Guerra è propaganda, dai persiani a Gaza
Filippomaria Pontani scrive la seguente recensione dal titolo “Guerra è propaganda, dai persiani a Gaza”, pubblicato su Il Fatto Quotidiano. Sottolinea il legame drammatico tra attualità e storia, il quale emerge dal volume “La logica della guerra nella Grecia antica” di Andrea Cozzo, pubblicato da Unipapress.
“Ares, cambiavalute di corpi”. Questo verso di Eschilo (Agamennone 438) cattura la contabilità incrociata delle vittime, l’oscena pesa quotidiana dei cadaveri sulla bilancia di Zeus e di Al-Jazeera. Non è un caso che il libro più attuale sulla spirale di violenza in corso lo abbia scritto Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica (Palermo Univ. Press 2023, scaricabile online).
“Hanno cominciato loro, vanno puniti”. Hanno cominciato cosa? L’ ultima escalation militare o le ostilità di più lungo periodo (in Donbass, nei Territori…)? Al principio delle Storie di Erodoto, Persiani, Fenici e Greci danno tre versioni opposte del principio remoto della lotta tra Oriente e Occidente, che sfocerà nelle Guerre Persiane (492-479 a.C.); e poi il fatale incendio del tempio di Cibele a Sardi (Erodoto 5.102) fu accidentale o voluto? E la conseguente distruzione dei templi greci da parte dei Persiani fu una “proporzionata vendetta”, o un sacrilegio da rinfacciare ai “barbari” per generazioni, ancora ai tempi di Alessandro Magno?
E chi ha iniziato la Guerra del Peloponneso tra Ateniesi e Spartani, la più grande del mondo antico (431-404)? Tutti e due, risponde Tucidide, che da storico obiettivo osserva che gli Ateniesi “divenuti grandi e offrendo motivo di paura agli Spartani, li costrinsero a fare la guerra” (1.103). Tutti dicono di voler evitare il conflitto, di averlo intrapreso solo in via difensiva (conviene fingere in tal senso, dice il tattico Onasandro, 4.1-3); e poi magari, come Putin, lo negano o lo ribattezzano financo quando è conclamato. Tutti invocano un principio di Giustizia (“Dike” sta incisa sullo scudo di Polinice come sulle labbra del fratello Eteocle: si ammazzeranno l’un l’altro alle porte di Tebe), tutti sono convinti che “Gott mit uns”, “gli dèi sono con noi”, come reclamano sia il Persiano Ciro sia Alessandro Magno che ostenta alle truppe, in favore di telecamera, le viscere delle vittime da cui trae auspici favorevoli. Tutti – come Netanyahu l’altroieri, come Pericle nel 430 – sono il Bene contro il Male, in una sindrome DMA (Dicotomizzazione, Manicheismo, Armageddon, secondo Johan Galtung) che non lascia scampo.
La distanza dalla “verità”, naturalmente, varia, ma anche le narrazioni più auguste sanno di manipolazione: nel Panatenaico il retore Isocrate celebra la grandezza di Atene (479-431 a.C.), che abbatteva tirannidi e garantiva prosperità agli alleati, ma – al pari degli odierni cantori della pax Americana dimentichi dell’ex Jugoslavia o dell’Iraq – omette di citare i massacri dell’imperialismo ateniese, a cominciare dalla distruzione della piccola isola di Melo, rea di volersi mantenere neutrale nella guerra (416 a.C.: il famoso “dialogo dei Melii” in Tucidide è l’illustrazione impietosa della legge del più forte).
Una volta scoppiato il conflitto tra Atene e Sparta, gli stati “si scontrarono in guerra, sobillati dai demagoghi e dai guerrafondai che volevano la guerra reciproca, senza che ci fosse nessuno ad interporsi per separarli” (Plutarco, Cimone 19.3). Ecco: la mediazione fu impossibile perché dentro gli stati il clima di sospetto non tollerava dissenso, sebbene i più diffidassero della retorica del “vincere o morire”, della mistica del sacrificio, dei costanti richiami all’eroismo per conto terzi (ché poi, non è che Pericle entrò in guerra per distogliere lo sguardo dalle sue grane personali? non è che magari Cleone dava fuoco alle polveri per coprire le sue malversazioni? non è che…?).
Il troiano Antenore propose saggiamente di chiudere la guerra di Troia restituendo Elena ai Greci (Iliade 7.345): è passato alla storia come il traditore per antonomasia. Nel 415 ad Atene anche chi era contrario alla spedizione in Sicilia – destinata alla catastrofe – “stava in silenzio per paura di apparire un cattivo patriota votando contro” (Tucidide 6.24). Nel 405, dopo la disastrosa sconfitta di Egospotami, Cleofonte minacciò di sgozzare chiunque avesse solo pronunciato la parola “pace” (Eschine, La mala ambasceria 76)
E così mille altre volte: la propaganda e la disinformazione servono a impressionare, a intimidire il nemico, e a consolidare con violenza il fronte interno: il conto iperbolico dei propri soldati o dei nemici uccisi, l’esibizione di flotte senza fine, la damnatio memoriae degli avversari (secondo Erodoto 5.67, a Sicione, nella guerra contro Argo, furono proibiti i poemi epici perché parlavano troppo degli “Argivi”: cancel culture all’antica?). Putin mostra la Russia ricca in barba alle sanzioni, così come Trasibulo di Mileto dinanzi all’ambasciatore del nemico mette in piazza ricche tavole imbandite (Erodoto 1.21). Si impressiona infierendo sui prigionieri (buttati in mare, stuprati, venduti come schiavi, sgozzati a sangue freddo, crocifissi, mutilati, usati come scudi umani), e ricorrendo a pratiche che a scuola credevamo relitti di usanze primitive (insultare e sfigurare il cadavere del nemico, uccidere ogni Troiano maschio, “anche chi la madre porta ancora nel ventre”…) e oggi sono invece i servizi dei tg. Non è l’eccezione: scrive Cozzo che “la tecnica della guerra non conosce distinzioni né limiti: essa è, per definizione, uno stato d’eccezione rispetto ad ogni regola”, perché (Tucidide 1.122) la guerra “procede meno di ogni cosa secondo leggi prestabilite; invece, essa escogita da se stessa molti mezzi a seconda delle circostanze”.
Impadronitosi degli uomini, “Ares impazza alla rinfusa”, “Ares è comune, e uccide chi uccide”. Soprattutto, come nota Alberto Camerotto in un libro poderoso (Troia brucia, Mimesis 2022), “quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro”: non lo permette la costante illusione della guerra-lampo (da Agamennone a Pericle a Brasida), non lo permette la costante fiducia in un rivolgimento favorevole (Kuleba che rievoca Milan-Liverpool del 2005), non lo permette il terrore di vanificare i sacrifici già compiuti, come paventa Ulisse nel II libro dell’Iliade, o, ancora nel 415 a.C., Alcibiade che sostiene contro il più prudente Nicia la necessità di proseguire la fatale campagna di Sicilia (Tucidide 6.48).
Enea, un retore di Gaza del V secolo d.C., scrisse un giorno che l’unico vantaggio della guerra sulla pace è che essa “ci induce a parlare molto gli uni con gli altri”. Nella nostra sovrana impotenza, ci resta la parola, specie dinanzi ai giovani che crescono in questo clima di sangue, e che per ardore, speranza e coraggio sono sempre i più pronti alla guerra (Aristotele, Retorica 2.1389a). Dei due grecisti citati in questo pezzo, Cozzo insegna e pratica da anni la non-violenza nei contesti più difficii della sua città, Palermo. Camerotto ha appena organizzato con centinaia di studenti una due-giorni “Inventare la pace” al Museo della Battaglia della sua Vittorio Veneto – non un luogo qualsiasi.
Perché (ancora Tucidide, 3.82; o Gino Strada?) “la guerra è un maestro violento, e rende conforme alle circostanze lo spirito della gente”: solo parlandone, parlandone, e demistificandone la retorica, si può provare a evitare che diventi anche – un verso di Giorgio Seferis, che riscrive l’Eschilo da cui siamo partiti – un “cambiavalute d’anime”.
Pubblicato su Il Fatto Quotidiano.
Filippomaria Pontani
Dipartimento di Studi Umanistici
Università Ca’ Foscari
Dorsoduro 3484/D
I – 30123 Venezia