Diritto di manifestare / mantenimento dell’ordine pubblico / reato politico. Una proposta di (ri)lettura per gli storici dell’età moderna.
Quanto è successo a Pisa e a Firenze venerdì 23 febbraio scorso, nel corso delle manifestazioni di studenti delle scuole medie superiori, universitari, etc. è negli occhi di chiunque. Nota è la presa di posizione del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella (in breve: «l’autorevolezza delle forze dell’ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni»); quella del Ministro dell’Interno della medesima Repubblica Italiana, Matteo Piantedosi, che (in breve) ha rivendicato di dovere mantenere l’ordine pubblico; quella (in breve) del Vicepresidente del Consiglio dei Ministri della stessa Repubblica, Matteo Salvini («chi mette le mani addosso a un poliziotto o a un carabiniere è un delinquente»).
Sugli eventi e su tali prese di posizioni istituzionali (di rappresentanti delle istituzioni della Repubblica Italiana) si è aperto un vastissimo dibattito in varie sedi. Ne ricordo solo due che, per quanto di natura e stampo molto diversi, danno il segno di chi ritiene indispensabile sottolineare e ribadire la centralità della Costituzione italiana al riguardo: l’emozione del professore Roberto Vecchioni nel corso del programma televisivo di Massimo Gramellini In altre parole di sabato 24 febbraio; le dichiarazioni del costituzionalista e presidente emerito della Consulta, Gustavo Zagrebelski, nel corso dell’intervista pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” di lunedì 26 febbraio (in breve: «La Costituzione tutela il diritto a manifestare senza autorizzazioni. Il Governo la ignora. Ci si mobiliti contro le involuzioni autoritarie»).
Si tratta di questioni e problemi che, ovviamente in altra veste, si sono spesso e in diverse circostanze nel corso dell’età tardo medievale e moderna, quindi nel corso di non pochi secoli, e che hanno avuto un acutissimo storico – al di là dei singoli eventi – del problema del reato politico. Giusto cinquanta anni fa usciva il fondamentale e insuperato libro di Mario Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna (Milano, Giuffrè, 1974), tanto citato quanto – a parere di chi scrive – poco studiato per le innumerevoli fonti primarie di cui si serve (trattatistica e letteratura giurisprudenziale).
Si ricorda – sperando di non semplificare troppo con le parziali citazioni che seguono – che Sbriccoli si muoveva «dentro un’area problematica ‘triangolare’», delimitata ai vertici da tre dati: «a) il dominio, come naturale, etica, storica ‘fatalità’ …; b) gli elementi di opposizione e di antagonismo che quel dominio pure conosceva, spesso esprimendoli esso stesso dal suo seno, per vitale necessità: nessuna struttura di potere, infatti riuscirebbe a sopravvivere senza poter cogliere nella dialettica di una contestazione ricorrente gli elementi necessari al suo rinnovamento, in assenza del quale sarebbe condannata ad una faraonica immobilità …; c) la struttura e l’ideologia della repressione come risposta – anche vitale – a quei fenomeni antagonistici: il complesso cioè, degli apparati ideologici delegati alla difesa del dominio o, più in particolare, il complesso di legislazione e giurisprudenza al quale veniva affidato il compito di sanzionare tecnicamente e legalmente la violenza espressa dalla Selbsterhaltung del potere» (pp. 2-3).
La «struttura del potere» dell’età medievale e moderna interessa a Sbriccoli «soprattutto in quanto soggiace ad una logica che ci si presenta come permanente e che ha determinato in modo omologo la società oggetto del nostro studio e quella nella quale quotidianamente viviamo». Certo è «che pochi temi fanno sentire al pari di questo quanto la storia sia storia dell’oggi» in relazione al «sistema dei delitti politici» (p. 4).
Basti pensare a come l’attuale Vicepresidente del Consiglio dei Ministri abbia gestito, in passato in quanto Ministro dell’Interno, il problema dell’ordine pubblico, e alle sue dichiarazioni attuali sui fatti di Pisa e Firenze, per ritrovare ciò che Sbriccoli definisce la «vera e propria ossessione della ‘patria in pericolo’ che fece del crimen laesae maiestatis un capitolo a sénella storia degli ordinamenti giuridici dell’Europa medievale e moderna» (p. 7).
Al problema di quello che ora è ordine pubblico (allora, turbatio status civitatis, quies rei publicae) Sbriccoli dedica, attraverso l’analisi di fonti primarie, numerose pagine della terza e ultima parte del libro, sulle fattispecie della ribellione, sulla fenomenologia della seditio (pp. 266-305). E, tra le fonti indicate da Sbriccoli, si trova ripetutamente l’opera del giurista trecentesco Bartolo da Sassoferrato, continuo riferimento anche nei secoli successivi per la riflessione sul rapporto tra obbedienza, ribellione, resistenza.
Vale la pena rilevare che Bartolo segnala quello che già prima di lui, era un problema che ai nostri tempi, e prima ancora dei recenti fatti del 23 febbraio, si presenta come quello del codice di identificazione dei singoli agenti di polizia. Non era, allora, indubbiamente problema di identificazione dei singoli ‘sbirri’ (birroarii), ma del complesso del corpo degli sbirri.
Nel commento ai libri X, XI e XII del Codice di Giustiniano, in specifico alla legge prohibitum (Codex, 10, 1, 5) Bartolo annotava che chiunque ne avesse interesse poteva resistere ai messi del principe (gli sbirri) che avessero compiuto un’esecuzione formalmente illecita o ingiusta. Quegli ufficiali del principe devono portare segni distintivi del loro ruolo, in base ai quali possano essere riconosciuti, come un berretto rosso o simili. Diversamente, si può loro resistere (traduco da Bartoli, Interpretum Iuris Civilis Copyphæi, In Duodecim Libros Codicis Commentaria, Basileæ 1562, edizione anastatica Frankfurt am Main, Vico, 2007, p. 841).
Bologna 27/02/2024