Dialogo tra un riformista e un conservatore sul potere urbanistico
Naturalmente, un manoscritto. Le riflessioni sul potere, sulle capacità e responsabilità di governo di una città attraversano i secoli e si intrecciano con la natura stessa della politica, dell’arte di governare le città come sintesi del potere di fare e della responsabilità di guidare. Discuterne oggi rischia di essere deformato dalle contingenze, dalla pressione delle criticità che caratterizzano la città contemporanea, dalle partigianerie dei modelli culturali. La serenità della distanza critica ci proviene da un manoscritto eruttato da qualche archivio della memoria, forse trascritto da attenti amanuensi, che riporta il dialogo tra un urbanista conservatore e un urbanista riformista sul potere di progettare e governare una città. È un manoscritto senza tempo e che attraversa i tempi, fornendoci indicazioni preziose sui poteri che si scontrano nelle città, sulla diatriba tra regolazione e condivisione, tra un potere gerarchico e uno distribuito, tra un potere di fare e un potere per fare. Dilemmi antichi che sono la natura stessa delle città e che ancora oggi ci consentono di riflettere sullo straordinario potere dell’urbanistica nel configurare città, fornendo una forma al patto di cittadinanza che le connota.
Leggiamo il manoscritto, prima che torni a perdersi negli meandri degli archivi, perché, anche se distante nel tempo e nello spazio, ci fornisca ottiche del presente per traguardare meglio il futuro.
Scena iniziale: attorno ad una carta della città di P. siedono dolenti due urbanisti chiamati dalle fazioni che si contendono il governo della città a proporre soluzioni. La mappa è piena di segni, di rossi violenti e di azzurri calmi, di tensioni sopite e di ferite aperte. Dei due urbanisti, l’uno ha le sembianze di un fauno dal piè veloce, l’altro ha le fattezze di una testuggine dal ragionamento solido. Il primo chiama se stesso Riformista, il secondo si definisce un Conservatore. Entrambi commentano con amarezza la sorte della città di P., entrambi si sentono depositari di una via maestra per guidare il potere cittadino a risolvere la situazione. Ascoltiamone il dialogo.
R. [Trafelato e corrucciato] Presto! Non perdiamo altro tempo a ridisegnare la città! Oggi il potere dei governanti è imbrigliato da troppi veti, la burocrazia sterilizza le scelte dei decisori. Occorre una nuova legge di revisione completa dell’urbanistica. L’attuale codice è ormai obsoleto e non riesce più a guidare i processi tumultuosi a cui è sottoposta la città. Risposte, soluzioni e progetti: questo ci chiedono i cittadini.
C. [Pacato e preoccupato] Mio buon amico e antagonista, rallenta e ragiona. La soluzione al problema di un potere cittadino sterilizzato non è la necessità di nuove leggi, ma la severa e onesta applicazione di quelle esistenti. Il potere urbanistico dei governanti si esercita recuperando la capacità di esercitare la regola contro la magmaticità dell’arbitrio. Dobbiamo suggerire ai governanti la soluzione coerente piuttosto che aiutarli ad inseguire la risposta contingente.
R. Ma come fai a sostenerlo? Vuoi ancora difendere la validità di un modello piramidale del potere? Pensi ancora in termini gerarchici: dalle regole generali derivano quelle intermedie e da esse a loro volta derivano le regole locali. È un’inutile cascata che spesso si interrompe e non porta più acqua al mulino che sta a valle, interrompendone la funzione produttiva. Il potere urbanistico si esercita attraverso piani capaci di incentivare la vitalità economica del territorio, producendo soluzioni, progetti, nuove forme e funzioni.
C. Così è il mulino quello che interessa al tuo governante, vuole che esso lavori sempre, che macini incessantemente, che produca e guadagni. Non si interroga mai a chi serva la sua produzione, oltre alla famiglia del mugnaio? Invochi la necessità che il privato sia stimolato ad agire senza troppi impedimenti: egli chiede di investire e noi forgiamo la città con le regole adatte alla sua domanda. Ma il potere si chiede mai se la domanda del privato è legittima? Se essa agisce nell’interesse collettivo? Se quel mugnaio produce un pane che qualcuno mangia? Chi lo ha stabilito?
R. Non puoi sempre invocare il ruolo del potere politico come “deus ex machina” che risolve le situazioni di conflitto, che costruisce la scena entro la quale i personaggi agiscono, rivelando che essi sono solo pedine. In tal modo espliciti una visione di un potere sovrastante che mortifica la vitalità del locale, che comprime la sua capacità di proliferare e di assumere responsabilità, di guardare da vicino le domande di trasformazione, di interpretare i palinsesti territoriali e di trasformarli in nuovi ipertesti per il futuro.
C. Tu e il tuo locale proliferante! Ma come puoi esserne così innamorato da non vederne il rischio di una bulimia decisionale? I tuoi nuovi municipi rischiano di diventare torri fortificate l’una contro l’altra, rischiano di minare la coesione territoriale, minacciano di scardinare l’armatura della storia. Oggi il valore della coesione, il ruolo raziocinante dell’integrazione è predominante: non sempre la somma dei locali costruisce un globale migliore, non genera un mosaico prezioso ma un’oscura nebulosa. Sono l’integrazione e la coesione gli obiettivi che dobbiamo perseguire. La prima consente di far convergere gli interessi piuttosto che farli confliggere; la seconda consente che attorno alle centralità del territorio si generi qualità, contesto, nuovi paesaggi contro un territorio disgregato e che compete al suo interno in un’incessante lotta per accaparrarsi risorse. I nostri sovrani tengono oggi impegnate le città con continui bandi a cui devono rispondere in tempi brevi: le soffocano di opportunità e non gli lasciano il tempo della riflessione, per giungere ad accordi sapienti piuttosto che ad alleanze urgenti.
R. Ti voglio seguire nel tuo ragionamento sul valore dell’integrazione delle azioni. Concorderai con me che la risorsa che più di altre necessita di integrazione di intenti è l’eredità culturale che rafforza la nostra identità. Se vogliamo far tornare la nostra città ad essere una Capitale dobbiamo fondare il suo futuro sul valore del suo straordinario patrimonio culturale, sulla sua capacità di produrre nuovo valore territoriale. Dobbiamo far convergere la tutela, la conservazione, la valorizzazione e la fruizione in un’armonia di azione che genera una sinfonia di sviluppo. Dobbiamo essere in grado di connettere le necessità della conservazione, a cui ci richiama la Costituzione dei nostri padri, con il progetto della trasformazione, a cui ci induce il futuro dei nostri figli. La stessa conservazione del patrimonio culturale può trovare prezioso e sapido alimento nella sua valorizzazione e fruizione, nell’immissione nella turbinosa catena del valore del turismo culturale.
C. Fermati! Sento nelle tue parole riecheggiare il nefasto termine “giacimenti culturali”, in cui l’eredità culturale viene sottoposta alle regole del mercato. Parli di catena del valore del turismo ma non ti accorgi che così si svende la nostra identità, la nostra stratificazione storica, ad un vento mutevole quale l’economia del turismo, che segue la corrente e si muove con moti difficilmente prevedibili. E su cui è difficile fondare politiche strutturali con la stessa difficoltà che avresti di fondare un edificio sulla sabbia. Non che il vento del turismo non possa essere intercettato e trasformato da un mulino con potenti pale, ma dobbiamo avere anche altre “forze motrici” per quando il vento soffierà con minore vigore. Cosa rimarrà dei nostri centri storici una volta saturi di servizi e trasformati in locande diffuse? Come recuperare le morfologie e le tipologie storiche se ne abbiamo perduto le funzioni che le sottendevano? Come innescare processi di riqualificazione che non snaturino il corpo urbanistico della città? Serve il potere regolatore dei piani particolareggiati che si oppongano al dilagare della terziarizzazione, della gentrificazione, dei centri storici trasformati in parchi di divertimento.
R. Tu e i tuoi piani. Difendi il potere di una corporazione a servizio del potere. Vuoi fare piani dappertutto perché altrimenti resteresti senza lavoro. Guardati attorno: non vedi che la gente non vuole più piani, vuole flessibilità di azione. Ci chiede agende strategiche, documenti di orientamento delle strategie, accordi e patti di trasformazione. Altro che piani! È il volo libero di un gabbiano quello a cui dobbiamo ambire: sa dove andare, ma si lascia trasportare dalla corrente, sceglie il suo percorso in funzione delle condizioni atmosferiche. E se alla fine cambia destinazione è perché ha trovato un mare più pescoso e un porto più affollato. Pensa al tema delle infrastrutture. Perché dovrebbero essere i piani a stabilire dove devono essere fatte? Esse percorrono il territorio lì dove la domanda di trasporto le richiede, dove esse possono connettere l’origine e la destinazione delle attività, del commercio, dell’eterno muoversi delle persone e delle merci. Le città, concorderai con me, sono sempre state nodi di interscambio di flussi, sono sorte ed hanno proliferato lì dove un’infrastruttura ne ha alimentato i traffici, ne ha consentito l’accessibilità, ne ha promosso il ruolo. Città e infrastrutture sono le declinazioni diverse di uno stesso tema: l’armatura dell’insediamento. E tu vorresti che sia un piano a stabilire la mappa delle interconnessioni? Oggi saremmo ancora in una situazione di disgregazione territoriale: le città e le reti precedono i piani e le regole.
C. Tu invochi il primato delle reti e il valore dei nodi e non ti accorgi di difendere il potere miope del mercato! Ma non c’è rete senza il rigore della sua topologia: non bastano punti ed aste a tessere una rete, così come non basta trama e ordito ad intrecciare un tessuto di pregiata fattura. Le città sono nodi – dici – ma sono anche “luoghi” perché vivono di una dimensione concreta, fatta di identità, di comunità, di spazio e di tempo: insomma di territorio. Le città non sono solo “distributori di flussi” come tu credi, che assistono indifferenti al passaggio dell’energia vitale delle reti. Esse sono soprattutto “commutatori territoriali”, sono trasformatori che attingono all’energia dei flussi e la trasformano in energia territoriale, intercettano il capitale fluente degli scambi e lo solidificano in “capitale di territorio”. Ma tutto questo non può avvenire in assenza di regole, in assenza di un’organizzazione consapevole, altrimenti la rete dissipa energia, disperde i suoi flussi o perde la tensione. Non farti affascinare dalla potenza che emanano le vibranti reti infrastrutturali, non farti sedurre dalle crescenti velocità che possono garantirti. Ma chiediti a cosa servono, domandati cosa fare perché non rimangano mai vuote, perché ci sia sempre un territorio che ne alimenti i flussi, un cuore che ne pompi il sangue. E la risposta frequente a queste domande è la necessità di un progetto, e non solo di un progetto infrastrutturale, ma di un “progetto di territorio”.
R. Mentre tu filosofeggi contro il mercato, Sagunto viene espugnata. Mentre invochi un potere statuale che attraverso regole verifichi la fattibilità dell’allargamento di un porto, la città dall’altra parte del mare ha già attratto il tuo potenziale flusso di navi. A te resta l’intangibilità delle regole e l’ineluttabilità del declino della città. Oggi le città devono tornare ad essere luoghi in cui si solidifica la creatività, devono essere in grado di attrarre artisti, architetti, lavoratori della cultura e dell’arte, devono procedere sapendo cogliere le nuove opportunità che il volo planetario della classe creativa può offrire: nuove economie saranno in grado di generare nuove geografie; nuove filosofie sapranno attivare nuove società. La città del futuro dovrà essere una città dinamica, una città in cui ad un necessario arretramento del governo, corrisponda una stimolante avanzata della governabilità, l’ampliamento di un ambiente sussidiario e cooperativo. Dobbiamo passare da un potere assoluto al poter fare.
C. I creativi mi sembrano talvolta dei falsi idoli. Tu li mitizzi, ma contemporaneamente ne sottolinei i limiti: dici che la speranza della città è di attrarne il più alto numero in modo che essi la possano fecondare. Ma dovresti dire che la città deve essere capace di “generare” i creativi, di far scaturire dal suo corpo antico e dalle sue ambizioni contemporanee la sua classe creativa, la quale, in un rapporto osmotico, deve attingere al latte della madre città e deve restituire la carne e il sangue del pullulare di nuove attività, il miele della produzione artistica e l’ambrosia della cultura. È la città che deve tornare ad essere creativa, attingendo alla potente risorsa della sua identità, della sua cultura, della sua popolazione, in un processo di comunicazione permanente finalizzata alla cooperazione. È “strategia” la parola che voglio sentire: un potere che si trasferisce in numerose azioni congiunte, espressione di attori coalizzati, in un ritmo temporale definito e all’interno di procedure concordate. Agire strategicamente significa avere ben chiara la missione e progettare il futuro tenendo costantemente sotto controllo il mutamento dei contesti: ogni nostra azione sulla città e sul territorio li modifica. Ad ogni azione corrisponde una perturbazione del sistema, il quale in un gioco di rifrazioni e di riverberi reagisce modificandosi in tutte le sue parti. Impegno degli urbanisti deve essere saper individuare tempestivamente le modifiche di contesto e indicare ai governanti la strada per tenere in sincronica coerenza il progetto.
Scena finale: attorno ad una carta della città di P. siedono dolenti due urbanisti. La mappa è ormai bianca, la città se ne è andata, spazzata via dall’uragano delle trasformazioni, schiacciata dal peso delle emergenze, affamata dalla mancanza di risposte e sepolta dalla sabbia dell’indifferenza. La popolazione si è consumata in attesa di una risposta complessa che ormai ha portato la carta alle dimensioni della stessa città di P. Dei due urbanisti, il Riformista ha il passo appesantito, il Conservatore ha le certezze meno solide. Entrambi disputano da troppo tempo, ormai per diletto sovente si scambiano le parti. Perché il sospetto è che recitino una vecchia parte che è stata affidata loro.
Mentre si affievoliscono le loro argomentazioni, da lontano si sente progredire la sonorità di voci giovanili che intonano inni a Dioniso. Sembrano molte. Sono suoni di donne e di uomini, si riconoscono lingue meridiane e accenti più brumosi, voci stentoree ma anche cinguettii. Tra di loro si chiamano “cittadini attivi”, tutti hanno in mano tavolette in lucente metallo in cui trasferiscono le loro passioni e le loro idee, attraverso cui divulgano i loro dubbi e confrontano le loro certezze. Mille fili invisibili li connettono tra di loro, rafforzando il potere dei singoli attraverso la rete della condivisione delle idee e delle proposte. Ormai sono vicini, le loro voci si affiancano a quelle dei due anziani urbanisti in disputa, talvolta le sostituiscono.
Non si lasciano attrarre dalla disputa. Essi sanno che la dialettica non salverà la città. Sono consapevoli che nella lotta tra riformismo e conservazione non vi è vincitore. Capiscono che la prevalenza dei poteri locali è un’illusione che fa da specchio al potere centrale. Illusione che solo una “governabilità democratica” può sconfiggere. Un potere interconnesso attraverso l’Etica della Convenienza: molti poteri che agiscono verso lo stesso obiettivo perché concorrono ad una visione comune.
Non si lasciano irretire dalla diatriba tra piano e progetto, tra regole e genialità. Sanno che il potere urbanistico per rifondare la città di P. deve seguire un ritmo guidato dal pentagramma formato dalla visione, dalla strategia per perseguirla, dalle norme che ne consentano l’attuazione, dal progetto che ne configuri gli spazi e dalle regole che ne agevolino la realizzazione. Ognuno disporrà le proprie note sulle righe producendo la sonorità che riterrà in armonia con la cultura dei luoghi.
Anch’essi commentano con amarezza la sorte della città di P., anch’essi posseggono visioni, idee e, fervidi credenti nella reticolarità del potere, intendono proporre indicazioni per risolvere la situazione. Ascoltiamoli, seguiamoli, consigliamoli e guidiamoli, perché non le prossime elezioni sono il vero orizzonte del potere, ma le prossime generazioni.