Giovanni Brusca, libero dopo 25 anni
Esecutore materiale della strage di Capaci e mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, Giovanni Brusca è da poco tornato in libertà dopo 25 anni di carcere
Giovanni Brusca: la scarcerazione dopo 25 anni
Considerato uno dei più efferati e violenti esponenti di “cosa nostra”, nei giorni scorsi Giovanni Brusca è tornato libero dopo 25 anni di carcere. Grazie alla combinazione tra buona condotta e i vantaggi garantiti dalla legge sui collaboratori di giustizia, l’ex boss è stato scarcerato 45 giorni prima del dovuto. Tuttavia, prima di essere considerato realmente libero, Brusca deve ancora trascorrere 4 anni in libertà vigilata, con una nuova identità e presso una località segreta.
I termini della scarcerazione dell’ex boss
Ormai ultra sessantenne e praticamente irriconoscibile (almeno stando a quanto dichiarato dai magistrati), pur essendo uscito dal carcere Giovanni Brusca non è ancora un uomo libero.
La legge sui collaboratori di giustizia, pur concedendo sconti di pena e la protezione da parte dello Stato (di cui la compagna e il figlio trentenne di Brusca già beneficiano dal 2000), obbliga il collaboratore ad alcune regole ben precise, la cui violazione comporta l’immediato ritorno in cella e la perdita di tutti i vantaggi acquisiti. Una mescolanza di benefici e limitazioni che includono:
- L’obbligo di cambiare e tenere nascosta la propria identità
- Un contributo economico mensile pari a circa 1000 euro
- Una ulteriore somma (inferiore alla precedente) per il figlio trentenne del boss
- Il costante controllo da parte delle autorità sui conti correnti personali
- L’assoluto divieto di espatrio
- L’obbligo giornaliero di firma
- L’obbligo al pernottamento fisso presso la località segreta indicata dalle istituzioni
- La possibilità di avere accanto il figlio
Giovanni Brusca detto “lo scannacristiani”
Figlio del boss Bernardo Brusca, dal quale ha ereditato il prestigio criminale, Giovanni Brusca viene arrestato il 20 maggio del 1996. Accusato ripetutamente dai magistrati, ha finito per confessare numerosi delitti, tra cui l’avere ordinato il rapimento e l’esecuzione di Giuseppe di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido per convincere il padre, Santino Di Matteo, a non tradire “cosa nostra”.
Brusca ha altresì ammesso di avere premuto il pulsante sul telecomando che ha azionato l’esplosivo della strage di Capaci, l’attentato in cui hanno perso la vita il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della loro scorta.
I motivi della scarcerazione del pluriomicida Brusca
Condannato a 30 anni come mandante dell’omicidio Di Matteo, nonché a 27 anni come esecutore materiale della strage di Capaci (pena successivamente ridotta a 20 in appello per via dello status di collaboratore di giustizia), con il proprio pentimento Brusca ha ottenuto tanto una riduzione della pena quanto altri benefici, tra cui la rimozione delle norme del 41bis (il carcere duro per i mafiosi). Questo è stato possibile grazie all’applicazione del “decreto legge 15 gennaio 1991 n.8 che, rifacendosi nell’impianto alla legge Cossiga contro il terrorismo, istituisce la figura del collaboratore di giustizia, il cosiddetto pentito.
Fortemente voluta da Giovanni Falcone, questa legge ha lo scopo di portare gli arrestati per reati di mafia a tradire i clan, bucando il muro di omertà che circonda “cosa nostra”. Un provvedimento che diventa disponibile solo dopo la verifica da parte degli inquirenti sull’attendibilità delle informazioni fornite e che oltre a evitare il carcere duro per il collaboratore, prevede una riduzione della pena pari a ¼ del totale (10 anni in caso di ergastolo).
Giovanni Brusca: il collaboratore di giustizia
Giovanni Brusca ha iniziato a collaborare con i magistrati già un mese dopo la cattura, ma le sue affermazioni iniziali sono state presto sbugiardate dalle dichiarazioni di Enzo Brusca, che, pentitosi realmente, smascherò sul nascere il presunto piano del fratello per screditare Luciano Violante. Interrogato dai giudici di Palermo, Caltanissetta e Firenze, alla fine Giovanni Brusca inizia a fornire informazioni reali e utili agli inquirenti, venendo dichiarato realmente attendibile solo nel marzo del 2000.
Dopo avere ammesso oltre 150 delitti, accusando altri boss e denunciando l’aggiustamento di alcuni processi da parte di collaboratori dei clan. Parlando apertamente dei rapporti tra mafia e partiti, lo “scannacristiani” ha guadagnato la fiducia degli inquirenti esplorando,durante gli interrogatori, le connivenze di “cosa nostra” con il mondo politico, economico e imprenditoriale.
La reazione delle famiglie delle vittime
La scarcerazione di un personaggio con la levatura criminale di Giovanni Brusca ha suscitato numerose reazioni indignate, soprattutto da parte delle famiglie delle sue vittime, con le quali l’ex boss ha cercato di scusarsi in un video diffuso in rete poche ore prima della sua scarcerazione.
Maria Falcone, sorella di Giovanni, ha dichiarato come, “umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è legge, una legge voluta da mio fratello e va rispettata”.
Meno comprensivo è stato Nicola Di Matteo, fratello del piccolo Giuseppe Di Matteo: “Brusca è fuori per una legge dello stato, una legge voluta da Giovanni Falcone. Io sono abituato a rispettare le leggi e le sentenze, ma non chiedetemi di accettarla o condividerla, il dolore è troppo grande”.
Infine si è mostrata assolutamente contraria Tina Matinez, vedova di Antonio Montinaro, per la quale “lo stato oggi mi ha preso in giro, sono sconfortata e incazzata nera. Chi ha schiacciato il bottone che ha distrutto la mia vita torna libero e io ancora non so la verità sulla strage di Capaci. Ho bisogno di uno stato che ci tuteli non che liberi i criminali”, ha affermato ponendosi tra le voci più ostili all’uscita dal carcere dell’ex criminale divenuto collaboratore di giustizia.
Il patrimonio del boss mai confiscato
Tra i molti interrogativi irrisolti legati alla vita criminale e le rivelazioni di Giovanni Brusca, restano quelli connessi al suo ingente patrimonio. A partire dall’origine delle notevoli disponibilità economiche possedute dall’ex boss durante la propria latitanza (forse provenienti dalla storica rapina del 1995 alle poste centrali di Palermo), fino agli introiti legati alle imprese edili e le attività commerciali affidate a prestanome, passando per i libretti al portatore e conti correnti miliardari.
Alcuni inquirenti sostengono quanto individuato (anche attraverso la collaborazione dello stesso Brusca) sia solo una parte delle somme in suo possesso e tra i più accaniti sostenitori di questa tesi (nonché del pentimento solo parziale del mafioso) c’è Silvana Saguto. L’ex giudice si è sempre rifiutata di credere al completo e reale pentimento dello “scannacristiani”, sostenendo il boss abbia invece sfruttato la propria posizione come collaboratore per colpire i rivali, tenendo ben nascoste le proprie reali finanze e segreti i nomi delle figure criminali a lui più vicine.