Giovanni Brusca, il collaboratore di giustizia libero
Le reazioni, le rivelazioni di Giovanni Brusca e i progressi nella lotta alla mafia, le nuove sfide dello Stato
Giovanni Brusca, il collaboratore di giustizia responsabile di oltre 150 omicidi, della strage di Capaci e dell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo (sciolto nell’acido perché figlio del collaboratore Santino Di Matteo) è stato scarcerato, dopo avere scontato venticinque anni di reclusione.
Chiudendo così definitivamente i propri conti con la giustizia.
Immediate sono state le reazioni dei familiari delle vittime di mafia e dei politici. Così la madre del piccolo Di Matteo, pur affermando che le leggi dello Stato vanno rispettate, ha affermato che non potrà mai perdonare Brusca non essendovi oltretutto stato un pentimento pubblico per quello che aveva commesso.
“Durante i processi – ha detto la madre del bambino ucciso – Brusca non ha mai chiesto scusa alla famiglia per un delitto che non è solo un omicidio di mafia ma un crimine orrendo”.
La scarcerazione di Brusca: le reazioni
Per Maria Falcone, sorella di Giovanni – pur riconoscendo che la scarcerazione di Giovanni Brusca era stata voluta dal fratello con una legge che ha consentito tanti arresti e di scardinare le attività mafiose – si tratta tuttavia di “un pugno nello stomaco”. La Falcone auspica che la magistratura e le forze dell’ordine “vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere”.
E non manca di esprimere dubbi sulla completezza delle sue rivelazioni Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Pur sostenendo che la scarcerazione di Brusca è una cosa che umanamente ripugna, ha affermato che bisogna accettare la legge “anche quando è duro farlo come in questo caso”. Borsellino ha poi espresso dubbi sulla collaborazione di Brusca con la giustizia, che lui non ritiene sia veramente pentito e che non avrebbe raccontato tutto quello che sa e che avrebbe potuto dire.
Sul pronte politico il segretario del PD, Enrico Letta, ha parlato di “un pugno nello stomaco che lascia senza respiro e ti chiedi come sia possibile”.
Alfredo Bazzoli, capogruppo PD in commissione Giustizia alla Camera, pur riconoscendo il diritto dei familiari delle vittime di Brusca di esprimere dolore e indignazione, tuttavia riconosce che la sua collaborazione ha consentito di colpire al cuore l’organizzazione. La sua liberazione sarebbe in realtà una vittoria dello Stato, non della mafia.
Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha sostenuto che la legge va cambiata. Critiche sulla scarcerazione di Brusca sono state anche la presidente dei senatori di Forza Italia, Annamaria Bernini, e Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che hanno entrambe parlato di “schiaffo alle vittime”.
Infine, per l’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, lo Stato ha comunque vinto tre volte su Brusca: “La prima quando lo ha arrestato, era e resta uno dei peggiori criminali della nostra storia. La seconda quando l’ha convinto a collaborare: le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne e hanno fatto emergere pezzi di verità fondamentali. La terza quando ne ha disposto la liberazione dopo 25 anni di carcere, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai”.
Gli effetti della legislazione premiale e la liberazione di Giovanni Brusca
Pur essendo comprensibile lo sconcerto dei familiari delle vittime di Brusca, autore, non dimentichiamolo, di oltre 150 omicidi oltre che della strage di Capaci, non bisogna dimenticare che viviamo in uno Stato di diritto e che le leggi vanno rispettate.
Non vi è dubbio che lo Stato – con la cosiddetta legislazione premiale che prevede una serie di benefici nei confronti di coloro che abbandonando l’organizzazione mafiosa decidono di collaborare con la giustizia – rinuncia, in parte, al proprio potere punitivo.
In cambio di rivelazioni che consentano di venire a conoscenza di reati anche efferati ( si pensi alla strage di Capaci che ha consentito 24 condanne all’ergastolo) sino a quel momento rimasti impuniti. Si tratta, in definitiva, di una questione di costi (riduzioni di pena e altri vantaggi) e benefici (scoperta e punizione di molti delitti sino al momento della collaborazione non conosciuti e rimasti impuniti).
I mafiosi irriducibili: le parole di Totò Riina
Naturalmente, vi sono anche mafiosi irriducibili come il caso di Totò Riina il quale intercettato rivendicava non soltanto lo status di capomafia, ma anche la sua integrità di uomo d’onore. Sono le sue parole a commentarsi: “Io non mi pento… a me non mi piegheranno… Io non voglio chiedere niente a nessuno, mi posso fare anche tremila anni, no trent’anni. Cosa vogliono da me? Io sono Salvatore Riina e resterò nella storia di Salvatore Riina, questo è”.
Giovanni Brusca, le rivelazioni
Tornando a Giovanni Brusca non può disconoscersi che ha rivelato le strategie di Cosa Nostra, ha confessato di avere partecipato alle stragi, ha ammesso di avere commesso 150 omicidi. Ha spedito in carcere decine di boss e gregari, ha ammesso il delitto più efferato, e cioè l’uccisione del piccolo Di Matteo.
A Brusca inoltre va riconosciuto il merito di avere disinnescato la regia dei falsi pentiti consentendo di lasciare in carcere decine di capimafia, arrestandone altri. Le propalazioni di Brusca hanno portato a numerose sentenze irrevocabili che hanno dato il sigillo della verità alle accuse mosse agli autori di numerosi gravi delitti. Tutto ciò, secondo la legislazione vigente, ha giustificato la riduzione della pena e gli altri benefici concessigli.
Le sfide vecchie e nuove dello Stato
Detto questo non vi è dubbio che lo Stato, a fronte di una crescita inquietante della criminalità organizzata, e della sua capacità di infiltrazione nel tessuto sociale ed istituzionale (infiltrazione favorita anche dall’enorme potere economico e finanziario illecitamente conseguito dalle organizzazioni criminali) debba attrezzarsi per contrastare quello che ormai è diventato un vero e proprio “contropotere” che minaccia le stesse istituzioni.
In questi ultimi anni, uno degli strumenti di cui gli organi investigativi e la magistratura si sono sempre con maggiore frequenza serviti per contrastare il fenomeno mafioso (e con risultati certamente incisivi ed apprezzabili) è stato quello dei cosiddetti pentiti. Se è innegabile che il loro apporto si è rivelato determinante per la conoscenza della struttura dell’organizzazione mafiosa e per la scoperta degli autori di numerosi e gravi delitti, è anche vero che frequenti sono i casi in cui vi è fondato motivo di ritenere che le dichiarazioni di alcuni pentiti siano dettate da ragioni di vendetta o da veri e propri regolamenti di conti sia nei confronti di appartenenti a cosche avverse sia nei confronti di organi dello Stato (magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, politici) che magari ne avevano contrastato l’attività delittuosa. Ciò senza nulla togliere ai casi di collusioni accertati al di là di ogni dubbio.
Dalle considerazioni di cui sopra discendono due fondamentali esigenze: quella delle garanzie da predisporre nei confronti dei veri collaboratori che abbiano, sulla base di rigorosi riscontri, dato prova di sincerità e affidabilità; e quella di apprestare i mezzi e gli strumenti idonei a tutelare le vittime di quelli che potremmo definire pseudo pentiti e conseguentemente di evitare che i magistrati e gli organi investigativi finiscano con il diventare strumento di vendette privare o peggio ancora rimangano vittime di depistaggi, errori, menzogne posti in essere dai collaboratori per i motivi più svariati.
In conclusione non credo che oggi, come si sostiene da taluno, sia in atto un vero e proprio progetto finalizzato alla delegittimazione dei pentiti e quindi a interrompere la collaborazione degli stessi con la giustizia a tutto vantaggio della criminalità organizzata.
Ritengo invece che sia sempre più avvertita – proprio nell’interesse dell’attività di contrasto alla criminalità e a salvaguardia del fenomeno del pentitismo – l’esigenza di allontanare il pericolo derivante da una acritica e superficiale ricezione delle dichiarazioni del collaboratore, da una superficiale gestione dello stesso e dalla sostituzione della certezza morale (o presunta tale ) del giudice con la certezza processuale.
Ciò potrà avvenire mediante una soluzione legislativa che, pur nel rispetto del libero convincimento del giudice, fissi regole, criteri, modalità attraverso cui la collaborazione deve esplicarsi e l’assunzione della prova deve avvenire. Fermo restando che l’attendibilità del pentito va verificata attraverso una rigorosa disamina delle sue dichiarazioni che devono essere complete, dettagliate, disinteressate e soprattutto sostenute da solidi elementi di riscontro.
Ciò potrà contribuire certamente a fugare qualsiasi possibile dubbio sulla veridicità delle propalazioni o di eventuali strumentalizzazioni così consentendo di attribuire alla “chiamata di correo” pieno valore probatorio. Ma contribuirà anche a far sì che vengano evitati quegli eccessi e quegli errori di valutazione che finiscono talvolta con il dar luogo a gravi ed intollerabili ingiustizie (il caso Tortora docet) e che, in definitiva, si risolvono in un indebolimento della lotta alla criminalità organizzata facendo certamente il gioco di chi, sfruttando i danni provocati da una non sempre corretta utilizzazione dei pentiti mira – mafia in testa – alla loro delegittimazione.
Una cosa va comunque sottolineata. E cioè che i guasti provocati da una superficiale e cattiva gestione dei pentiti potranno essere evitati non soltanto dall’introduzione di valide soluzioni legislative, ma anche e soprattutto dalla professionalità del magistrato che non deve peraltro andare disgiunta dalla correttezza, dall’equilibrio, dalla serenità ed obiettività di valutazione. E soprattutto dall’assenza di tesi o obiettivi precostituiti da conseguire per finalità che nulla hanno a che vedere con la giustizia.