DONNE DEL PONTE DI FERRO
131 metri di ghisa stesi sul Tevere, arrivati dal Belgio, e benedetti da Pio IX nel 1863, collegano, a Roma, la zona dell’Ostiense alla Portuense- Gianicolense. È il Ponte dell’Industria, chiamato familiarmente dai romani il Ponte di Ferro (1). Il ponte, chiuso per restauri nel 2022, a seguito di un incendio, verrà riaperto per il giubileo del 2025.
Sul lato sinistro del Ponte un cippo, istallato nel 1997 dalla giunta Rutelli, ricorda la strage ad opera dei nazifascisti, avvenuta il 7 aprile 1944, di 10 donne. Su quell’avvenimento si è aperta una discussione circa la sua veridicità, mancando fonti documentali archivistiche. La relativa voce su “Wikipedia” ne scrive come ‘presunto’ eccidio.
Il negazionismo da parte di alcuni storici, rischia di deflagrare in occasione della ristrutturazione del Ponte fino, si teme, alla rimozione del cippo.
Ma uno storico può rinunciare a ricostruire un evento, non suffragato da documenti sufficienti, o deve percorrere tutte le strade per dimostrarne l’esistenza giungendo persino a interrogare gli “archivi del silenzio”? Marc Bloch ha affermato che è possibile per lo storico muoversi efficacemente “sulla linea che scorre tra ‘verisimiglianza e probabilità’ di quell’evento che è destinato all’oblio e che “non bisogna arrendersi finché un frammento di quel passato rimane nella vita del presente “.(2) Frammento che può ben essere rappresentato da testimonianze dirette e indirette come nel nostro caso.
Non si può trattare il tema dell’eccidio del Ponte di ferro, senza richiamare, seppur brevemente, lo scenario complessivo romano nell’inverno 1943-1944, che vede in azione sia la resistenza armata sia la resistenza civile, considerata, a torto, secondaria rispetto alla prima. Su Roma – scrive Giorgio Amendola, che la piazza romana dirigeva (3) – ha pesato a lungo l’accusa di attesismo. Accusa, ritenuta da lui ingiustificata, che trascura la situazione politica in cui si trovava la Capitale, che Milano stentava a riconoscere come il centro politico, la sede della direzione dei partiti antifascisti in via di organizzazione, dei rapporti con il governo. Inoltre il Vaticano assicurava, in quel momento, una vasta assistenza agli sbandati, ai ricercati, ai dirigenti politici del CLN e non voleva il passaggio dei poteri dai tedeschi agli alleati con un intervento, nella lotta, delle masse popolari (4). Nonostante la resa a Porta San Paolo, i combattimenti erano continuati in ordine sparso, senza una direzione. Reparti dell’esercito avevano opposto una valorosa resistenza alla Magliana, alla Cecchignola, a Velletri, nei colli Albani e a Monterotondo. (5) Nel marzo ’44 fu tentata un’azione militare in via Tomacelli con bombe a mano e tiro di mitra. “Il Messaggero“ scrisse di tre feriti gravi e due leggeri, “ma il conto non era esatto, i morti furono almeno tre… Dal successo dell’azione di via Tomacelli – scrive Amendola – fummo incoraggiati a proseguire con più impegno nella nostra azione. Fu deciso, così, di organizzare un nuovo e più grosso colpo il 23 marzo, giorno nel quale ricorreva l’anniversario della fondazione del fascio. […] Era la prima volta che veniva combinata, nel cuore di Roma, un’azione armata coordinata da squadre armate di due formazioni diverse”. (6) Si tratta di via Rasella e delle fosse Ardeatine.
Nella gelida primavera del 1944, con l’approssimarsi del fronte, Roma ha caratteri da tragedia greca: mancano acqua, luce, gas e viveri. La popolazione romana aumenta vertiginosamente, in modo clandestino. Arrivano nella Capitale famiglie dai Castelli, dalle campagne intorno a Nettuno, per cercare alloggi di fortuna nelle scuole, in qualche ala abbandonata di ospedale e persino nelle caserme. Oltre duecentomila persone vivevano in condizioni disumane.
A un giorno di distanza dalle Fosse Ardeatine si abbattè sulla città l’ordinanza del generale tedesco Kurt Malzer – comandante della città durante l’occupazione – di riduzione della razione giornaliera di pane destinata ai civili : da 150 a 100 grammi a persona.
Su “ Il Messaggero” in seconda pagina – a firma Memo – il 25 marzo ‘44 , sotto il titolo ‘Pane e paste ‘ si legge un accorato appello affinché i romani accettino con “disciplinata serenità” la riduzione della razione di pane, causata contemporaneamente dall’arrivo in città di sfollati e profughi e dai bombardamenti che intralciano le strade degli approvvigionamenti. “Il Messaggero” trova “delittuosa”, la vendita, in un’ora come quella, di paste “infarcite di crema”. Quindi, invoca esemplari sanzioni e il sabato 26 marzo ‘44, sempre in seconda pagina, nella scarna cronaca, il quotidiano romano, non pago del predicozzo del giorno precedente, pubblica i nomi degli osti arrestati e la multa loro inflitta, che va dalle 5000 alle 2000 L. . Rende note, infine, le nuove disposizioni alimentari emanate dal Ministero dell’agricoltura e foreste per l’Italia, nonché le “felici conclusioni di importanti accordi commerciali con la Germania i quali prevedono notevoli scambi di derrate alimentari, secondo le specifiche contingenti esigenze delle due economie”. La razione giornaliera, quindi, si promette passerà a 275 g per i giovani dai nove ai 18 anni, a 375 g per i lavoratori manuali, a 475 g. per gli operai addetti ai lavori pesanti e a 575 g. per gli addetti ai lavori pesantissimi.
Circola anche un volantino firmato il ‘’Il Comitato sindacale d’agitazione” marzo 1944, che così recita: “Popolo romano…difendiamo il nostro pane. Difendiamo il frutto del nostro lavoro. Difendiamo dalla fame i nostri figli. Contro la manovra bella da far momento della nostra città dobbiamo lavorare TUTTI UNITI” (7). Il “Comitato” chiama, dunque, le donne romane a manifestare in difesa del pane e chiede che siano messi a disposizione automezzi per il rifornimento della città.
Giorgio Amendola racconta che dopo molte discussioni si era arrivati alla proposta di uno sciopero generale politico, che fu preparato con grande impegno. “Ma c’eravamo dimenticati della questione principale: chi avrebbe dovuto scioperare? Dove erano le fabbriche dalle quali sarebbe dovuto partire lo sciopero che avveniva al Nord? In quella situazione la riuscita dello sciopero era affidata la risposta dei pochi tranvieri ancora in servizio, delle donne della manifattura tabacchi a piazza Mastai, dei tipografi del poligrafico e dei giornali, eccetera. Un’azione gappista, secondo il piano, dovrà far saltare i tralicci della linea ad alta tensione che portava a Roma, da Tivoli, l’energia elettrica, e imporre così la sospensione dei servizi tranviari”. (8)
Circolano manifestini che chiamano allo sciopero, classificati dall’indignato “Il Messaggero” – articoletto firmato di F. R p.2 del 30 aprile 1944 – “terrorismo anonimo tra tanta carta che circola per accrescere il disordine nelle idee e perturbare più profondamente gli animi”. Il giornale scrive che un volantino, mentendo sapendo di mentire, attribuisce l’affollamento della città a oscure manovre, mentre ”la critica condizione di Roma si è verificata per la indiscriminata azione terroristica aerea del nemico sulle vie di comunicazione fino ai mitragliamenti degli stessi automezzi di rifornimento del Vaticano”. E mette sull’avviso i lettori: “il manifestino pretende di rappresentare una nuova libertà e intanto minaccia da traditori quelli – e sono l’enorme maggioranza laboriosa del popolo – che non obbedissero agli ordini di un pezzo anonimo di carta”.
Lo sciopero non riuscì, i tram rimasero bloccati nei depositi, le carrozze sorvegliate dalle guardie repubblicane, i tranvieri obbligati a prendere servizio. Sole, in prima fila, le donne della manifattura tabacchi e i tipografi de “Il Messaggero”.
Secondo lo studioso Paolo Monelli per la città di Roma si può parlare di ribellione, piuttosto che di una vera resistenza dei romani; una ribellione muta, paziente, incrollabile, sotto la quale c’era tutto un brulicare assiduo di renitenti alla leva e alla chiamata alle armi , ufficiali e soldati che non avevano voluto partire, funzionari e impiegati dello Stato e di enti pubblici cospiratori, gruppi politici, partiti e giornalisti che stampavano foglietti clandestini, sabotatori, distributori di armi clandestine, ebrei sfuggiti alle retate, squadre, compagnie, battaglioni che si preparavano per il giorno della rivolta e della fuga dei tedeschi. E inoltre osti che sfamavano gente braccata, monache di clausura che riparavano ebrei, medici e chirurghi che accoglievano malati immaginari, sacerdoti che usavano il confessionale per trasmettere messaggi . Né questo esercito sotterraneo poté essere sgominato dalla repressione e dalla ferocia dei poliziotti. (9)
Soprattutto si falsificavano documenti e carte annonarie; se ne fabbricavano nei comuni della provincia, all’anagrafe di Roma, nei ministeri e persino nella prefettura. Circolavano 50.000 carte falsificate per il pane, ingenti quantitativi di farina venduti di contrabbando dagli organi addetti alla distribuzione. In definitiva una vasta adesione, soprattutto di giovani. Amendola scrive che fu la resistenza dei giovanissimi. (10)
Le donne, da sole o con l’aiuto e impulso dei gruppi femminili della Resistenza – Laura Lombardo Radice curava con Adele Bei, Emma turchi, Giovanna Marturano l’organizzazione dei Gruppi di Difesa della Donna (11) – costituirono l’ossatura di questa resistenza civile. La loro operazione più vistosa è legata all’assalto ai forni, assalti che non vanno assolutamente confusi né possono essere apparentatati, nemmeno alla lontana, con episodi di microcriminalità. Nel quartiere Appio il 1 aprile ‘44 le donne manifestarono contro la riduzione della razione del pane e attesero per più di due ore l’arrivo dell’ordine di distribuzione, con il dubbio e la preoccupazione che non ci fossero neppure quei cento grammi annunciati. Quando le donne cominciarono a rumoreggiare, un milite ne prese una per un braccio e la portò fuori della fila; le altre credettero che la volesse arrestare e diedero il via a un parapiglia che culminò con l’abbattimento della porta del forno, dove all’interno si trovò pane nero e farina bianca, destinata alla truppa tedesca. Assalti furono tentati in via di San Francesco a Ripa; in via Leone IV, il proprietario del forno finì con il distribuire patate e farina di latte e poi si diede alla macchia. Forni assaltati al quartiere Trionfale in via Vespasiano, via Ottaviano, via Candia. A guidare la protesta furono le sorelle De Angelis e Maddalena Accorinti. In via Nomentana vennero asportati ottocento kilogrammi di pane, pasta e farina. Il 3 maggio ‘44 fu assaltato un forno in via del Badile, al quartiere Tiburtino, e un milite della Polizia Africa Italiana (PAI ) uccise Caterina Martinelli, madre di cinque figli.
Un rapporto del vice capo di polizia Cerruti, indirizzato al Ministro degli interni della RSI, Guido Buffarini Guidi, datato 15 maggio ‘44, esprime preoccupazione per la situazione dell’ordine pubblico, menzionando fra l’altro recenti “episodi sporadici di assalti ai forni”. Dopo l’uccisione della Martinelli agli assalti parteciparono gruppi meno numerosi, che attaccavano soprattutto piccole consegne. (12)
Il 7 aprile ‘44, dunque, le donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella danno “ l’assalto” ai Mulini Biondi, al Ponte di Ferro all’Ostiense. Dieci di loro vengono uccise da tedeschi e fascisti . I loro nomi: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Aizzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo. Dell’avvenuta uccisione o fucilazione non esiste alcuna documentazione ufficiale. Così Aldo Pavia – vicepresidente dell’ Aned – nella sua cronologia della Resistenza romana (13) parla di donne che non erano riuscite a scappare o non sapevano dove andare.
La prima pubblicazione a menzionare l’episodio fu un saggio del 1994 di Cesare De Simone, il quale successivamente aggiunse maggiori dettagli in un romanzo pubblicato nel 1998. ( 14)
De Simone (15) scrive di aver trovato un mattinale di polizia , nel quale si recitava: “Ieri, a motivo di un assalto al forno Tesei in via B. Baldini, zona Portuense, da parte di una folla giunta anche dai quartieri adiacenti, è intervenuto un reparto della polizia germanica riportando l’ordine. Dieci donne, sobillatrici dei disordini, sono state fucilate sul ponte dell’Industria.” (16). Non produce, tuttavia, alcun riferimento archivistico, “sebbene – scrive Gabriele Ranzato – l’autore conoscesse “bene la necessità di quei riferimenti, per averli usati in altri suoi scritti – al fine di garantirne l’autenticità”. (17). Sul perché di questo ‘insolito’ comportamento di De Simone, Ranzato non indaga, né formula ipotesi. Difficile farlo oggi. Ulteriori ricerche archivistiche, all’archivio Centrale dello stato, all’archivio di Roma di Galla Placidia, all’archivio Capitolino di Piazza della Chiesa Nuova, hanno dato esito altrettanto negativo.
Secondo De Simone, il giovanissimo parroco di San Benedetto all’Ostiense, avrebbe benedetto il cadavere di una delle donne ritrovato nudo sotto il ponte. La testimonianza del parroco, in forma più estesa e con parole diverse, è anche nel suo Donne senza nome, dove il parroco afferma esplicitamente che la donna trovata morta sotto il ponte era stata violentata. In parziale contraddizione con la testimonianza del parroco, De Simone scrive che i tedeschi, a monito della popolazione, avrebbero lasciato “i cadaveri sulla spalletta del ponte fino alla mattina dopo quando alcuni lattonieri e sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme su di un camion. Da allora non si è mai saputo dove siano state portate e sepolte”. (18) Il parroco di San Benedetto alla Circonvallazione Ostiense, don Gregorini, è morto. Nel relativo archivio della parrocchia, non vi è testimonianza documentale sulle morti delle donne, così come riporta De Simone
Carla Capponi, medaglia d’oro della Resistenza, ha sempre affermato (19) di aver appreso dell’eccidio, nel novembre del ’44, da due compagne del quartiere romano di Monteverde, che avevano partecipato all’assalto al forno. La Capponi non era operativa nella zona Ovest della città, ma nella parte opposta. La regola era che ci si potesse riunire solo in piccoli gruppi , mentre la conoscenza degli altri resistenti era rimandata al dopo la Liberazione della città. Nelle sue memorie Carla Capponi scrive: “Le donne dei quartieri Ostiense, Portuense e Garbatella avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e aveva grossi depositi di farina. Decisero di assaltare il deposito che apparentemente non sembrava presidiato dalle truppe tedesche. Il direttore del forno, forse d’accordo con quelle disperate o per evitare danni ai macchinari, lasciò che entrassero e si impossessassero di piccoli quantitativi di pane e farina. Qualcuno invece chiamò la polizia tedesca, e molti soldati della Wehrmacht giunsero quando le donne erano ancora sul posto con il loro bottino di pane e farina. Alla vista dei soldati nazisti cercarono di fuggire, ma quelli bloccarono il ponte mentre altri si disposero sulla strada: strette tra i due blocchi, le donne si videro senza scampo e qualcuna fuggì lungo il fiume scendendo sull’argine…. Ne catturarono dieci, le disposero contro la ringhiera del ponte, il viso rivolto al fiume sotto di loro […] Alcuni tedeschi si posero dietro le donne, poi le abbatterono con mossa repentina “come si ammazzano le bestie al macello”: così mi avrebbe detto una compagna della Garbatella tanti anni dopo, quando volli che una lapide le ricordasse sul luogo del loro martirio. Le dieci donne furono lasciate a terra tra le pagnotte abbandonate e la farina intrisa di sangue. Il ponte fu presidiato per tutto il giorno, impedendo che i cadaveri venissero rimossi; durante la notte furono trasportati all’obitorio dove avvenne la triste cerimonia del riconoscimento da parte dei parenti”. (20)
De Simone, che deve aver avuto in Carla Capponi la sua prima fonte orale, ha corretto la notizia dell’avvenuto eccidio, ipotizzando il trasporto delle salme altrove. Certamente non all’obitorio, come scrive la Capponi, poiché all’archivio dell’Istituto di medicina legale di Roma non vi è traccia di arrivo di salme femminili e in quel numero.
Del resto dopo il Ponte, nel suo lato destro, si stendeva allora una campagna pressoché inabitata ed era facile occultare in qualche modo le salme o abbandonarle sul greto del Tevere. D’altronde i resti del Partigiano Artom sono stati restituiti dal Po solo di recente.
Nel corso della presentazione del libro di Giorgio Guidoni (21), avvenuta il 15 aprile 2024 presso le Industrie fluviali – cui era presente anche Michela Ponzani- , è stato anche affermato che Carla Capponi sarebbe stata suggestionata dal De Simone, il quale tuttavia scrive nel 1994, mentre Capponi ne parlava molto prima. Capponi scrive: “Quando entrai alla Camera, nel ’48, organizzai un comizio unitario delle donne elette, ne facevano parte anche le democristiane, e prendemmo l’iniziativa di mettere una lapide sul ponte di ferro. La scritta non la ricordo, diceva comunque che lì i tedeschi avevano fucilato dieci romane, dieci madri di famiglia che chiedevano pane. Ma i nomi non c’erano, non li avevamo neppure allora. Era una lapide modesta, di pietra da pochi soldi; due o tre anni dopo qualcuno di notte la fracassò, fascisti credo, e da allora delle dieci donne s’è persa ogni memoria.” (22) Essendo stata la Capponi eletta alla Camera dei Deputati nel 1953 nelle file del Pci, si deve intendere questo passaggio – il verbo entrare – non come data della sua elezione, ma come una delle visite organizzate dal Partito per i suoi membri e gruppi dirigenti alla Camera dei Deputati e al Senato per incontri di lavoro con le elette e gli eletti.
Dell’assalto ai forni ne parla anche la partigiana Marisa Musu, la quale scrive : “Dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, gli assalti ai forni si susseguono sempre più numerosi: il 9 aprile, al Flaminio; tra il 20 e il 28 aprile, in Prati e al Trionfale; il 24 al Tiburtino III; il 28 e il 29 aprile, a Monte Sacro, Val Melaina e in Via Alessandria; il 3 maggio, ancora al Tiburtino III e l’azione si conclude cruentemente con l’uccisione di Caterina Martinelli, madre di sei figli, per uno sfilatino nella borsa della spesa. Si risolve violentemente anche l’assalto al forno Tesei, il 7 aprile 1944, con l’eccidio di dieci donne presso il Ponte dell’Industria”. (23). Dell’eccidio me ne ha anche parlato Marisa Rodano, in una delle nostre frequenti conversazioni. Ne parla pure la partigiana Iole Mancini, tuttora vivente, nonché il partigiano Mario Di Maio anch’egli ancora vivente.
Tra le carte di Ada Amendola, figlia di Giorgio, funzionaria del Pci, sono, inoltre, state trovate interviste (fatte verso la fine degli anni ‘60 e di prossima pubblicazione) a donne comuniste romane come Ginevra Piergallini , Adele Bei e altre, che ricordano tutte gli assalti ai forni e la strage.
Non si possono definire chiacchiere occasionali, come fanno Ranzato e Guidoni, gli incontri tra combattenti di una stessa battaglia per la libertà, che finalmente possono raccontarsi quanto hanno saputo e visto.
Non a caso l’evento del Ponte di ferro è raccontato soprattutto da donne. Mentre Rosario Bentivegna, comandante dei Gap, non ne ha mai parlato, più interessato alle non amate, ma obbligatorie, azioni di guerra, che a quelle civili’ cui dava un rilievo relativo o nullo, sia per inveterato maschilismo e anche perché egli aveva subìto in prima persona le pressioni a che si arrivasse a un atto di guerra.
In Donne senza nome De Simone inserisce passi di un interrogatorio, anche in relazione all’eccidio del Ponte di ferro, all’ex capitano nazista delle SS, Erich Priebke, imputato fra il 1996 e il 1998 dalla procura militare di Roma per la partecipazione alla strage delle Fosse Ardeatine :
“Priebke: – Non ho mai saputo nulla di quanto ha detto l’avvocato, sulla fucilazione di donne. Non rientrava nelle mie competenze. Non ne ho mai neppure sentito parlare. In ogni caso non mi risulta che vennero mai fucilate delle donne, a Roma, nel periodo dell’occupazione germanica. Non c’erano donne alle Fosse Ardeatine. Avvocato: -Nemmeno il suo superiore diretto, Kappler, gliene ha mai parlato? Priebke: – No, lo escludo”.
Sarebbe stato assai difficile per un tedesco ammettere l’eccidio di 10 donne inermi, ed è del tutto probabile che gli esecutori del fattaccio abbiano persino tentato di insabbiare l’accaduto per salvare il proprio onore. Tuttavia è assai singolare che l’ambasciata tedesca abbia fatto recapitare per alcuni anni un suo omaggio floreale sul cippo dedicato alle donne al Ponte di ferro .
Inoltre Michela Ponzani, nella già citata presentazione del 15 febbraio 2024, ha esibito un documento del comando tedesco di Roma inviato al comando superiore militare germanico in cui si parla di gravi incidenti. ‘Incidenti’ che i tedeschi non possono chiamare resistenza civile, sebbene di questo evidentemente si tratti.
La ricerca è ancora aperta, come dice anche il presidente Mattarella, il quale in occasione del 25 aprile 2024 , anniversario della Liberazione, ha tenuto un discorso a Civitella Val di Chiana dove il 29 giugno ‘44 i nazisti uccisero 244 civili: “la magistratura militare e gli storici, dopo un difficile lavoro di ricerca, durato decenni, – dice Mattarella – hanno, finora, documentato sul nostro territorio italiano 5000 crudeli e infami episodi di eccidi, rappresaglie, esecuzioni sommarie. Con queste barbare uccisioni, nella loro strategia di morte, i nazifascisti cercavano di fare terra bruciata attorno ai partigiani per proteggere la ritirata tedesca….. Ma le stragi di civili cercavano di tenerle nascoste e occultate, le vittime sepolte o bruciate. Non si sa se per un senso intimo di vergogna e disonore, o per evitare di incorrere nei rigori di una futura giustizia, oppure, ancora, per non destare ulteriori sentimenti di rivolta tra gli italiani….”
Sull’eccidio del Ponte di ferro, oltre a quelle già citate, sono da registrare almeno tre testimonianze. Una è di Fulvio Carnevali, detto “er Garbatella”, lavoratore di Cinecittà, 93 anni , attualmente abitante al Trullo. Fulvio racconta che sua madre , allora di casa a Garbatella, per sbarcare il lunario, ‘faceva le carte’, a donne e uomini che intendevano essere rassicurati sul proprio destino. Da una di queste chiacchiere la madre apprende che al Ponte di ferro molte donne stanno riuscendo a prendere la farina e il pane. Chiamato il figlio, che era in cortile, la donna lo spedisce al Ponte. Ma Fulvio arriva tardi, ché le donne sono già state passate per le armi. Il dodicenne vede però i cadaveri scomposti e ammucchiati e rimane colpito alla vista delle gambe nude delle donne sul greto del fiume. Intervistato dal giornalista Franceschelli di “Chi l’ha visto” (video visibile su “You Tube”), Carnevali ha ribadito la sua versione nel 2017, poi nel 2019 e ancora nel 2022 all’archivio Flamigni e l’11 marzo del 2023 in un’intervista a me rilasciata , in presenza di testimoni. Giorgio Guidoni riporta questa testimonianza come “unico racconto comunque approssimativo”(24) e soprattutto Carnevali viene dichiarato inattendibile perché all’epoca era un dodicenne e poi perché anziano, sebbene negli anni abbia mantenuto invariato il proprio racconto.
Altra testimone è Gina Diamanti, ancora vivente e residente nel quartiere Appio. Racconta Gina che un’amica di sua madre, di professione lavandaia a domicilio, trovandosi dalle parti del Ponte di ferro, avendo saputo dell’ azione ai forni, era andata ai Mulini Biondi. Gina e sua madre la incontrano quindi nelle scale del palazzo in cui abitavano, ansimante e con ‘lo zinale’ pieno di farina. La donna, ancora spaventata, ha raccontato loro che al Ponte di ferro delle donne erano state uccise.
Analoghe testimonianze verrebbero dai nipoti di Esperia Pellegrini, figli di una sua sorella , emigrata in America latina: Maurizio Graziosi, ex dipendente della Rai, e suo fratello Rolando. I due fratelli sono stati intervistati e hanno ricordato il fatto, ma nessuno ha dato loro retta ed oggi, anziani, sono piuttosto infastiditi, irritati e rassegnati al silenzio.
Un passante sul Ponte di ferro il 7 aprile, di nome Moretti, la cui testimonianza è stata raccolta, in un breve video, dall’Associazione Fatagarbatella, afferma di aver saputo dai nonni dell’eccidio delle donne.
Queste testimonianze, di vario genere, si uniscono ad una memoria collettiva che spinge ogni anno donne e uomini al Ponte di ferro per un omaggio alle donne cadute.
Sia Ranzato che Guidoni, scrivono, inoltre, che dell’episodio non vi è traccia né sulla stampa quotidiana , né nei fogli della Resistenza. Ma, come si è brevemente cercato di dimostrare più sopra, difficile parlare nel 1944 di stampa libera, poiché la stampa attraversava un momento assai difficile, anche per la mancanza di carta.
Le circostanze in cui la stampa clandestina usciva, e l’urgenza della mobilitazione, possono spiegare anche delle lacune nella informazione. Inoltre la data di nascita di fogli a stampa della Resistenza romana , il cui elenco è riportato dall’Irsifar, è relativa in massima parte ai mesi successivi all’aprile del ’44 e comunque molto più intenti alle vicende militari che a quelle civili. Più che alla stampa libera e/o partigiana forse bisognerebbe dare un’occhiata all’ “armadio della vergogna” .
In uno scantinato di palazzo Cesi a Roma, nel 1994,fu scoperto un armadio, con le ante rivolte verso il muro , contenente 695 fascicoli, archiviati, nel 1960, provvisoriamente dal procuratore militare generale Enrico Santacroce, riguardanti le stragi nazifasciste contro la popolazione italiana e i prigionieri di guerra italiani tra l’8 settembre e la primavera 1945, quando furono uccisi oltre 24.000 civili e circa 70.000 militari, o morti nei campi di concentramento in Germania o fatti prigionieri sui vari fronti e giustiziati in violazione alle norme internazionali. La decisione di Santacroce non fu una iniziativa personale. Infatti negli anni ’60 il ministro degli esteri, Gaetano Martino, e quello della difesa, Paolo Emilio Taviani, si opposero all’istruzione di rogatorie contro i criminali nazisti perché si voleva ricostruire un clima di fiducia con un paese sconfitto e provato. Dei 129 fascicoli assegnati alla procura militare di Roma non è scaturito alcun processo.
Nel suo testo Giorgio Guidoni ricostruisce la biografia delle dieci donne elencate da Cesare De Simone. Lo studioso produce documenti di archivio e testimonianze di parenti diretti, concludendo che nessuna delle donne in questione trovò la morte il 7 aprile 1944 sul Ponte dell’Industria. A febbraio 2022, una di esse risulta ancora in vita, mentre un’altra era stata scambiata con un uomo e un’altra ancora era una bambina di 4 anni uccisa nella strage laziale di Pratarelle/Vicovaro il 7 giugno 1944. Si chiede, Guidoni: “perché de Simone riporta con precisione i nomi e cognomi delle donne? Anche a questa domanda è difficile dare una risposta…”. De Simone aveva affermato che i nomi si trovavano in un verbale di polizia: quale non sappiamo.
Denominatore comune, di provenienza delle informazioni raccolte da Guidoni, sono i registri dei partigiani, il fondo Ricompart. Guidoni ritiene che anche De Simone sia partito da lì “L’autore voleva forse dare risalto a donne che non erano state citate nella letteratura ufficiale ovvero a donne che avevano svolto un ruolo secondario e poco riconosciuto, ma di grande importanza e a prezzo della vita” (25) . Secondo Guidoni in questo modo, almeno la storia delle 10 donne della lista, è svelata e la vita di ognuna di esse è ricostruita e documentata. Ma le donne del Ponte di ferro non erano partigiane combattenti, e i loro nomi non possono essere ricavati dal Ricompart.
Delle 10 biografie, ricostruite da Guidoni, solo tre di esse sono di origine romana, confermando così la presenza delle molte sfollate che da territori più vicini alle linee tedesche, riparavano in città, talvolta anche senza documenti , presso parenti o amici. E sicuramente senza documenti saranno state quelle donne che hanno assaltato i forni.
Dalle schede biografiche di Guidoni risulta che sette sono nomi di partigiane combattenti. A costo di introdurre curiose variazioni sui nomi. (26) Guidoni tuttavia ritiene che, nonostante le domande senza risposta, non si possa : “escludere che il fatto sia realmente avvenuto. Non possiamo quindi negare che l’evento abbia avuto luogo, possiamo solo affermare con certezza che non è presente una prova documentale che confermi l’accadimento”. (27) Alla stessa conclusione arriva anche Ranzato, mentre Michela Ponzani dice esplicitamente che la ricerca non è conclusa e nessuno può affermare con certezza che il fatto non sia mai accaduto. Tuttavia l’Istituto Parri ha cancellato l’avvenimento come reale e lo ha depennato dall’atlante delle stragi di guerra.
In ogni caso, siano o non siano questi i nomi, per come è messa la vicenda, si teme che il cippo, con la ristrutturazione del Ponte di Ferro, possa essere rimosso. E questo sarebbe un’offesa alla memoria collettiva del quartiere e della città, alla memoria della resistenza civile romana, senza la quale la resistenza armata non avrebbe potuto radicarsi.
È opportuno quindi che il cippo rimanga e sia consacrato alle donne cadute nella Resistenza civile alla furia nazifascista.
(1) costruito sotto il pontificato di Pio IX tra il 1862 e il 1863 da una società belga, su progetto dell’ingegnere Barthélémy, come ponte ferroviario per la linea che da Civitavecchia portava alla Stazione Termini.
(2) Marc Bloch, Apologia della storia, Torino, Einaudi 2009 pp. 47 e sgg; 52 e sgg; 92 e sgg.
(3) Giorgio Amendola, Lettere da Milano, ed. l’Unità, 1980 pp. 584 e sgg.
(4) Amendola cit. pp. 129 e 183
(5) Amendola cit., p.165
(6) Amendola cit., pp. 290-296
(7) foto di un volantino fra le carte di Roberto Forti, partigiano e dirigente comunista, conservate all’Istituto Gramsci di Roma
(8) Amendola cit. p. 326
(9) Paolo Monelli , in AAVV, Il contributo di Roma e della provincia nella lotta di liberazione, Roma 1965
(10 ) Amendola cit. pp. 178- 179
(11) per i GdD vedi Laura Orlandini in AAVV. L’Italia delle donne, Donzelli ed.,2018, pp. 344 e sgg.
(12) cfr. Enzo Piscitelli, “Quaderni della Resistenza laziale”, n°4
(13). Aldo Pavia, Torino, Einaudi 2000, p. 414
(14) Cesare De Simone, Roma città prigioniera. I 271 giorni dell’occupazione nazista (8 settembre ’43 – 4 giugno ’44), Mursia, Milano, 1994, Donne senza nome, Milano, Mursia, 1998,
(15) Cesare De Simone (1932-1999), giornalista del “Corriere della Sera”, ha pubblicato volumi su le vicende belliche del 1915-18 e degli anni 1943-1944. In collaborazione con R. Bentivegna ha inoltre scritto un libro sulla lotta armata romana.
(16) Cesare De Simone, Roma prigioniera, cit., p.10
(17) Gabriele Ranzato, La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (8 settembre 1943 – 4 giugno 1944), Bari-Roma, Laterza 2019
(18) il Parroco della Parrocchia della Circonvallazione ostiense 57 ha ricoverato numerosi ebrei, senza mai dire nulla. Solo alla sua morte gli ebrei, sopravvissuti alle retate fasciste, hanno chiesto e ottenuto che si mettesse al civico della parrocchia una pietra di inciampo.
(19) Lo ha raccontato a me personalmente nel 1988 quando ho lavorato alla istituzione dell’ “Archivio delle donne Camilla Ravera”, ora presso l’Istituto Gramsci di Roma.
(20) Carla Capponi, Con cuore di donna. Il Ventennio, la Resistenza a Roma, via Rasella: i ricordi di una protagonista, Il Saggiatore, Milano 2000, p.246
(21) Giorgio Guidoni, La verità sull’eccidio del Ponte di ferro, Cara Garbatella, Roma 2023,
(22) Testimonianza di Carla Capponi in De Simone, op.cit., 1998 pp. 14-15
(23) Marisa Musu, Ennio Polito, Roma ribelle, Teti editore, Milano, 1999, pp. 192-193
(24) Guidoni, op. cit., p.137
(25) Id., p.138
(26) Clorinda Falsetti , secondo Guidoni, è in realtà una partigiana Falzetti (Monterotondo 1929 – risultante in vita nel 2022) poiché Falsetti non risulta nel Ricompart sebbene il cognome Falsetti risulti tra i caduti a Civitella val di Chiana. Una manipolazione di De Simone? Italia Ferraci partigiana ( 1922-1970). Per lei si dice essersi ritrovato soltanto un Italio Ferracci, partigiano.
Eulalia Fiorentino ( Cerignola 1924-2008 ) è per Guidoni partigiana combattente di nome Balda e partecipa insieme al professor Vassalli ad azioni partigiane. Come si arriva da Eulalia a Balda? E’ scritto da qualche parte che Eulalia si faceva chiamare Balda? C’è poi un’altra Eulalia che però è Trentini nata Argelato (Bologna) partigiana. Eulalia Fiorentino dove è? Assunta Maria Izzi (di Collelungo) poiché nel Ricompart non si trova, si assume una probabile Maria Grazia Izzi.
Silvia Loggreolo (Roma 20 febbraio 1913 -13 giugno 1946) per un errore di trascrizione da un manoscritto diventa Silvia Loffredo, partigiana della formazione Manfredi Bianchi, laureata in chimica. Ma la “f” e la “g” si distinguono fra loro perché la “f” ha due ‘sporgenze, una sopra e una sotto, mentre la “g” ne ha soltanto una sotto. Allora perché Loffredo?
(27) Guidoni, op.cit. p.136