La Grande Guerra e il Coronavirus
La politica, la contestazione, le varianti, i rimedi: la trincea come l’ospedale nella società di ieri e di oggi
“Siamo in guerra”: spesso lo sentiamo ripetere, anche da fonti ufficiali. La lotta al Covid-19 è una guerra.
I paralleli storici vanno sempre usati con una certa cautela, inutile ripeterlo. Certamente non siamo in guerra. Quella che stiamo vivendo non è la Prima guerra mondiale, e neanche l’epidemia di Spagnola. Ma la storia, se per definizione non si ripete mai allo stesso modo, serve a riflettere sul presente con maggiore consapevolezza. In questo senso, i paralleli tra la situazione presente e la Grande guerra risultano particolarmente affascinanti.
Oggi come allora, all’origine di tutto vi fu una grossolana sottovalutazione del rischio e una generale incapacità di prevedere le conseguenze delle proprie scelte strategiche, poi duramente pagate col sangue sui grovigli mortali del filo spinato e dei respiratori artificiali nelle odierne terapie intensive.
In entrambi i casi, il contraccolpo emotivo è stato profondo: dal “maggio radioso” al “funereo autunno” in cui si immolò il fiore della gioventù italiana; dagli inni patriottici cantati sui balconi alla triste rassegnazione, oggi come allora, ad accettare quotidianamente il drammatico bollettino dei caduti. Dall’inizio della tragedia il popolo italiano è rimasto in balia di sentimenti altalenanti, sospeso tra speranza e paura. Ogni “spallata” sul Carso, col suo relativo spaventoso tributo di sangue, si sperava fosse quella decisiva, e in nome di essa si chiedevano sempre maggiori sacrifici alla nazione. Oggi, a ogni nuova “ondata” del contagio si accettano nuove restrizioni nel miraggio di un Natale, di una Pasqua, di un’estate finalmente “normali”.
Di fronte alla dura realtà della guerra di trincea non esistevano tattiche risolutive, quelle disponibili risultavano addirittura controproducenti; e così, di fronte alla virulenza della malattia, le armi della scienza medica oggi sono apparse inadeguate. Le nuove tecniche o le nuove armi dall’aereo al carro armato promettevano di metter fine all’incubo della guerra come adesso si spera possano farlo i medicinali dai nomi esotici o i vaccini.
Su un piano diverso, ma non meno interessante, politica e istituzioni sono risultate ugualmente sconvolte dalle fondamenta. In primo luogo, anche in questo caso l’originaria maggioranza governativa – già instabile, ora come allora, di fronte alla propria incapacità di gestire la situazione – si è trovata a dover cedere il passo a coalizioni più ampie, pur non riuscendo mai a raggiungere un clima da “unione sacra” a dispetto della gravità delle circostanze. Ma, al massimo, ottenendo una sorta di “non aderire né sabotare” da parte delle forze politicamente più ostili.
Pure, dopo aver clamorosamente fallito nella sua capacità progettuale e di fronte a un’emergenza soltanto in apparenza esclusivamente tecnica, la classe politica ha ben presto abdicato al suo ruolo perdendo terreno a tutto vantaggio dei militari o dei virologi, i “tecnici” a seconda dei tempi, che ne hanno invaso prepotentemente le attribuzioni dettandone l’agenda senza peraltro stemperare il tono delle polemiche.
La parallela sovraesposizione mediatica di questi ultimi, oggi ancora più forte grazie ai social media e ai moderni mezzi di informazione, ha contribuito a incrementare non poco il senso di confusione e di disagio nello spirito pubblico. Posti di fronte a una terra incognita per la loro stessa sfera di competenza, gli stessi “tecnici” hanno preso a darsi battaglia gli uni contro gli altri a colpi di strategie d’intervento opposte.
Come sempre, ma nell’odierna civiltà dell’immagine ancora di più, la situazione emergenziale ha eccitato il protagonismo individuale spingendo persino “tecnici”, sino a ieri oscuri o al limite prestati alla politica locale, a lanciarsi in dichiarazioni sensazionalistiche o polemiche pur di ottenere un giorno di visibilità a livello nazionale o a fare previsioni poi smentite dai fatti aumentando la confusione. Sul piano generale, che le dichiarazioni di questo o di quel “tecnico” siano state poi sfruttate e monopolizzate dalle forze politiche, lette in una chiave politica piuttosto che in un’altra, non è avvenuto a caso ma è il riflesso proprio di quel vuoto lasciato dai professionisti della politica a livello decisionale. La vicenda di Capello e i suoi dissidi con Cadorna torna alla mente in modo naturale.
Restringere all’ambito tecnico l’obiettivo generale di trovare il modo più rapido per vincere la “guerra”, depoliticizzandolo e delegandolo in via quasi esclusiva ai “tecnici”, ha poi avuto – oggi come allora – ulteriori conseguenze negative. L’emarginazione del parlamento, sede naturale della politica e del confronto democratico, il ricorso allo stato di emergenza, l’uso eccessivo della decretazione d’urgenza, la segretezza su alcuni passaggi chiave del processo decisionale, con un evidente e progressivo squilibrio del bilanciamento dei poteri a tutto vantaggio di un esecutivo sempre meno in grado, però, di esercitare un effettivo indirizzo politico.
Lungo questa via, interi territori sono stati sottoposti a dure limitazioni delle libertà individuali. Le attività economiche ne sono state sconvolte, in base a decisioni spesso inevitabili ma non sempre in misura del tutto necessaria o coerente con l’obiettivo generale di facilitare le operazioni “di guerra” proprio perché prese sotto l’assillo degli alti comandi e, oggi, dei comitati tecnico-scientifici che, proprio in quanto tali, sono sprovvisti di un’adeguata sensibilità politica. Anche in questo caso la contrapposizione tra Cadorna e Orlando riecheggia nella sua attualità.
A livello sovranazionale, inoltre, le similitudini sono ugualmente interessanti. Le difficoltà dell’Unione europea a perseguire una risposta unica e coordinata all’emergenza – con gli Stati pronti a muoversi seguendo i propri interessi particolari, se non a prevaricare quelli degli altri membri – ricordano molto da vicino le polemiche tra gli Stati dell’Intesa alla vigilia e al termine di ogni fallimentare offensiva combinata contro gli Imperi centrali. Dall’accaparramento delle mascherine a discapito di una distribuzione più equa in ambito comunitario alle recriminazioni contro la Gran Bretagna sulla vicenda Astrazeneca il discorso sarebbe lungo. E ancora una volta la salvezza dipenderà da oltreoceano: non più dall’arrivo dei soldati a stelle e strisce ma dai milioni di vaccini prodotti nelle fabbriche statunitensi, con le medesime implicazioni e conseguenze geopolitiche.
Come ogni guerra, anche questa “al virus” produce e si nutre di immagini, riti, eroi e soprattutto di retorica. Dalle edulcoranti visioni della guerra di trincea divulgate dalla Domenica del Corriere e dalle foto ricordo degli Arditi prima di un assalto alle attuali forme di autocelebrazione e autorappresentazione individuale e collettiva stimolate compulsivamente dalla nostra civiltà dell’immagine. Si pensi alla “giornata della memoria” per le persone scomparse, celebratasi a un anno dal diffondersi dell’epidemia e a “guerra” non certo conclusa. Si pensi alla candidatura del personale sanitario italiano al premio Nobel per la pace, oppure al lungo viaggio con tanto di scorta militare del furgone che portava in Italia le prime poche dosi di vaccino. Si pensi infine ai selfie che persino medici e sanitari ormai scattano per magnificare il proprio impegno sul “fronte”.
E come la Grande guerra, anche questa al virus vive degli effetti deteriori della retorica dell’amico-nemico tanto più divisiva quanto più difficile è la situazione. Popolo delle trincee contro operai e borghesi “imboscati”, disfattisti, spie, collaborazionisti, “pescecani” e capitalisti, fanno il paio oggi con i negazionisti, i no-vax, i renitenti all’uso delle mascherine e alle regole sul distanziamento, sino alla polemica contro le “categorie protette”, i politici, gli statali-fannulloni e via dicendo.
Oggi, come allora, la fine dell’incubo appare distante. Siamo ancora nella svolta del 1917. Il nemico attinge rinforzi da fronti lontani, dalle “varianti” inglesi, brasiliane, sudafricane. E mai come oggi le parole di Orlando all’indomani di Caporetto possono risuonare attuali e di incoraggiamento per tutti: “Resistere, resistere, resistere!”.
E di resistenza si tratterà, anche quando la “guerra” sarà finita. Perché le ferite aperte nel corpo sociale, come nel “biennio rosso”, saranno difficili da colmare dopo il fallimento dichiarato della politica professionista. Non sarà semplice. Se, come sottolineato su queste stesse pagine da Aurelio Musi, la guerra o la pandemia per quanto esperienze collettive aprono il varco alla drammaticità della solitudine individuale, lo stesso vale a livello sociale di fronte alla Caporetto della politica. Il vuoto aperto sarà riempito, ma sarà compito delle forze politiche farlo respingendo ogni pericolosa deriva tecnocratica o populista ridando anima alle istituzioni democratiche.
Nel frattempo bisogna resistere, oggi come allora, finché che la Vittoria non spiegherà di nuovo le sue ali al vento.