La Sicilia e Garibaldi
Lo scenario, i retroscena, i nuovi gruppi emergenti
Celebrare un anniversario in un momento cruciale della nostra storia nazionale come quello che attraversiamo a causa della diffusione del contagio di Coronavirus è molto problematico.
Al di là della convinta adesione della generalità dei cittadini ad un ideale di unità nazionale manifestatosi con il canto collettivo dell’inno nazionale e o con l’esposizione della bandiera tricolore, tutte le contraddizioni che stanno alla base del processo di unificazione (percorso obbligato ed ineludibile) appaiono in questi giorni nei quali i presidenti delle regioni sono chiamati a gestire una crisi epocale.
Per quanto riguarda la Sicilia, uno dei temi di polemica ricorrente è che la travolgente campagna di Garibaldi, che ha portato il Regno delle due Sicilie nell’alveo dell’Unità d’Italia, sia stata agevolata da tradimenti dei generali borbonici e da altre analoghe teorie complottistiche. Il neoborbonismo ha ulteriormente alimentato queste interpretazioni, senza riflettere sul fatto che, molto probabilmente, le radici stesse del successo di Garibaldi affondano proprio nel riformismo borbonico.
I percorsi che daranno inizio ad un complesso processo di maturazione che trasformerà definitivamente il rapporto tra la Corona e i siciliani sono numerosi ed articolati: l’arrivo del Caracciolo; il consolidamento di un gruppo di intellettuali profondamente intrisi della cultura illuministica francese; la ramificazione, capillare e in tutta la Sicilia, delle logge massoniche ; la presenza Inglese nell’Isola con una personalità forte e determinata come lord Bentinck che voleva introdurre il modello costituzionale inglese da contrapporre a quello napoleonico.
Ma quali grimaldelli faranno saltare l’intero sistema sociale e strutturale del Regno di Sicilia e metteranno in crisi il sistema?
Il dibattito che si svolse nella seduta della Camera dei Comuni in Inghilterra il 21 giugno 1821, per discutere su una mozione relativa agli affari di Sicilia, ci dà una importante chiave di lettura che focalizza l’attenzione sui processi di trasformazione politica, costituzionale e strutturale della società siciliana innescati dai Borbone. E che costituiranno il lievito di crescita della nuova realtà. La Costituzione del 1812, tre elezioni politiche generali e tre amministrative si susseguirono tra il 1812 e il 1814 e contribuirono a formare una rampante classe dirigente.
Questo ceto ragionava di bills e budget, parlava di agricoltura e industria, legiferava su un nuovo diritto amministrativo, sognava diritti e doveri universali. Inoltre, il decennio inglese vedeva affacciarsi un nuovo gruppo di mercanti e finanzieri che, recisi i legami con la Francia e Marsiglia, indirizzavano l’economia dell’isola verso nuovi prodotti come il vino, lo zolfo e gli agrumi. Il Medici si affidò a questa «nuova classe dirigente, sprigionatasi negli anni inglesi e forgiatasi in un’infuocata fucina sociale» per sconfiggere baroni e clero.
Il Parlamento siciliano, nel 1812, votò un’affermazione di principio con la quale si trasformò il feudo in bene allodiale, ma fu il governo che ne disegnò il percorso attuativo con il decreto «Della feudalità diritti e pesi feudali». L’articolo 1 del capitolo I del decreto, infatti, ribadì che «gli abitanti di qualunque comune saranno considerati di ugual diritto, e condizione, e tutte le popolazioni del Regno saranno governate colla stessa legge comune del Regno».
Questo principio smantellò tutta la complessa impalcatura giurisdizionale sulla quale si reggeva il governo del “feudo”. L’articolo 2 del capitolo primo statuì che «cesseranno tutte le giurisdizioni baronali» con la conseguente abolizione dell’esercizio del mero e misto imperio; l’articolo 3 prevedeva che i baroni non fossero più responsabili della tenuta dell’ordine pubblico nei loro feudi; l’articolo 4, infine, destrutturò tutto il governo amministrativo dei comuni posti sotto la giurisdizione baronale, deliberando che «cesseranno in conseguenza ne’ baroni gli uffizi di maestro-Notaro di corte, di bajulo, di catapano, ed altri provenienti dalla giurisdizione signorile».
Questo processo continuò e creò un nuovo grimaldello, in quanto il riformismo borbonico mise in atto un altro profondo processo di trasformazione della classe dirigente dei comuni, destrutturando completamente tutto il sistema di governo dei comuni. Il regio decreto dell’11 dicembre 1817 – con il quale si estese alla Sicilia il sistema amministrativo già in vigore nel Regno di Napoli con la legge 12 dicembre 1816 – attivò processi amministrativi grazie ai quali si demolì una società strutturata per ceti e si costruì una classe dirigente nuova, per il tramite delle liste degli eleggibili selezionati in base al censo, alla quale si affidò l’autogoverno dei comuni.
Si modellò in tal modo una società, fondata su una classe di possidenti onesti e probi, che divenisse strumento e nello stesso tempo presupposto delle riforme successive (Paolo Pezzino). Scelte irreversibili che, come sottolinea Enrico Iachello, saranno uno dei motori della trasformazione della società siciliana: lo scontro politico abbandona così le polemiche settecentesche sulla natura dei privilegi nobiliari per rivolgersi ad una moderna definizione dei rapporti fra pro-società, Stato e poteri locali. L’abolizione della feudalità, base della nuova situazione, sposta la partita sul terreno dei poteri locali, liberati dalla “tutela” baronale.
Il 1817 segna una svolta epocale: il Parlamento fu abolito; le sette città capovalli furono affidate al governo degli intendenti che controllavano il governo dei comuni grazie anche al nuovo sistema elettorale; s’introdusse un nuovo Codice penale e civile che stravolse l’intera macchina giudiziaria e impose ai giudici e agli avvocati una riconversione culturale e giurisprudenziale senza precedenti.
I Borbone non percepirono di avere creato una realtà sociale incontrollabile, un ceto “borghese” che voleva cogestire il potere dal quale si sente ingiustamente escluso dalla netta opposizione del re a volere promulgare una costituzione. Questo nuovo ceto, a fronte del rifiuto dei sovrani di perseguire il percorso costituzionale del loro coinvolgimento nel governo del Regno, optò per la scelta piemontese dove lo Statuto albertino dava ampie garanzie per la sua presenza operativa nel contesto del governo della nazione.
Garibaldi e le sue camicie rosse poterono rapidamente coinvolgere la Sicilia nel processo unitario in quanto ebbero la possibilità di affondare le loro radici in un humus che era il frutto delle politiche riformistiche borboniche.