Esorcizzare la paura, infrangere i confini. La recensione del volume di Giovanni Ricci “Appeal to the Turk. The broken boundaries of the Renaissance”
Il volume di Giovanni Ricci Appeal to the Turk. The broken boundaries of the Renaissance (Viella, Roma, 2018) costituisce assieme ai suoi precedenti Ossessione turca (il Mulino, Bologna, 2002) e i Turchi alle porte (il Mulino, Bologna, 2008) una trilogia, in cui l’autore sviluppa il tema della minaccia turca, reale o immaginata, nell’Italia del Rinascimento. Con un colpo di scena finale: l’appello al turco.
Nel primo dei tre volumi il pericolo era per lo più immaginato, frutto di quella paura che dal 1453, anno della caduta di Bisanzio, era dilagata in Europa, a tal punto da trasformarsi in una reazione patologica, una vera e propria ossessione, insopprimibile, persino in una città come Ferrara, una “retrovia”, che a quel pericolo non era affatto esposta. L’ossessione si trasforma in pericolo reale invece nel secondo volume, I Turchi alle porte, che ha per oggetto le concrete incursioni che i turchi effettuarono sul finire del Quattrocento sul territorio italiano: ben cinque nel Friuli e una devastante nel 1480 a Otranto, in Puglia, territorio del regno di Napoli. I due mondi, cristiano e musulmano, che appaiono contrapposti nel primo volume, si contrappongono dunque effettivamente nel secondo volume. Ma veniamo al terzo, il cui titolo desta non pochi interrogativi. Appellarsi significa invocare, chiamare a sé, far venire, rivolgersi a qualcuno per averne aiuto. Come è possibile che quell’ossessione e quella contrapposizione diventino poi anche una invocazione, una richiesta di aiuto?
È l’infrangersi di un confine, di uno stereotipo, quello dello scontro, dell’opposizione, della cesura tra i due mondi. Ed è significativo che questo emerga sul piano della politica, ossia che poteri pubblici e autorità religiose si siano appellate al nemico per antonomasia al fine di risolvere problemi politici o persino personali. Sembrerebbe inimmaginabile: come può tradire la Francia, Venezia, persino il Papato, «as the source of all legitimacy in the catholic system»? Eppure, lo si comprende se si esce dallo schema dello “scontro di civiltà” e si entra in quello dello “scontro di potenze”: qui il contesto è quello delle alleanze con i nemici dei propri nemici. Nulla insomma, o poco, a che fare con le civiltà, le identità, la religione. I turchi facevano ormai parte tra Quattro e Cinquecento dello scenario geopolitico europeo e con loro si poteva combattere, commerciare, negoziare, persino allearsi come con chiunque altro. E anche per loro il Mediterraneo era come il giardino di casa. Erano insieme esterni ed interni alla storia europea, almeno da quando nel 1352 erano entrati a Gallipoli, sul versante europeo dei Dardanelli: la “Turchia in Europa” aveva iniziato allora il suo percorso. Essi insomma erano «significant players at the table of European diplomacy» (p. 10). La dimensione antagonistica non esaurì affatto il «sistema di interdipendenze», che caratterizzò il Mediterraneo nei secoli dell’età moderna: ci si osservava e si trattava, ma non di meno si saggiavano sulle acque e sul campo le proprie forze. Ma tutto questo non è che un indice della complessità della storia, in cui come ci avverte l’autore «there is nothing simple and linear» (p. 13).
Il libro si snoda in gran parte attorno alla storia d’Italia tra Quattro e Cinquecento, sullo sfondo delle guerre d’Italia, che la resero un vero campo di battaglia. Roma (in particolare il papa umanista Pio II e Alessandro VI Borgia), Venezia “concubina” del turco, Milano di Ludovico il Moro, Mantova dei Gonzaga, Ferrara degli Este, Napoli degli Aragonesi e naturalmente Istanbul ne sono le maggiori protagoniste. In scena sono equilibri precari e dal respiro corto, vendette politiche, trasversalità delle alleanze di volta in volta ridisegnate sulla base del calcolo, della convenienza, all’insegna della convinzione che i nemici dell’uno siano gli amici dell’altro. È un quadro politico, quello italiano del tempo, denso di rivalità e ambiguità.
Ricci scrive una storia di contatti problematici, muovendosi tra un materiale estremamente frammentario e discontinuo, provando a rendere esplicite le assenze, a far parlare i silenzi. Nei testi presi in considerazione «everything and the contrary of everything can be found: peace and war, alliance and suspicion, curiosity and rejection» (p. 98). L’Autore ci conduce così sapientemente attraverso una sequenza di episodi, di dossier, connessi spesso tra di loro in una stessa trama narrativa, un filo rosso che lega ogni capitolo all’altro, conferendo unità al racconto. In verità ciascuno di essi può essere letto anche singolarmente, ma indubbiamente la lettura complessiva del libro, illumina aspetti che aiutano il lettore a ricostruire il quadro d’insieme.
Emerge tutta la capacità di Giovanni Ricci di narrare la storia, delle storie, con gusto ed eleganza, con la consapevolezza di chi conosce le fonti e le domina, restituendo al lettore una trama narrativa assolutamente accattivante. Sul piano dei contenuti Ricci mette invece a nudo le due facce della medaglia: cristiani propensi ad allearsi coi turchi sino al punto di trovarseli in casa; e turchi che invece declinarono le offerte, risultando cosi meno avvezzi al bellicismo di quanto generalmente si pensi. E ci consegna una sfida: la necessità, cioè, di fare i conti con questa realtà di frontiera, che fu-è-sarà il Mediterraneo, in cui coloro che attorno vi hanno vissuto hanno imparato a convivere con i pericoli, ma anche con le opportunità che l’essere una avanguardia porta in sé. Trasformare il pericolo in opportunità, esorcizzare la paura, infrangere i confini del pregiudizio, addestrandosi alle presenze plurali, rappresenta così l’autentica alternativa mediterranea alla teoria dello scontro.