Il Devşirme. La raccolta dei fanciulli
Vita, sofferenze e riscatti dei bambini “prescelti” cristiani al tempo degli Ottomani
Con la conquista della penisola balcanica, gli Ottomani riuscirono a creare un’efficiente macchina da guerra, alimentata da un sistema di arruolamento efficace, chiamato devşirme. Il termine, che trae il suo significato dal verbo turco devsirmèk, «scegliere», può significare sia «raccolta» che «tributo dei fanciulli».
Come viene sottolineato da Anna Andreoni, nel suo articolo “Cristiani e musulmani nell’Impero Ottomano”, tale pratica di reclutamento si fa risalire al regno di Bayazed I (1354-1403) o al sultanato di Murad II (1404-1451) e consisteva nell’arruolare giovani cristiani, la cui età era compresa tra gli otto e i vent’anni (1), che venivano convertiti all’Islam e alla cultura turca e successivamente prestavano servizio all’interno dell’esercito o lavoravano nell’amministrazione dello Stato.
I fanciulli venivano reclutati da un ufficiale giannizzero chiamato yayabasi, che si presentava con una berrat (un’autorizzazione) una volta ogni cinque anni per prendere ogni un bambino su quaranta famiglie, fino a raggiungere un numero che oscillava tra i mille e tremila fanciulli.
Alessandro Barbero fa riferimento a un’incisione in cui vi sono rappresentati le madri straziate dal dolore per la partenza dei figli e i fanciulli vestiti con abiti rossi e con dei sacchi in spalla per il viaggio (2). Ivo Andrić descrive come i familiari dei fanciulli designati (per lo più donne) venissero allontanati dai soldati con le frustate. E di come essi, pur di evitare l’arruolamento dei propri figli, li nascondessero nel bosco, gli insegnassero a fingersi invalidi o addirittura li mutilassero (3).
I giovani che sarebbero diventati giannizzeri avevano un destino differente da quei fanciulli che avrebbero ricoperto cariche statali. Di fatto, le future guardie del sultano andavano presso i contadini delle campagne della penisola anatolica per imparare il turco, lingua presente all’interno dell’impero – insieme all’arabo lingua dell’amministrazione, e al persiano, lingua usata per la poesia e la letteratura – e per convertirsi alla religione musulmana. Una testimonianza di ciò è riportata dallo storico bizantino Teodoro Spandugino (XVI sec.), il quale affermò che i fanciulli «imparavano la fede, le leggi e i costumi turchi» (4).
Una volta terminato il periodo di lavoro presso i contadini nelle varie zone dell’Anatolia, questi fanciulli tornavano a Costantinopoli dove prendevano servizio nei ranghi della milizia (5). Anche se l’istituto del devşirme era illegale, poiché non si potevano rendere schiavi i sudditi cristiani, alcuni esperti di diritto ottomano hanno cercato di giustificare questa pratica sulla base del fatto che i giovani reclutati non erano persone protette. Il loro antenato era stato, infatti, conquistato con la forza, o le aree slave e albanesi da cui provenivano i fanciulli si erano convertite al cristianesimo solamente dopo la missione del profeta Muahammad in Arabia (6).
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Essere schiavi del sultano non era qualcosa di così infamante, per i tempi: ai sottoposti si prospettava, infatti, la possibilità di cambiare vita mettendosi al servizio del Gran Signore (7). A questo proposito, nella storia dell’Impero ottomano vi fu il caso emblematico di Sokollu Mehmet Pascià o Mehmed Pascià Sokolović (1506-1579). Questi proveniva da un villaggio della penisola balcanica vicino all’attuale cittadina bosniaca di Višegrad, attraversato dal fiume Drina, su cui fece edificare un ponte «di sontuosa e ineguagliabile bellezza» (8).
Lo scrittore bosniaco Ivo Andrić, Premio Nobel per la letteratura nel 1961, nel suo libro “Il ponte sulla Drina” descrive il personaggio di Sokollu Mehmet Pascià, nipote di un prete che era direttore di una chiesa in cui Sokolović era diacono, nel 1516 venne arruolato tra i giannizzeri e si distinse durante la battaglia di Mohács (1526) come scudiero del sultano Solimano il Magnifico. Grazie alle sue abilità fece una rapida carriera e, alla morte di Solimano sposò la figlia di Selim II, Esmahan Sultan. Istituì una fondazione religiosa dai beni inalienabili per legge e di cui il padre stesso era amministratore e, con il sultano decise di creare un patriarcato dei Balcani di cui lo zio ricoprì la carica. Nel 1565 arrivò a diventare Gran Vizir (9), la seconda carica più importante dell’impero. Da ciò si desume che l’istituto rappresentò per i convertiti all’Islam un’opportunità di riscatto sociale, poiché per selezionare i giovani che avrebbero servito il sultano non si guardava né alle origini né al censo.
Ciò nonostante, il devşirme fu causa di aspri conflitti tra la nobiltà e i neomusulmani. Così nel XVII secolo, periodo in cui l’impero era attraversato da una stagione di riforme, questa pratica di arruolamento cadde progressivamente in disuso; anche se Joseph Von Hammer (1774-1856), diplomatico austriaco e studioso dell’Impero ottomano, attestò che l’ultima leva risaliva al 1638 (10).
Leggi anche: I Fanciulli del Sultano. I giannizzeri al servizio della Sublime Porta
Note
1 Cfr. D. Nicolle, The Jannissaries, Osprey Publishing, Oxford, 1995, pp. 10-11.
2 Cfr. A. Barbero, Il divano di Istanbul, Sellerio, Palermo, 2011, p. 90.
3 Cfr. I. Andrić, Il ponte sulla Drina, trad. di Dunja Badnjević, I Meridiani Mondadori, Milano, 2016, pp. 18-19.
4 Per questa citazione di Spandugino, cfr. R. Mantran, Storia dell’Impero Ottomano, cit., p. 193.
5 Cfr. S. Faroqhi, L’impero ottomano, il Mulino, Bologna, 2000, p. 55.
6 D. Nicolle, The Jannissaries, cit., p. 10.
7 A. Barbero, Il divano di Istanbul, cit., p. 91.
8 I. Andrić, Il ponte sulla Drina, trad. di Dunja Badnjević, cit., p. 4.
9 A. Barbero, Il divano di Istanbul, cit., p. 97.
10 A. Andreoni, Cristiani e musulmani nell’Impero Ottomano, cit., pp. 1-2.