Dipinti smarriti, e virtualmente ritrovati
Se la rete aiuta nella ricerca di opere d’arte scomparse
Grazie a Internet, e grazie, soprattutto, a tutte le istituzioni che stanno aprendo i loro archivi e rendendo disponibili le loro pubblicazioni – in un mondo che sta abbattendo le barriere delle “proprietà” – sono adesso disponibili molte digitalizzazioni del “Bollettino d’arte” del Ministero dei beni culturali.
Qualche cenno sulla storia della prestigiosa pubblicazione. Il Bollettino nasce nel 1907 sotto la guida di Corrado Ricci (allora direttore generale dell’amministrazione di Antichità e belle arti) come organo mensile d’informazione del settore del patrimonio artistico nazionale: “L’informazione sulle attività, con prevalente funzione di rapida messa a conoscenza di acquisti, restauri e importanti ritrovamenti, una sorta di notiziario, venne ben presto riassorbita all’interno della più ampia fisionomia di rivista di arte antica e moderna”.
Dal 1938 al 1944 fu pubblicato con il titolo “Le Arti”, per riprendere l’originale testata guidata da Guglielmo De Angelis d’Ossat (1948) (www.bollettinodarte.beniculturali.it).
E proprio un numero edito nel periodo bellico, negli anni 1939-40, ci consente di aggiungere notizie su due dipinti già oggetto di nostri studi. Due opere, scomparse da decenni, che alla data della pubblicazione si trovavano “in un deposito del Convitto Nazionale Vittorio Emanuele”, insieme ad una terza opera che, per fortuna, ci è pervenuta, e di cui abbiamo già scritto su questo settimanale (Sventola ancora lo “stendardo missionario”, 11 ottobre 2017, https://www.lidentitadiclio.com/sventola-ancora-lo-stendardo-missionario/). Si tratta di dipinti già nella chiesa del Collegio Massimo, Santa Maria della Grotta, noti per le citazioni fatte dai descrittori dell’edificio, da Mongitore in poi.
La prima opera è un Arcangelo Michele che l’estensore del testo – ben probabilmente il “Funzionario preposto al restauro Roberto Salvini”(1) – attribuisce alla “Scuola di Pietro Novelli (Rosalia Novelli?)”. Il dipinto “si presentava in condizioni leggermente buone rispetto agli altri due qui ricordati, ed il restauro si è limitato a fissare la tela al telaio, a liberare il dipinto dalle incrostazioni di cera e di sudicio, e a campire con tinte locali alcune leggere scalfitture, di entità minima”. Il restauratore, per entrambe le opere, fu Benedetto Violante (2).
La seconda opera viene qui intitolata “La consegna della Regola ai Gesuiti”, e se ne indica l’autore in “S. Piccinelli (1577)”; è descritta come “offuscata e sudicia e presentava vari strappi. Si è provveduto perciò a fissare la tela sul telaio, a risarcire gli strappi e a ripulire il dipinto; nel margine inferiore di sinistra, sul legno della Croce sorretta dal martire gesuita, è tornata in luce la segnatura: Fe(cit). S. Pic/hinel/li 1677.”, con la differenza di un secolo rispetto alla data indicata nel titolo. Del Pichinelli o Piccinelli non abbiamo trovato, sinora, alcuna notizia, se non il riferimento a “PICCINELLI, Andrea e Raffaello, detti Andrea e Raffaello del Brescianino” (3), operanti nei primi decenni del XVI secolo e non in Sicilia, e quindi assolutamente non riferibili al nostro dipinto.
Quanto alla data, molto più probabile che quella corretta sia il 1677: Santa Maria della Grotta fu consacrata il 12 marzo del 1646, a lavori ancora in buona parte in corso (l’affresco della volta, di Filippo Tancredi, ad esempio, è dei primi anni del ‘700). E, se il dipinto fu realizzato direttamente per la collocazione in chiesa, questi ultimi decenni del XVII secolo furono certamente anni di molti e qualificati interventi, su cui torneremo in un altro momento. Senza dire, poi, che al 1577 la Compagnia di Gesù non aveva ancora, a Palermo, nessuna sede “completa” (la posa della prima pietra del Collegio, e quindi di Santa Maria della Grotta, è del novembre 1586), per cui è alquanto improbabile la commissione dell’opera.
Dopo più di mezzo secolo, a queste stesse opere ha dedicato due approfondite schede Vincenzo Scuderi (4) (quando non erano ancora note le notizie di restauro qui citate), specificando che “si tratta di opere smarrite o trafugate, leggibili quindi per quel che consente la fotografia in bianco e nero, effettuata dalla allora Soprintendenza alle Gallerie della Sicilia nei primi anni cinquanta” (5).
Per Vincenzo Scuderi, il primo dipinto, da lui titolato come “San Michele ed altri arcangeli vincono gli angeli ribelli”, va attribuito non alla “scuola del Novelli” ma ad un “Ignoto fiammingo, metà circa del XVII secolo”.
L’acquisita conoscenza delle descrizioni della Chiesa di Santa Maria della Grotta, ha consentito all’autore di indicare l’opera come: “quella vista dal Di Giovanni, nel 1827, nella seconda cappella a sinistra della Chiesa – che già il Mongitore denominava dei Sett’Angeli – e di cui scriveva: il quadro di San Michele Arcangelo è una buona pittura di scuola siciliana. Nessuna meraviglia, naturalmente, per le diverse denominazioni, quella del Mongitore, Sett’Angeli, quella del Di Giovanni, San Michele Arcangelo, perché […] si può capire, specie nel tipo di pittura quasi tenebrosa, l’equivoco tra il vero soggetto, la lotta vittoriosa degli Arcangeli e quello pur diffuso in quel tempo dei Sette Angeli […].
Sul piano della cultura figurativa e del linguaggio dell’artista, è chiaro che il dipinto ci pone di fronte ad una personalità assai qualificata, sotto entrambi i profili, ma difficilmente tale buona pittura potrà essere data a scuola siciliana, come pensava il Di Giovanni; mentre più spontaneo, specie nella impossibilità di conoscere la gamma cromatica, viene di pensare al fervido ambiente napoletano, dei decenni del secolo XVII in cui, sugli esiti manieristici da Marco Pino e dal Santafede (vedi la leggera torsione del San Michele al centro e la posa di Raffaele e Tobiolo di spalle, sul margine sinistro) si innestano gli aspetti nuovi di luminismo e classicismo nelle strutture compositive in genere, che evocano contestualmente Battistello e Stanzioni. Dal Cavalier Massimo, in particolare, sembra discendere sia la soda plasticità che la ricercata grazia sentimentale delle figure, che il Causa già considerava come peculiare e generale nota caratterizzante del pittore.
Ma non è forse impossibile agganciare il nostro quadro ad altri di già individuata mano straniera, probabilmente fiamminga; in quello che fu, anche per noi, un fervido periodo ed ambiente pittorico, tra prima e seconda metà del secolo, quando più intenso era l’impegno di strutturazioni religiose di ogni genere e tipo, con i relativi arredi artistico-liturgici. In questo contesto, allora, la mano potrebbe essere quella che potremmo definire del Maestro del San Rocco di Trapani, dalla bella tela, appunto, con San Rocco medicato dall’Angelo, oggi al Museo Pepoli, alla quale alcune altre se ne sono accostate, più o meno validamente, negli ultimi anni. Se, per una immediata giustificazione di tale ipotesi, potessimo partire da qualche nota morelliana, due ne indicheremmo subito.
Primo: il delicato profilo, l’appuntito nasino e l’azzimata pettinatura sia dell’Angelo del San Rocco che di quello in piedi col canestro di frutta in mano, sul margine destro della nostra tela. Secondo: il vigoroso modo di impugnare bastoni, aste e spade, serrando bene le dita, nel San Rocco di Trapani e negli arcangeli del nostro quadro. Ma sarebbe troppo poco, se solo di questo si trattasse, per stabilire una fratellanza, e quindi una stessa paternità, del nostro perduto esemplare, rispetto alla splendida tela trapanese; anche la libertà e sicurezza compositiva, il modellato corporeo, l’uso della luce e persino taluni aspetti dei panneggi e delle ali angeliche, ci paiono pienamente collimanti. Questo dipinto perduto, allora, poteva essere un notevole anello per la ricostruzione più ampia di un pittore, già noto come una delle voci più originali ed apprezzabili del Seicento siciliano”.
Anche il secondo dipinto, qui definito come una Investitura gesuitica, è ritenuto da Vincenzo Scuderi opera di un “Ignoto fiammingo, metà circa del XVII secolo […] Accenniamo, intanto, in relazione al soggetto, e al titolo adottato (attinto dalla didascalia fotografica, numero di inventario 1938), e che ci sembra ben pertinente. La scena infatti mostra Sant’Ignazio che investe i propri adepti dei compiti missionari, o, comunque, evangelici, consegnando loro la regola (probabilmente) ed indicando loro che null’altro dovranno aspettarsi, se non il martirio, di cui sono simbolo le croci e le palme tenute in mano dalle figure di santi, pure presenti alla scena, contraddistinte dall’aureola. Per terra, a destra, un mantello cavalleresco e delle armature, simbolo della vita mondana, da cui, evidentemente, si deve spogliare chi abbracci il sentiero religioso.
Sul piano artistico due sono gli elementi di cultura e di gusto, che anche la fotografia sta a testimoniare; la base fiamminga che impronta la ricerca veristica nelle fisionomie – si vedano specialmente quelle dei santi – e nei gesti, come anche negli accessori della scena (il manto, le armature) e l’influsso luministico italiano, sia pure analitico e convenzionale; per cui, nell’affollata scena e contro il fondo scuro emergono in luce, come fiammelle, i volti illuminati degli astanti.
Quanto alle connessioni di linguaggio, quindi alla paternità eventuale nell’ambito del conosciuto, è la tela con l’Elezione di Mattia già del Noviziato dei Crociferi ed ora in Galleria quella che presenta con la nostra più stretta parentela; consentendo così l’ipotesi di inserimento del perduto dipinto gesuitico in un contesto di opere già note. Ma è solo un’ipotesi e non è impossibile che qualche altra emergenza o altre comparazioni non ci portino o a configurare una nuova personalità, pur sempre fiamminga, tra le tante operanti lungo il Seicento siciliano o a un diverso collegamento con qualcuna di quelle indagate”.
Una ulteriore recente ricerca (6) ci ha consentito la lettura del Verbale della riunione svoltasi l’8 gennaio 1916 proprio in Santa Maria della Grotta “per la tutela e la conservazione delle opere di antichità e di arte esistenti” nella chiesa ex gesuitica “non più officiata e da tempo occupata dall’autorità militare unitamente ai locali della sagrestia ed a buona parte di quelli del Collegio Convitto Vittorio Emanuele” e che “deve adibirsi a palestra ginnastica per uso del liceo Ginnasio Vittorio Emanuele in sostituzione della palestra ginnastica esistente nei locali occupati dal Collegio”. I presenti erano Giuseppe Spano, ispettore del Fondo Culto, l’architetto Giuseppe Rao (7), soprintendente ai Monumenti, il dottor Cesare Matranga (8), soprintendente alle Gallerie, Ludovico De Angelis, economo del Convitto nazionale, e l’ingegner Rosolino Milazzo del Genio Militare.
A quella data le tre opere erano ancora in chiesa e specificatamente: “il dipinto ad olio su tela rappresentante S. Ignazio che dà la regola dell’Ordine della Compagnia di Gesù, esistente nella prima cappella a sinistra; il dipinto ad olio su tela rappresentante San Michele Arcangelo, esistente nella terza cappella a sinistra; il dipinto ad olio su tela rappresentante Sant’Ignazio che riceve lo stendardo dalla Vergine esistente nella quarta cappella a sinistra”.
Soltanto l’ultimo, come abbiamo detto, ci è pervenuto. L’integrazione tra le fonti ci consente così di aumentare la conoscenza virtuale delle opere; e la pubblicazione delle fotografie delle due “scomparse” di aumentare la speranza che se ne possa trovare qualche traccia (trasferite? esposte inconsapevolmente in altri luoghi?), pur nel fondato timore che dal “magazzino del Convitto Nazionale” i dipinti si siano “involati” verso un mercato illegale.
Note:
1 Roberto Salvini. Storico dell’arte (Firenze 1912 – 1985), studiò a Firenze, Monaco e Berlino. Dal 1937 nell’amministrazione delle Belle Arti, fu a Trento, Palermo come Soprintendente alle Gallerie della Sicilia (dal 1939 al 1943) e Modena (1943); divenuto direttore degli Uffizi, promosse alcune innovazioni museografiche. Tra le sue opere citiamo le due “siciliane” dedicate ai Mosaici medioevali in Sicilia (1949) e al Chiostro di Monreale (1962). Docente di Storia dell’arte dapprima a Palermo, quindi a Trieste (1955), infine a Firenze (1963-1982), dove fu direttore dell’Istituto di Storia dell’arte, di cui fondò la biblioteca.
2 Benedetto Violante. Pittore e restauratore, sue opere note sono i quattro Affreschi degli Evangelisti a San Giuseppe Jato nella Chiesa del Santissimo Redentore, a Sciacca un San Calogero che sale al monte nella Chiesa omonima, e a Caronia nella Chiesa Madre una Madonna di Pompei. Nel 1941 lavora nella Sala delle Lapidi del Palazzo Pretorio sulle pitture tardo ottocentesche del fiorentino Tito Covoni; nel 1947 ad Alcamo restaura la Madonna della Catena, olio su tela sull’altare maggiore della chiesa omonima, nel 1948, con Vittorio Griffo, interviene anche sul Trionfo della Morte, che, anni prima era stato staccato da Palazzo Sclafani dal restauratore romano Piero Violante: e il comune cognome ci fa pensare a una parentela.
3 Vedasi il Dizionario Biografico degli italiani, disponibile all’indirizzo www.treccani.it
4 Nella prima edizione del volume Dalla Domus Studiorum alla Biblioteca centrale della Regione siciliana. Il Collegio Massimo della Compagnia di Gesù a Palermo, 1994
5 La statale “Soprintendenza alle Gallerie della Sicilia”, infatti, dal 1975 è divenuta “Soprintendenza ai beni artistici e storici della Sicilia” dipendente dall’Assessorato regionale dei beni culturali e ambientali. Scrive Scuderi, che Soprintendente è stato per oltre un ventennio (1965-1988), che le due opere sono scomparse “dal Convitto Nazionale” entro il 1968, dove erano state fotografate dalla Soprintendenza alle Gallerie della Sicilia (numeri d’archivio delle fotografie il 1938 e il 1940).
6 Archivio della Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Palermo, fascicolo “Regia Soprintendenza all’Arte Medievale e Moderna della Sicilia in Palermo”, Oggetto: Chiesa (ex gesuitica) Collegio Massimo (Biblioteca Nazionale). Consultazione e digitalizzazione del settembre 2007
7 Vedasi la scheda su Giuseppe Rao curata da Renata Prescia per il Dizionario biografico dei soprintendenti architetti (1904-74), edito nel 2011, Bologna, Bononia University Press
8 Palermo 1870 – 1916. “Studiò legge alle Università di Palermo e di Roma e fu laureato in quella di Urbino. Durante i suoi studi … visitò i più importanti luoghi e le principali raccolte artistiche della Toscana e dell’Umbria. A Roma visse fra gli artisti più noti del tempo … Tornato a Palermo, s’iscrisse all’Istituto di Belle Arti … La sua carriera nell’Amministrazione delle antichità fu coronata in fine dalla nomina ad ispettore, che egli ottenne per concorso. La pratica dei monumenti della Sicilia … lo metteva in tale evidenza, che dopo la morte del compianto prof. Salinas, egli resse, con onore, per più mesi, la direzione del Museo Nazionale di Palermo, e fu di poi nominato Soprintendente ai Musei Medievali ed alle Gallerie. E soprattutto egli conosceva, con la più minuta precisione, i monumenti che dentro e fuori di Palermo entravano nella giurisdizione della sua Soprintendenza. Molto aveva egli fatto affinché Palermo avesse la sua Galleria nel Palazzo Abatellis; e gran parte dell’attività, fino agli ultimi giorni di sua vita, egli spese al trionfo di questo ideale nobilissimo”. (dalla commemorazione di Ettore Gabrici, sul Bollettino d’Arte del 1917).
1. il dipinto rappresentante S. Ignazio che dà la regola dell’Ordine della Compagnia di Gesù;
2. il dipinto rappresentante San Michele Arcangelo;
3. il dipinto rappresentante Sant’Ignazio che riceve lo stendardo dalla Vergine.