Il diritto all’informazione e la responsabilità nella divulgazione: l’intreccio tra giornalismo e magistratura
L’esigenza di tutela del diritto di informazione con quella di tutela della riservatezza delle indagini e della dignità delle persone
Non vi dubbio che per il nostro ordinamento costituzionale vi è un diritto del giornalista di informare e della collettività di essere informata sui rapporti tra giustizia, sistema politico e società civile. Ciò risponde ad una esigenza di controllo sociale sulle inchieste giudiziarie, soprattutto quando queste riguardano gli intrecci tra affari e politica ed in particolare la pubblica amministrazione. E’ anche innegabile peraltro che, specie negli ultimi anni, si è assistito a fughe di notizie spesso pilotate, a processi celebrati strumentalmente sulla stampa, tutti fatti che hanno, in violazione del principio di presunzione di innocenza, sancito dalla nostra Costituzione, esposto gli indagati a forme di pubblicità, lesive del loro diritto alla riservatezza, determinando tra l’altro nocumento allo sviluppo delle indagini e alla raccolta delle prove. Non può inoltre negarsi un uso sempre più spesso strumentale di notizie riguardanti l’avvio di indagini penali. Ciò si verifica ad esempio attraverso le notizie riguardanti l’invio dell’avviso di garanzia che introdotto a tutela dell’indagato, finisce in taluni casi, con il contributo, consapevole o inconsapevole degli organi di stampa, con il trasformarsi, in alcuni casi, in un micidiale strumento di lotta politica. Ma vi è di più. Nella maggior parte dei casi il giornalista dopo avere fatto lo “scoop” si disinteresserà dell’ulteriore sviluppo delle indagini e quasi mai seguirà il dibattimento che è quello in cui il giudice terzo stabilirà la fondatezza o meno della accusa. Il giornalista quindi tende a focalizzare tutta la sua attenzione su un atto (l’avviso di garanzia) emanato dal pubblico ministero che è parte e che ipotizza un reato tutto da verificare. La persona “avvisata” magari sarà poi completamente scagionata. Ma ciò non interesserà più il giornalista che tutt’al più dedicherà alla notizia poche righe in una pagina interna del giornale. Chi è stato completamente scagionato però, avrà pagato sia in termini di immagine che di costi umani, un prezzo elevatissimo. Molto spesso, ad esempio, si verifica che la stampa propali i verbali dei collaboratori di giustizia senza che vi sia stata la verifica delle loro affermazioni. Il fatto che non si trovi la verifica non vuol dire che quella persona ha detto una bugia, ,vuol dire che non è stata fatta la verifica e che quindi la sua dichiarazione non vale come prova: io posso raccontare una vicenda senza fornire alcun elemento che permetta di riscontrarla. La pubblicizzazione eccessiva e anticipata di queste dichiarazioni fa si che la gente sia indotta a ritenere che quella sia la verità, consentendo speculazioni di questa o quella parte politica. Il che, naturalmente, crea confusione.
Se è indubitabile che il diritto di informazione o cronaca giornalistica è un diritto soggettivo pubblico inerente alla libertà di pensiero e di stampa di cui all’art. 21 della Costituzione è anche vero che tale diritto deve essere esercitato entro ben precisi limiti non potendosi ritenere che con la enunciazione di cui all’art.21 la Costituzione abbia voluto consentire la violazione di altri diritti garantiti dalla stessa Costituzione. E non vi è dubbio che il diritto di cronaca travalica questi limiti ogni qualvolta la notizia non viene rigorosamente verificata, non viene riferita obiettivamente o viene amplificata oltre le sue reali dimensioni o quando l’informazione costituisce l’occasione o peggio ancora pretesto per colpire nella reputazione o nella immagine pubblica una determinata persona per finalità strumentali che nulla hanno a che vedere con un corretto esercizio del diritto di informazione. In questi casi si sconfina certamente nello illecito penale e si è fuori del diritto di cronaca.
Sempre più diffusa è poi la prassi, ormai pressocchè consolidata, di fare precedere o accompagnare da processi fatti sui giornali o in televisione, i processi che si celebreranno o si celebrano nelle aule giudiziarie (il caso di Cogne e non solo docet) ; il che non contribuisce certamente all’accertamento della verità o ai fini della giustizia. Sorge pertanto legittimo il dubbio che questi processi preventivi o paralleli nulla abbiano a che vedere con il diritto di informazione ma siano in realtà finalizzati a manovre politiche volte a creare un condizionamento psicologico nei confronti dei giudici e quindi a precostituire un verdetto di opinione pubblica dal quale giudici che non siano particolarmente indipendenti ed autonomi, difficilmente riusciranno a distaccarsi. Si rischia così di ritornare ai Tribunali del popolo di triste memoria durante la rivoluzione francese. Quasi quotidianamente poi, assistiamo allo spettacolo di questo o quel magistrato che rilascia interviste su processi o su indagini in corso. Alcuni giudici non parlano più con i loro atti giudiziari, ma convocano conferenze stampa, fanno dichiarazioni ai giornali (anche più volte al giorno ). Sembra che questi giudici non ritengano sufficiente che la giustizia venga resa nella sua sede naturale, cioè le aule dei Tribunali, ma che occorra integrarla con notizie e dichiarazioni rese ai giornalisti. Tutto ciò crea disorientamento nella opinione pubblica che sempre più frequentemente e legittimamente è portata a chiedersi se ciò non sia da attribuire a forme di esibizionismo dei giudici o a possibili strumentalizzazioni politiche più che alla esigenza di informare la società.
Il problema è quindi quello di trovare delle soluzioni che riescano a contemperare l’esigenza di tutela del diritto di informazione con quella di tutela della riservatezza delle indagini e della dignità delle persone.
Una disciplina che sulla scia della legislazione vigente potrebbe contemperare il diritto fondamentale di informare e di essere informati con l’esigenza di tutela della riservatezza delle indagini, potrebbe essere quella di introdurre in via generale il principio del libero accesso alle fonti della informazione giudiziaria, stabilendo al contempo il potere del magistrato di porre temporaneamente il segreto su singoli atti o anche sull’intero contenuto della inchiesta e ciò ogni qualvolta la divulgazione di notizie relative alle indagini in corso potrebbe arrecare pregiudizio alle indagini stesse o alle persone indagate. Conseguentemente, dovrebbero prevedersi pesanti sanzioni penali sia nei confronti degli operatori giudiziari (magistrati, avvocati, funzionari di polizia giudiziaria, personale di segreteria e cancelleria),sia per i giornalisti in caso di violazione del segreto posto dal magistrato. Al di la poi della regolamentazione giuridica è chiaro che, nel rapporto tra giornalisti ed operatori giudiziari, molto rimane affidato al senso di responsabilità sia dei giudici che dei giornalisti che dovrebbero improntare i propri rapporti ad uno spirito di leale collaborazione. In particolare il giudice non deve usare strumentalmente il giornalista facendo filtrare soltanto quelle notizie la cui divulgazione serva al raggiungimento di finalità, spesso di natura politica ma anche di protagonismo, e che ben poco hanno a che vedere con l’esigenza di portare a conoscenza della opinione pubblica notizie relative ad inchieste giudiziarie. Il giornalista deve a sua volta evitare di farsi strumentalizzare o di farsi portavoce di tesi precostituite, verificando a fondo, in tutti i suoi aspetti, e non soltanto in quelli che gli vengono prospettati o propinati da chi gli passa la notizia, il fondamento e la reale portata della notizia stessa, facendo prevalere il proprio senso critico ed il proprio senso di responsabilità e di correttezza sull’interesse allo scoop giornalistico o presunto tale ogniqualvolta si renda conto che la notizia ricevuta è amplificata, parziale, distorta, deviante dalla realtà dei fatti. Al giornalista non è consentito omettere aspetti idonei a scagionare il soggetto né arricchire il fatto con particolari non veri. Nel caso poi in cui la cronaca consista nel resoconto di un processo non ancora conclusosi, essa deve basarsi sulla lettura degli atti processuali e il giornalista ha il dovere di esporre le diverse tesi dell’accusa e della difesa, senza tacere aspetti di queste ultime allo scopo di inculcare nel lettore la convinzione di una inevitabile pronuncia di condanna. Ed ancora, nel narrare fatti per i quali è in corso un accertamento giudiziario, il cronista deve astenersi dall’enunciare verità certe e deve rappresentare i fatti in chiave di problematicità con la conseguenza che anche il pubblico deve essere avvertito che la colpevolezza dell’indagato o dell’imputato non è stata ancora acquisita come un fatto certo. Se poi venga pubblicata la notizia di una denuncia, sarà corretto evidenziare che si tratta solo di una denuncia e che i fatti non sono ancora stati oggetto di verifica da parte della autorità giudiziaria. Soprattutto il giornalista deve sempre attenersi, fino a che non intervenga una sentenza di condanna, al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza dell’imputato e non può tacciare quindi lo stesso di una colpevolezza non ancora accertata. Ed ancora non si può ritenere cronaca rispettosa della verità dei fatti quella di chi, nel riferire di un fatto, non tenga conto dei limiti processuali delle accuse di un organo inquirente, in spregio al disposto dell’art. 27 della Costituzione, presentando come certa e definitiva una situazione che è suscettibile, in una fase successiva di modifiche o addirittura di ribaltamenti. Un richiamo ad una maggiore riservatezza va peraltro fatto anche ai magistrati e soprattutto ai pubblici ministeri . Come si è accennato, sempre più frequenti ormai sono le dichiarazioni rese da magistrati, soprattutto del pubblico ministero, al di fuori delle sedi istituzionali e relative a procedimenti da loro trattati. Così assistiamo ad esternazioni frequenti di pubblici ministeri che anticipano le vie che imboccheranno le indagini, che formulano giudizi morali ( che certamente non gli competono ) su persone da loro indagate o che addirittura preannunciano sugli organi di stampa, come accaduto soprattutto in passato , l’invio di avvisi di garanzia a questo o a quello. Tutto ciò non giova certamente alla credibilità della giustizia.
Per la verità il C.S.M. ha da tempo affrontato il problema attraverso circolari tuttora vigenti ma ,di fatto, cadute in desuetudine. Così ad esempio ,con una circolare del 26 aprile 1990, il Consiglio “preso atto del fenomeno del ripetersi di dichiarazioni alla stampa ,che spesso generano confusione o discredito sull’ordine giudiziario”, ribadiva l’opportunità , da parte dei magistrati, di evitare dichiarazioni alla stampa su processi in fase di trattazione o già definiti a cui gli stessi avessero partecipato. D’altra parte, la sezione disciplinare dello stesso C.S.M., in alcune pronunce, ha ritenuto costituire illecito disciplinare il comportamento del magistrato che, nel rendere dichiarazioni alla stampa, non si limita a fornire notizie obiettive ma “ miri ad attirare sul proprio operato una pubblicità non consona al prestigio della funzione esercitata.”. Un freno a tutto ciò, peraltro, è certamente costituito dalla che attribuisce esclusivamente al Procuratore della Repubblica i rapporti con la stampa.
In conclusione ritengo che occorra stabilire legislativamente delle precise regole di condotta visto che ormai in nessun conto sembra vengano tenute le regole della deontologia sia da parte dei magistrati che da parte dei giornalisti . In attesa di nuove regole è auspicabile prudenza e un maggiore riserbo da parte dei magistrati cos’ come è auspicabile che la stampa si rassegni a non fare supplenza del potere giudiziario. Soltanto infatti nel rispetto dei rispettivi ruoli potrà realizzarsi l’equilibrio ed il giusto contemperamento tra il diritto di informare e di essere informati ed altri diritti dei cittadini costituzionalmente garantiti oltre che l’esigenza di riservatezza delle più delicate indagini penali. I giornalisti fanno bene a difendere la loro libertà di azione, il loro diritto di scrivere a proposito di tutte le notizie di cui vengono in possesso. Ma devono farlo sentendo il peso delle responsabilità che si assumono, capendo quali sono le caratteristiche della macchina che stanno maneggiando. Se si vuole evitare il bavaglio alla stampa, se si vuole evitare che certi problemi siano affrontati in sede legislativa ( come è avvenuto in Francia) si deve professionalmente avere un maggiore rispetto delle cose di cui ci si occupa rinunciando al sensazionalismo ad ogni costo.
La inosservanza di queste elementari regole di condotta finisce con il determinare due gravi inconvenienti: non solo il rischio di un danno irrimediabile per la reputazione di coloro nei cui confronti sia stata appena avviata una indagine, senza che vi sia stato il tempo di eseguire il sia pur minimo accertamento dal quale avrebbe potuto emergere l’assolutà estraneità ai fatti dell’indagato ma anche un danno immediato per l’immagine dell’ordine giudiziario che viene così ad essere esposto ad accuse di esibizionismo e di strumentalizzazione dei propri poteri.