Descrivere la modernità: a proposito di “public history”*
2.Modernità
Al concetto periodizzante di moderno ha dedicato una riflessione convincente Giuseppe Galasso. Negli ultimi anni sono state pubblicate in Italia non poche introduzioni e guide alla storia moderna: tanto che oggi si può dire che sia venuto formandosi e sviluppandosi un vero e proprio “genere” storiografico. Ma i caratteri originali del volume di Giuseppe Galasso, Prima lezione di storia moderna,[1] sicuramente vanno ben oltre sia la produzione corrente sia il “genere”. E i motivi sono molteplici. In primo luogo la struttura del libro: definizione e apertura della storia moderna, strumenti e sentieri del moderno, lo Stato, superiorità e novità del moderno, moderno e scienze sociali, modernità del postmoderno, studiare la storia moderna, il problema delle fonti. Come risulta facilmente da questo elenco sommario dei capitoli, tutta la struttura converge verso un centro: organizzazione della materia, procedimenti logici e argomentazioni sono tesi a continuamente dimostrare la legittimazione epistemologica della storia moderna. La più forte teorizzazione di tale legittimazione è nell’identificazione di un “blocco storico epocale” che comprende l’unità di moderno e contemporaneo. Scrive Galasso: “La si definisca moderna o contemporanea, la materia complessiva delle due storie si presenta con gli aspetti di un unico blocco storico epocale. Come ogni altro, anche questo blocco storico è articolabile in fasi diverse, e in ciascuna fase risultano accentuati aspetti e problemi diversi del corso storico. Tra età moderna ed età contemporanea non appaiono, però, in nessun modo fratture in grado di delineare una diversa filosofia del loro significato e della loro dialettica storica”[2] (corsivo nel testo).
Occorre ripartire dalla formazione del senso comune, dall’idea stessa di storia moderna, per cogliere meglio l’importanza della tesi di Galasso. Si possono identificare tre significati di storia moderna: a) una semplice scansione cronologica; b) un’idea minimalista; c) un’idea forte.
- a) Il periodo compreso tra il 1492 e il 1815 potrebbe essere considerato una semplice scansione cronologica nel tempo unilineare della storia. Si tratta della partizione accademica convenzionale che da per scontato il termine “a quo” e il termine “ad quem”, non si pone questioni di legittimità né dal punto di vista epistemologico né dal punto di vista disciplinare. Può essere una scelta, ma non contribuisce certo a riempire il vuoto di senso comune.
- b) I tre secoli dell’età moderna sarebbero quelli che preparano la contemporaneità. Si tratta di una visione al tempo stesso minimalista e dipendente della storia moderna: minimalista perché pesantemente riduttiva del valore del moderno; dipendente perché è andata emergendo in relazione alla nascita e allo sviluppo della storia contemporanea come disciplina autonoma di insegnamento universitario nella seconda metà degli anni Sessanta, che ha avuto bisogno di autolegittimarsi proprio nei confronti della storia moderna. In realtà la fissazione del termine “ad quem” della storia moderna al 1815 è precisamente conseguente alla formazione della storia contemporanea come disciplina e la periodizzazione 1492-1815 fu stabilita come trasposizione, a livello di studi universitari, della cronologia scelta nei programmi della scuola media secondaria. Qui non voglio ingaggiare una guerra disciplinare: ci mancherebbe altro. Voglio solo dire che risulta assai problematica la definizione del concetto di storia contemporanea sia per quanto attiene alla cronologia e alla scelta del termine “a quo”, sia per quanto attiene al significato dell’attributo Una cesura tra moderno e contemporaneo, impostata su una periodizzazione secca, per così dire, non giova soprattutto ad una più piena legittimazione disciplinare della storia contemporanea. Perché il tempo dell’inizio dovrebbe essere il 1815? Davvero siamo di fronte ad una data-simbolo capace di rappresentare il passaggio ad una nuova storia che muta in profondità i connotati della modernità?
- c) Di fronte alla possibilità di legittimare concettualmente in senso forte il moderno, la modernità, sta la difficoltà di fondare sul piano epistemologico la nozione di contemporaneo . C’è come uno slittamento semantico tra i due concetti: il primo denso, carico di significati; il secondo più debole e leggero nella misura in cui vuole ricercare il suo fondamento esclusivamente su una periodizzazione intesa come pura cronologia. Chi nel Novecento ha proposto un più convincente significato di storia contemporanea – e mi riferisco, ben s’intende, a Croce – ha dovuto prescindere dal dato cronologico e ha assunto l’attributo di contemporaneo come un atteggiamento dello storico nel costruire il delicato equilibrio tra il presente e il passato. E lo stesso Marc Bloch, lontano dalla concezione storica di Croce, era molto vicino al filosofo abruzzese nella visione del rapporto passato-presente e, quindi, avrebbe condiviso la sua idea di storia contemporanea.
La concettualizzazione forte del moderno sta nel concepirlo come il tempo-spazio in cui si costruiscono e si sviluppano i fondamenti e le vie diverse del nostro vivere in comunità. Ho cercato di seguire questa traccia nella mia esperienza di un corso di storia moderna per l’università[3]. Pur conservando l’impianto di un manuale scandito secondo l’ordine cronologico e problematico accademico tradizionale, ho perseguito l’obiettivo di rendere riconoscibili alcune linee di sviluppo e di passaggio da una prima ad una seconda modernità più matura ad una fase di crisi e trasformazione non della modernità, bensì dei suoi elementi di contraddizione e di ambiguità. Ho inteso altresì non trascurare spazi altri di modernità, non assimilabili alle già molteplici vie europee, ma in profonda osmosi con esse.
Così il ritmo della modernità è il ritmo stesso della storia: sia nella sua fase di apertura con Colombo, la formazione del sistema degli Stati europei durante le “guerre d’Italia”, la prima globalizzazione, la Riforma protestante, la Controriforma e la Riforma cattolica; sia nella sua seconda fase allorché viene sempre meglio configurandosi la superiorità dei moderni sugli antichi, il percorso dalla “crisi della coscienza europea” alla formazione delle idee nuove come diritti, progresso, culture, tolleranza, libertà, “sapere aude”, illuminismo e intellettuali, riforme e rivoluzione.
Un blocco storico epocale unico, un blocco cioè complessivamente unitario anche se al suo interno contiene più epoche. Il concetto di epoca è stato spesso usato nella storia della storiografia. Penso, solo per ricordare un esempio, alle lezioni di Leopold von Ranke dedicate alle Epoche della storia moderna. Si tratta di otto lezioni distribuite sulle seguenti epoche: le basi e le trasformazioni dell’impero romano, Germani e Arabi, il periodo carolingio, l’ “età gerarchica” (XI-XIII secolo), i secoli XIV e XV, l’epoca della Riforma e delle guerre di religione (fine XV-XVII secolo), l’età della formazione e dello sviluppo delle grandi potenze, l’età della Rivoluzione.
Nel blocco moderno-contemporaneo possiamo distinguere due forti discontinuità: le due guerre mondiali del Novecento, le fratture fra XX e XXI secolo. Così il periodo compreso fra le guerre mondiali e la globalizzazione, più che storia contemporanea, può essere considerato un’ epoca della storia moderna. Il suo punto di arrivo, a noi contemporaneo, ci presenta almeno cinque fratture: il terrorismo internazionale, esemplificato dall’attentato alle Torri Gemelle; le nuove gerarchie mondiali (Cina, India, Russia in particolare) e la ridefinizione delle potenze regionali nella geopolitica internazionale; i flussi migratori e lo sconvolgimento demografico e culturale dell’Occidente; un’Europa che stenta a imporsi come soggetto politico integrato; la fine delle ideologie ma anche la formazione di nuovi sensi di appartenenza che producono la schizofrenia del “villaggio globale” tra fondamentalismi, integralismi, rifugio nel localismo xenofobo.
Descrivere e comunicare questa idea di modernità è compito difficile. Nella mentalità diffusa modernità è uno spazio vuoto che è andato formandosi e crescendo negli ultimi decenni. E’ uno spazio vuoto tra il tempo lontano, lo spazio esotico, fantastico e fascinoso del Medioevo, e il tempo-spazio dell’istante, o meglio l’istante privo di spazio-tempo della contemporaneità. Lo spazio-tempo del moderno è vuoto perché schiacciato insomma tra la fuga dal presente storico e il presente vissuto come istante astorico, privo di passato: è questa la rappresentazione che si vive nei processi di comunicazione del quotidiano.
Nella pratica didattica, dunque, descrivere la modernità nella sua dimensione storica non è semplice. Tuttavia alcune indicazioni, desunte dalla mia esperienza quarantennale, possono contribuire a favorire una migliore ed efficace comunicazione della storia moderna.
La prima indicazione è di tipo linguistico. Bisogna capire e far capire che esiste una differenza radicale tra la scienza storica ed altri tipi di scienze, come quelle matematiche, fisiche, naturali, e quelle normative. La storia adotta un lessico proveniente dal linguaggio comune. Le altre scienze dispongono di una nomenclatura lessicale propria: il linguaggio fa parte integrante del loro statuto epistemologico. Il che, se apparentemente ne complica l’apprendimento, sostanzialmente lo favorisce: perché, una volta memorizzato il loro apparato terminologico e comprese le definizioni dei termini adottati, si entra nel cuore della conoscenza scientifica. Il rapporto fra apparenza e sostanza si pone in modo differente nel lessico storico. Le parole che noi usiamo appartengono al linguaggio quotidiano. In apparenza questo semplifica tutto, perché le parole della storia sono immediatamente comprensibili. In sostanza invece, proprio perché la stessa parola può contenere significati diversi, tutto è più complicato. Dobbiamo volta per volta precisare il significato delle parole che noi usiamo, delimitarne lo spazio e il tempo, mantenerle in equilibrio costante fra contestualizzazione e comparazione. La modernità ha una moltitudine di esempi a questo riguardo. Prendiamo le parole crisi, parlamento, stato, feudalesimo, impero, ecc. Ma non bisogna aver paura di infrangere le barriere. Bisogna educarsi ed educare ad affrontare in modo corretto il rapporto fra presente e passato, partendo proprio dagli stimoli e dai problemi che ci suggerisce l’attualità, ma mantenendo ben ferme l’alterità fra presente e passato e l’esigenza di non schiacciare il secondo sul primo, strumentalizzandolo al fine di una giustificazione del presente.
Parto spesso, nella mia esperienza didattica, dal presente: soprattutto dal lessico corrente che utilizziamo per descrivere e rappresentare processi storici a noi contemporanei. Prestando molti accorgimenti e avendo ben chiare le differenze di contesto spazio-temporale, ho fatto spesso ricorso all’uso dell’analogia, per esempio adottando l’endiadi impero e imperi. In questo caso l’endiadi, cioè l’integrazione fra due termini in cui il secondo specifica e chiarisce ulteriormente il significato del primo, stringe in un unico nesso l’impero come forma politica in cui è possibile riconoscere alcune caratteristiche ricorrenti e, per così dire, strutturali, e gli imperi al plurale, che ne confermano le analogie pur nelle diversità spazio-temporali e ne specificano i caratteri nel tempo e nello spazio storici in cui si sviluppano. Così, partendo dal mondo attuale in cui la geopolitica internazionale ci consegna nuove forme “imperiali”, come quella cinese, russa, indiana, e proseguendo con l’analisi degli imperi dei due blocchi successivi alla seconda guerra mondiale (quello sovietico e quello americano), si può arrivare all’osservazione, descrizione e rappresentazione di uno dei processi più importanti della modernità, la genesi, l’affermazione e il declino del sistema imperiale spagnolo tra XVI e XVII secolo, identificando analogie e differenze.
Un esempio interessante di intrecci, analogie e differenze tra lessico corrente e lessico storico è l’uso, oggi frequentissimo nei media, del termine feudalesimo per indicare le cose più diverse. Rinvio, per un’analisi dettagliata di questo fenomeno, all’introduzione del mio volume Il feudalesimo nell’Europa moderna[4].
*Testo delle lezioni svolte al Master in Public History presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università Statale di Milano l’8 e il 9 febbraio 2018. Dedico questo piccolo scritto alla memoria del mio grande amico e maestro Giuseppe Galasso.
[1]Roma.- Bari 2008.
[2]Ivi, p. 21.
[3]A.MUSI,Le vie della modernità, 2000, sedici edizioni fino al 2016.
[4]Bologna 2007.