Giovanni Falcone, la vita del magistrato che sfidò la mafia
Giovanni Falcone, morto nella strage del 23 maggio 1992, ha dedicato la sua vita alla lotta contro la mafia. Il cosiddetto “metodo Falcone” è tuttora adottato a livello internazionale per combattere la criminalità organizzata.
La vita del giudice Giovanni Falcone
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio 1939 da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna.
È il terzo figlio dopo due sorelle: gli piace stare in giro e giocare a pallone, una passione che condividerà con gli altri bambini del quartiere in cui è cresciuto, piazza Magione, nel cuore della città. Fra i compagni di giochi c’è anche il futuro collega e amico Paolo Borsellino.
Nell’ambiente familiare il piccolo Giovanni assorbe quei valori che ne avrebbero contraddistinto il comportamento morale per tutta la vita. Si imprimono presto in lui il senso del sacrificio e un forte attaccamento al dovere. Dirà più tardi: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l’essenza della dignità umana”.
L’ingresso di Falcone in magistratura
Alla licenza liceale, conseguita con il massimo dei voti e il diritto all’esonero dalle tasse universitarie, segue una breve esperienza all’accademia navale, dove viene subito spedito allo Stato Maggiore perché, si sostiene, ha attitudini al comando.
Giovanni, però, scopre presto che la vita militare, così acritica e autoritaria, non fa per lui, decisamente più propenso al confronto e al dialogo. Così approda alla facoltà di Giurisprudenza, dedicandosi a studi che ama e in cui si impegna con dedizione. Quando entra in facoltà, sa già che la sua strada sarà la magistratura, in cui entrerà vincendo il concorso nel 1964.
Cos’è il “metodo Falcone”
L’attività di Giovanni Falcone all’interno del palazzo di Giustizia di Palermo – dopo gli incarichi a Lentini e a Trapani – si inserisce in un momento molto grave per la città, che nel settembre del 1979 aveva assistito all’uccisione del giudice Cesare Terranova.
Falcone è stato tra i primi a identificare in cosa nostra un’organizzazione parallela allo Stato, unitaria e verticistica. Erano tempi in cui si negava ancora generalmente l’esistenza della mafia e se ne attribuivano i crimini con scontri fra bande di delinquenti comuni.
Il “metodo Falcone” si avvale di indagini finanziarie presso banche e istituti di credito in Italia e all’estero e permette di individuare il movimento di capitali sospetti. È tuttora adottato a livello internazionale per combattere la criminalità organizzata.
Grazie al suo innovativo metodo di indagine, il magistrato ha di fatto posto fine all’interminabile sequela di assoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli anni ’70 e ’80.
La sua tesi è stata in seguito confermata dalle dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso dal primo importante pentito di mafia, Tommaso Buscetta, e, negli anni seguenti, da altri rilevanti collaboratori di giustizia.
L’assassinio di Rocco Chinnici: Palermo come Beirut
Sono gli anni in cui per strada a Palermo gli strilloni gridavano: “L’Ora, quanti nni mureru?” (L’Ora, quanti ne sono morti?). Palermo è un fiume di sangue, è una città stretta nella morsa della mafia. Si respira un’aria pesante.
Il 29 luglio 1983 un’autobomba massacra il giudice Rocco Chinnici, insieme alla scorta e al portinaio dello stabile in cui abitava, in via Pipitone Federico. Il titolo de “L’Unità” del 30 luglio 1983, “Terrore mafioso: Palermo come Beirut”, fa il giro del mondo.
Erano già stati uccisi il colonnello Giuseppe Russo, Boris Giuliano, il capitano Emanuele Basile, il giornalista Mario Francese, il sindacalista Pio La Torre, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il procuratore Gaetano Costa, il magistrato Cesare Terranova, l’agente Calogero Zucchetto, il professore Paolo Giaccone, e, come estrema sfida, la mafia aveva massacrato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo.
Giovanni Falcone e il Pool antimafia
All’indomani dell’assassinio di Rocco Chinnici, viene chiamato Antonino Caponnetto a dirigere l’ufficio Istruzione. È un magistrato siciliano ma quasi sconosciuto ai palermitani, che crede nelle capacità investigative di Giovanni Falcone.
Lo invita così a far parte del nuovo gruppo investigativo: il pool antimafia.
Il gruppo è concepito per affrontare la complessità del fenomeno di cosa nostra, non più vista secondo l’opinione generale, come insieme di bande, ma, secondo l’ipotesi di Falcone, come organizzazione unica con struttura verticistica al cui interno non esistono gruppi con capacità decisionale autonoma.
Alla luce di tale convinzione viene ritenuto fondamentale il lavoro di indagine in équipe di magistrati.
Il frutto più importante dell’attività del pool, composto da Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta, sarà il maxiprocesso, il più grande risultato mai conseguito contro cosa nostra.
Il maxiprocesso: la vittoria più grande del giudice Falcone
All’origine della mega inchiesta viene posto un rapporto redatto da Ninni Cassarà, vice dirigente della squadra mobile e stretto collaboratore di Falcone: la ricostruzione minuziosa dell’origine della guerra di mafia che porterà i corleonesi di Totò Riina ai vertici dell’organizzazione.
L’8 novembre del 1985 il pool deposita l’ordinanza di rinvio a giudizio contro 475 imputati.
Il 10 febbraio 1986 inizia il primo maxiprocesso a cosa nostra. È il traguardo più importante di Giovanni Falcone: ventidue mesi di udienze in un’aula bunker appositamente costruita in cemento armato, in grado di resistere anche ad attacchi missilistici e di dimensioni tali da poter contenere il gran numero di imputati e permettere ai giudici di lavorare in sicurezza.
Reti televisive da tutto il mondo riprendono le reazioni dei mafiosi dietro le sbarre e le urla di madri e mogli sugli spalti di quella che venne descritta dai giornali come “l’astronave verde” per via delle pareti dei muri delle celle di quel colore.
Le accuse ascritte agli imputati comprendono 120 omicidi, traffico di droga, estorsione e il reato di associazione mafiosa. Le prove più significative – pazientemente riscontrate – provengono dal collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, catturato come latitante in Brasile due anni prima.
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Il 16 dicembre del 1987 il presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge la sentenza che, incredibilmente, malgrado la mole del processo, arriva nei tempi stabiliti. Tutti – il giudice a latere Piero Grasso, il pubblico ministero Giuseppe Ayala, i giurati popolari, centinaia di avvocati – stanno in piedi per ore ad ascoltare il lungo elenco di condanne, tra cui 19 ergastoli e 2665 anni di carcere a 339 imputati.
Palermo scopre finalmente che la mafia è una costruzione umana e come tale ha un inizio ma anche una fine, secondo le parole di Falcone. Che la strada è ancora in salita ma finalmente agli occhi della gente cosa nostra non è impunibile.
Il giudice Falcone, l’attentato all’Addaura e le lettere del “corvo”
La reazione al maxiprocesso non si fa attendere: per Falcone inizia una turbolenta fase in cui viene bersagliato da vari soggetti con il fine ultimo di screditare la sua persona e la sua professionalità.
Nel 1989 viene accusato di aver fatto ritornare in Italia il pentito Salvatore Contorno, esponente della “mafia perdente”, al fine di uccidere dei rappresentanti della “mafia vincente”. Queste falsità aberranti vengono espresse con lettere anonime, dette lettere del “corvo” ed inviate a vari rappresentanti delle istituzioni.
Il 20 giugno del 1989, Falcone sfugge all’agguato tesogli nella sua villa all’Addaura: un borsone con cinquantotto candelotti di dinamite, posto sulla scogliera dove il giudice fa il bagno, viene trovato per caso da un agente della scorta.
La bomba è disinnescata e l’attentato fallisce. È lo stesso Falcone a spiegare il senso di quell’aggressione, una manovra ideata in maniera perfetta da “menti raffinatissime”, mirata a dar credito alle accuse delle lettere diffamatorie del “corvo”: «Il contenuto delle accuse doveva essere il movente che aveva spinto la mafia a uccidermi. Sarei stato un giudice delegittimato perché scorretto, l’omicidio sarebbe stato giudicato quasi naturale».
Dopo l’attentato dell’Addaura, per diretto interessamento del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, Falcone viene nominato procuratore aggiunto di Palermo dal Consiglio superiore della magistratura.
Qui altre lettere del “corvo” continuano ad avvelenare il clima del palazzo di Giustizia, ma il magistrato, sebbene avversato e ostacolato, riesce ugualmente a condurre intense attività di indagine.
Il clima ostile attorno a Falcone
Il clima ostile del Palazzo cresce ogni giorno di più e Falcone si rende presto conto di trovarsi isolato.
Avverte che in quel palazzo, a Palermo, non riesce più a lavorare come vorrebbe e che i quotidiani dissensi lo logorano ogni giorno di più. Decide così di accogliere l’invito del ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, a ricoprire il ruolo di direttore degli Affari penali al Ministero e qui prende servizio nel novembre 1991. Un posto riservato ai magistrati, nulla a che vedere con la politica.
Ma non mancano nemmeno in questo caso le critiche. Era come se qualsiasi ruolo ricoprisse potesse essere una “minaccia” di giustizia così forte da fare paura a tutti. Si ricordano gli interventi durante il programma televisivo “Maurizio Costanzo show” in cui Alfredo Galasso gli suggeriva di andarsene «prima possibile dai palazzi ministeriali perché mi pare che l’aria non gli faccia bene».
E ancora, l’intervento di Leoluca Orlando in difesa della figura del parlamentare europeo Salvo Lima per il quale Falcone aveva dichiarato alla stampa che fosse notorio che Lima, appunto, avesse rapporti con gli esattori Salvo di Salemi.
Le manovre del giudice Falcone contro la criminalità organizzata
Il ruolo ricoperto da Falcone risultava invece determinante per l’elaborazione di nuovi strumenti legislativi per rendere più efficace l’azione della magistratura contro la criminalità organizzata.
Gli strumenti pensati da Falcone:
- semplificazione del rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le varie procure;
- procure distrettuali con esclusive competenze di contrasto alla mafia e direttamente dipendenti dai capi delle rispettive procure;
- la formulazione di norme che regolino la gestione dei collaboratori di giustizia;
- il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi con la necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà;
- la costituzione di un ufficio centrale nazionale che prenderà il nome di Direzione nazionale antimafia, generalmente nota come Superprocura per garantire la circolazione coordinata delle notizie in tutto il territorio nazionale.
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Ma quando Falcone viene indicato come il naturale candidato a questo nuovo ufficio, come un copione che si ripete, subisce l’avversione generale e maggiormente dei colleghi, che lo accusano di voler impadronirsi di uno strumento di potere da lui stesso ritagliato sulla sua persona.
La morte di Giovanni Falcone: la strage di capaci
In un clima sempre più ostile, il 23 maggio del 1992, cosa nostra compie uno dei suoi più feroci attentati, che verrà ricordato come la strage di capaci. Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta, morirono a causa di un’esplosione in autostrada, mentre tornavano in auto verso Palermo dall’aereoporto di Punta Raisi.