Il seme della memoria. Una nota personale sulla festa dei morti – Parte 1
Il primo di Novembre, Festa di Ognissanti e vigilia della Commemorazione dei Defunti ossia la Festa dei Morti, per noi bambini, era giorno di impaziente attesa. Agognavamo che il tempo si affrettasse verso l’ombra e cercavamo nel cielo i segni del declino. Poiché era la morte del giorno che inaugurava il tempo della festa.
Mio padre Antonino, appena rientrato dal lavoro, ci chiamava: –forza andiamo alla Fiera! Non era la certezza dei doni che egli avrebbe acquistato a nostro diletto che ci aveva fatto fremere. Quelli, lo sapevamo bene, sarebbero comunque arrivati, i morti ci avrebbero donato, così ogni anno doveva accadere, i balocchi e i pupi di zucchero. Era piuttosto la brama di riempirci di colori, di suoni, di odori e di sapori straordinari, di introdurci con nostro padre in una dimensione altra, una dimensione che, con il mio vocabolario di oggi, potrei definire, mitica: Lui, guida ai misteri, ci avrebbe illustrato gli oggetti variamente esposti, i giocattoli fatti all’antica, di legno e di latta, e poi i dolci, le pupe, frutti di martorana e frutti “veri” e insoliti: il melograno, a murtidda, le sorbe e le azzalore, ci avrebbe narrato per ciascuno di essi una storia.
Abitavamo allora a pochi passi dall’Olivella. Lì dove una città diversa, meno europea, assai poco cool e meno proiettata verso il futuro, poteva ancora contenere, almeno una volta l’anno, il caotico brulichio di uomini e cose che era la Fiera dei Morti. Non me ne vogliano i miei concittadini, avrei preferito rinunziare a un Teatro Massimo più lustro, a un parcheggio più razionale, financo a un rinnovato Museo archeologico pur di provare il piacere di accompagnare i miei figli per l’intreccio di bancarelle della Fiera antica, ripetere i gesti e le parole vissuti da figlio. Farmi, una volta almeno, Arianna per guidare, a passo di danza, loro, carne della mia carne nel labirinto della memoria, ammaestrarli per simboli a uccidere il Minotauro e dalle sue oscure viscere a divinare il senso dell’esistere.
Ho visto spegnersi la Fiera dell’Olivella e insieme a questa tante altre tradizioni, altre ne ho visto perdurare o rinascere, ho assistito anche alla loro invenzione. Da studioso devo limitarmi a osservare, a descrivere, a cercare le ragioni che sostengono questi processi, le funzioni e i sensi che questi detengono, a ricostruirne, laddove possibile, la storia. Da uomo qualunque posso rimpiangere il passato e coltivarne la memoria e, quando se ne presenta l’occasione, avvertire che il senso della vita si fonda anche sulla capacità di riflettere sull’eredità dei padri. Nel suo La morte come tema culturale, Jan Assmann osserva lucidamente:
«La cultura scaturisce dalla consapevolezza della morte e dell’essere mortali, e costituisce il tentativo di creare uno spazio e un tempo al quale l’uomo possa pensare al di là del suo limitato orizzonte di vita, prolungando le linee del suo operare, esperire e progettare verso quei più estesi orizzonti e quelle più ampie dimensioni d’appagamento in cui soltanto trova soddisfazione il bisogno di dare significato alla vita e si placa la dolorosa, anzi intollerabile consapevolezza della propria pochezza e limitatezza esistenziale» (2002: 5-6).
Dimenticare i morti, il loro insegnamento, i riti antichi che ne rammemoravano l’esistenza e il ruolo presentificandoli per simboli, ciclicamentee, ai vivi, significa obliterare la propria storia culturale. Lasciare morire la propria cultura significa consegnarsi al nulla, essere nulla.
Palermo intrattiene un singolare, viscerale, rapporto con la morte e con i morti. La teme, la venera, la esalta, a tratti pare agognarla. Si compiace di possedere un magnifico Trionfo della Morte, accorre a contemplare le mummie delle Catacombe dei Cappuccini, popola lo spazio domestico di esseri ambigui, i patruneddi ri casa, tributa un culto poco ortodosso alle Anime del Purgatorio e assolutamente eterodosso alle Anime dei corpi decollati, quasi che coloro che in vita seppero macchiarsi delle più atroci nefandezze possano, da defunti, farsi latori d’ogni bene. E ancora venera Rosalia, la Santa dal teschio, quella sua antica Tanit che ha trovato il suo riscatto nella peste fino a divenire, oggi, epifania di Kali Durga, per i Tamil che ivi si recano in pellegrinaggio settembrino.
Sopra ogni cosa persevera nel celebrare la Festa dei morti, a credere che i cari estinti, gli antenati, ritornino ciclicamente a incontrare la loro famiglia. E’ solo una vuota tradizione? Una curiosa eredità di un arcaico passato, un “frammento indigesto” di una cultura scomparsa?
Non possiamo e non vogliamo vivere del passato, dobbiamo, tuttavia, pena l’”estinzione”, ricordare e comprendere il senso del suo farsi. Per l’agricoltore arcaico la vita si generava dalla morte. Alle potenze ctonie, ai defunti e alla loro nutrice, la Terra, in autunno erano consegnate le sementi. Grazie a loro esse mettevano radici e germogliavano, si facevano robuste sullo stelo fino a produrre i chicchi. Questa relazione tra morti e vivi, tra sottosuolo e spazio del lavoro contadino, la assoluta dipendenza del raccolto dalle potenze della terra era ben chiara all’agricoltore arcaico. Egli sapeva bene, come ricorda Mircea Eliade che «i vivi hanno bisogno dei morti per difendere i seminati e proteggere i raccolti» (Eliade 1976: 365). È questo il senso più profondo dei modi di dire raccolti da Pitrè: Si nun vennu li morti, nun caminanu li vivi ovvero Vennu li morti pri caminari li vivi: senza i morti cioè, senza il loro potere di far generare, non potrebbe esserci vita umana, animale e vegetale. L’antico agricoltore credeva, infatti, che oltre al suo necessario lavoro il destino delle messi fosse affidato all’azione delle potenze del sottosuolo. Non a caso i Greci celebravano le Tesmoforie in onore di Demetra, l’antica dea tellurica madre dei morti, proprio, scrive Plutarco: “nel mese della semina, quando tramontano le Pleiadi”.
La semina è indissolubilmente correlata al culto delle divinità ctonie e dei morti. L’antico agricoltore credeva, infatti, che oltre al suo necessario lavoro il destino delle messi fosse affidato all’azione divina: «la semina era un’azione umana, dopo di che l’uomo non aveva più niente da fare; la trasformazione del seme in pianta, che avveniva sotto terra e senza alcun possibile intervento dell’uomo, era considerata opera della divinità e questo richiedeva in cambio la prestazione di un culto alla divinità stessa» (Sabbatucci 1988: 34). Non a caso i Greci celebravano le Tesmoforie (cfr. infra) in onore di Demetra, l’antica dea tellurica, proprio «nel mese della semina, quando tramontano le Pleiadi» (Plutarco cit. in Frazer 1990: 445). Non a caso i Romani celebravano le Feriae sementivae, festa mobile indetta dal Pontefice verso la fine di gennaio in onore di Cerere e Tellus che «ritualizava la trasformazione del seme in pianta, il germoglio del grano» (Sabbatucci 1988: 33).
Le cerimonie del primo e del 2 novembre, rispettivamente Ognissanti che rendeva onore a tutti i martiri e i santi della Chiesa e la Commemorazione dei defunti cristiani ancora in Purgatorio, al pari di altre importanti del tardo calendario cristiano, furono istituite tardivamente. La festa di Ognissanti, introdotta in Occidente da Papa Bonifacio IV alla fine del VI secolo e fissata al 13 maggio in contrasto ai Lemuria latini, si cominciò a celebrare il 1 novembre nel regno dei Franchi nel IX secolo su iniziativa di papa Gregorio IV diffondendosi lentamente nell’Europa cristiana. Fu invece nella prima metà dell’XI che papa Giovanni XIX, sulla scorta dell’abate di Cluny, Odilone, si risolse a istituire la Commemorazione dei defunti il 2 novembre come cerimonia distinta ma correlata a quella di Tutti i Santi (Turner 1972: 195 ss.; de Sike, a cura, 1994: 196; Le Goff 1996: 141 s.; Tabacco 1997: 57). L’istituzione fu rapidamente accolta da altri enti religiosi e comunità ecclesiastiche certo anche come strumento utile a combattere il persistere di ritualità pre-cristiane caratterizzate dal culto dei defunti.
È noto che in area celtica ai primi di novembre si celebrava Samhain, una delle più importanti feste stagionali. All’ingresso del freddo bisognava raccogliere il bestiame distribuito sugli ampi pascoli e ricondurlo nelle stalle. Era una di quelle date critiche in cui il sacro e la comunicazione tra umano e non-umano avevano elettivamente luogo. La notte della vigilia era un “periodo sospeso” al cui interno gli esseri soprannaturali si muovevano liberamente e gli spiriti dell’oltretomba potevano temporaneamente fare ritorno alle loro antiche dimore. Gli Irlandesi si riunivano con i propri antenati a festeggiare con giuochi e banchetti a base di maiale. E Samhain significa proprio “unione”, riunione cioè tra i viventi e dei viventi con i loro defunti (cfr. Frazer 1973: 975 ss.; MacCulloch 1998: 402 ss; Green 1999: 239 ss.). La festa non era collegata solo all’allevamento del bestiame. De Vries rileva, infatti, com uno degli scopi perseguiti nel corso della cerimonia fosse proprio quello di cercare di incrementare la fertilità vegetale ingraziandosi le potenze ctonie, in primo luogo gli antenati, «poiché queste potenze erano in grado di concedere o meno ricchi raccolti» (De Vries 1982: 285).
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Approfondimenti e Bibliografia in:
Ignazio E. Buttitta, I morti e il grano. Tempi del Lavoro e ritmi della festa, Meltemi, Roma 2006