problema dell’“interdisciplinare”. Come lei sa, la teoria delle categorie è proposta da diversi matematici e logici come fondamento della matematica, quindi come lingua matematica universale. È chiaro che, per tali discipline, l’esistenza dipende dal loro erodere quadri disciplinari chiusi e isolati. In questo senso, il pensiero diagrammatico è un tale modello.
M.M. In base alla sua esperienza come sta cambiando il modo di fare ricerca nelle università italiane e francesi?
C.A. Alla mia età, a più di sessant’anni, non si può vedere la situazione attuale se non in modo pessimista! Oggigiorno, siamo in piena crisi con Università che seguono un modello di management industriale. Le università, e le «grandes Écoles» come la Normale di Pisa o di Parigi, stanno perdendo tutti i valori che le fondavano. Denaro (e velocità), velocità perché denaro, orientano ormai le politiche universitarie Europee, sul modello Americano… Ora, il sapere e la cultura non sono merci e non possono essere gestiti come delle merci su un mercato. Questa tendenza irreprimibile è molto preoccupante. E su questo argomento, se l’università italiana sta male o malissimo, ciò vale anche per l’università francese. In Francia, per ora, non c’è più nessuna speranza di diventare universitario a pieno titolo: solo precarietà generalizzata… Non c’è peggiore politica che questa per fare crollare tutto il sistema educativo e di ricerca. Burocratizzazione all’estremo è la parola chiave per queste istituzioni. Notate lo spazio occupato dalle diverse amministrazioni (estensioni immobiliari) e la diminuzione relativa delle unità di ricerca universitaria… Pensate alle direttive imposte da Bruxelles da tecnocrati totalmente allontanati dal terreno dell’insegnamento e della ricerca…
In breve siamo mal messi, e per chiudere con un po’ d’umorismo che devo a un amico napoletano: «Se tutto va bene siamo fottuti».
M.M. Quale libro suggerirebbe ai nostri lettori per conoscere il suo campo di studi?
C.A. Per avere un’idea “completa” e contemporanea del mio campo di studi, suggerirei due libri: il primo è quello di Gilles Châtelet, di cui esiste già una traduzione italiana e una versione inglese, Les Enjeux du mobile. Mathématique, physique, philosophie, Paris, Le Seuil, «Travaux», 1993. Il secondo è il libro prodigioso di Fernando Zalamea, Philosophie synthétique de la mathématique contemporaine. 1950-2000, Paris, Hermann, «Pensée des sciences», 2018, che ho tradotto in francese nella mia collana. Esiste ugualmente un’edizione inglese, l’originale essendo in spagnolo. Ma bisognerebbe aggiungere i testi di Jean Cavaillès e di Albert Lautman, senza parlare dell’opera bachelardiana per l’iscrizione di questi due volumi nella loro tradizione particolare.
M.M. Professore, mi permetta di rivolgerle un’ultima domanda, spero che non la consideri impertinente. Lei ha un nome francese e un cognome italiano (che a Parigi suona “Aliunì”). Si auto-percepisce come un italiano che parla in francese o un francese che parla in italiano?
C.A. La sua domanda concerne il concetto d’identità. Come lei lo sa, è un problema molto complesso. Implica, tra l’altro, le questioni essenziali del “tradurre” e problemi di genealogia. La cosa buffa è che in Italia sono considerato come “puro” francese che parla l’italiano con un accento “gallico” seducente (o no); in Francia sono considerato come italiano, di più nato a Nizza, questa città garibaldina… Ho tendenza a percepirmi come preso tra due fuochi, nel mezzo delle due lingue e delle due culture (al minimo). Anche se, non essendo esattamente bilingue, mi sento più a mio agio nella lingua francese. Al livello del sentire “sociale” (in Francia o alternativamente in Italia), devo dire che mi sento bene e mi sento male nei due paesi ugualmente. E ho delle preferenze molto marcate tanto in Italia quanto in Francia: Venezia, Parigi o morire…
Ma, come ho grandi difficoltà a pensare che si possa vivere senza nessuna esperienza di traduzione, esperienza edificante, difficile ma inevitabile, nello stesso modo non riesco a pensarmi interamente da un lato del confine, all’esclusione dell’altro: o Italia, o Francia. Di più, ho insegnato cinque anni in Germania, e finalmente, trovarsi in questa situazione di “mezzo”, ha delle implicazioni mentali ed etiche: determina l’accesso all’Altro, allo straniero, allo straniero in sé e in noi, e quindi sostiene e aguzza la curiosità e l’apertura mentale… Nonostante la grande prossimità territoriale, la Francia e l’Italia sono due paesi molto diversi, con costumi diversi, storia diversa, ricchezze diverse, codici comportamentali molto diversi, patrimonio diverso, ed è questa la vera ricchezza… Ora, imparare l’altro codice, il codice dell’altro, richiede anche molto tempo, pazienza, apertura e finezza nell’osservazione. È un processo senza fine… Per me, tale “situazione” ricopre tutto un programma di filosofia pratica: la filosofia concreta della vita…
M.M. Grazie Professore!