I missionari gesuiti in Cina nel XVII-XVIII secolo e il confucianesimo
Per comprendere la genesi delle opere prodotte dai missionari gesuiti in Cina tra il XVII e il XVIII secolo, è necessaria un inquadramento storico. Fu per primo il gesuita padre Alessandro Valignano a teorizzare un modello d’inculturazione per raggiungere lo scopo di adattare i principi cristiani ala civiltà delle varie nazioni e a diffonderlo tra i missionari in Asia, con il suo Manuale per i missionari in Giappone. Uno dei suoi più celebri allievi, fu il gesuita Matteo Ricci. Nel 1582 Matteo Ricci giunse in Cina, stabilendosi a Pechino nel 1601, dove morì l l’11 maggio 1610. La sua importanza storica è molteplice. Fu il primo ad aprire un contatto significativo con il mondo istituzionale, sociale e politico della Cina nei tempi moderni. Inoltre va attribuito a lui il merito dell’attuazione di una strategia missionaria che, ben al di là dei suoi limitati successi di proselitismo, accese interessi e polemiche nelle quali presero posizione di fianco agli uomini della Chiesa, filosofi europei e imperatori della Cina. L’opera di Matteo Ricci è ricordata specialmente per un altro aspetto del suo apostolato e precisamente per il modo in cui impostò il problema della traduzione del cristianesimo all’interno della cultura cinese, noto soprattutto perché esso sfociò e si concluse nella lunga polemica conosciuta come «la questione dei Riti».
Questa polemica vedeva da una parte chi, come i missionari gesuiti, intendeva conciliare le due culture (cinese e cattolica), permettendo ai neo-convertiti di continuare a esercitare il culto dei morti secondo le modalità tradizionali della religione e cultura cinese, in quanto considerati delle pratiche civili per nulla in contrasto con la dottrina cattolica, e assistere seppur passivamente ai riti stagionali in onore del Cielo, che erano integrati nel sistema religioso confuciano; per una risposta affermativa si dichiararono successivamente Ricci e i Gesuiti, nonché i cinesi convertiti o aperti verso le nuove dottrine i quali asserivano che i «Riti» in questione avevano un significato puramente civile come testimonianza di pietà filiale. L’altra ala intransigente, ossia i francescani, i domenicani, i giansenisti e in ultima istanza il trono pontificio, riteneva invece che la partecipazione a tali riti fosse incompatibile con l’adesione al cattolicesimo, e voleva vietare ai cinesi convertiti queste pratiche, considerate espressione di un’altra religiosità, diversa e preesistente, e quindi in contrasto con il culto del Dio dei Cristiani.
Successori di Ricci furono Niccolò Longobardo, J.A. Schall e F. Vrerbiest, i quali entrarono in modo diverso nella storia della cultura cinese come portatori non solo di un messaggio religioso sostanzialmente nuovo, ma anche di un messaggio scientifico, soprattutto fisico-astronomico, aspetto che può apparire singolare in un periodo in cui la Chiesa era attestata su posizioni di condanna della nuova metodologia scientifica (l’abiura di Galileo è del 1633). In particolare Nicolò Longobardo a capo della missione, rivide la posizione del suo predecessore. Ciò però non bastò a evitare la polemica dei domenicani e dei francescani che nel 1645 ottennero da Innocenzo X il Decreto Parte Inaudita con la condanna dei gesuiti. Undici anni dopo i gesuiti ottennero da Alessandro VII una parziale soddisfazione, ma il domenicano spagnolo Morales che già aveva stimolato la decisione di Innocenzo X e il suo successore P. Navarrete ripresero la polemica anche se le persecuzioni, che nel frattempo ebbero luogo in Cina, resero meno attuale la questione. Nell’ultimo decennio del XVII secolo la situazione precipitò e nel 1704 Clemente XI approvò una decisione del Sant’Offizio che proibiva i «Riti». Nel 1715 Clemente XI condannò nuovamente i «Riti» con la Bolla Ex Illa Die, condanna ribadita da Benedetto XIV nel 1742, con la Bolla Ex Quo Singulari, circostanza che segnò definitivamente il destino del Cristianesimo in Cina, almeno per quanto riguardava la possibilità di proselitismo e di effettivo inserimento nella realtà cinese.
Il problema per i gesuiti non era soltanto quello di accogliere nei limiti del possibile, valori e simboli della tradizione locale, ma anche quello di scegliere all’interno di questa stessa tradizione. In pratica l’alternativa era tra buddhismo e confucianesimo. Il pensiero buddhista era strutturalmente contrario alle caratteristiche soteriologiche cristiane. Inoltre pur non avendo un carattere monolitico e centralizzato come la religione cattolica, aveva tuttavia anch’esso un’organizzazione chiesastica, le cui centrali controllavano l’ortodossia, che rifiutava qualunque interpretazione analogica o metaforica del patrimonio concettuale troppo difforme dalla tradizione. Inoltre in Cina il buddhismo attraversava una fase di involuzione ed era considerato con sufficienza e disprezzo dalla cultura mandarinale. Nacque da queste premesse ciò che fu chiamato «il Confucianesimo del P. Ricci».
Sappiamo che il Ricci intraprese la versione latina del corpus classico delle opere confuciane, ossia i Quattro libri, dalle sue lettere e dai riferimenti fatti a una traduzione indicata come Tetrabiblion sinense de moribus o Tessarabiblion. L’opera non ci è purtroppo pervenuta. Il testimone fu preso da Prospero Intorcetta, gesuita originario di Piazza Armerina, missionario in Cina nel 1660, con il nome di Yin Duoze. P. Intorcetta pubblicò nel 1662 il primo volume delle opere di Confucio con il titolo Sapientia sinica, la cui filosofia era fino ad allora ignota in Occidente. Nel 1669 pubblicò il secondo volume, Sinarum Scientia Politico-moralis, costituito dalla traduzione del secondo dei così detti Quattro Libri confuciani, ossia il Chung Yung (Chum Yum nella trascrizione dei Gesuiti) seguito da una vita di Confucio. La traduzione dell’opera confuciana, confluì poi nella stampa di Confucius Sinarum Philosophus sive Scientia sinenisis… Studio et opera Prosperi Intorcetta [et al.]. Parisiis: Apud Danielem Horthemels, 1687, considerato il frutto finale e più maturo del lavoro dei gesuiti nello studio del pensiero confuciano.
Un altro aspetto non secondario della cultura cinese, fu sicuramente quello delle arti figurative, che nei secoli XVII-XVIII attirarono l’attenzione costante dei Gesuiti in Europa come in Cina. Un giudizio ingiustamente negativo sull’arte cinese, risalente alla fine della dinastia Ming, è però quello di M. Ricci il quale scrive: «Essendo i Cinesi amicissimi della pintura non possono però arrivare ai nostri e molto manco alla statuaria et arte di fundere o getto, tutto anco di molto uso tra loro, si per varij archi e statue che fanno di huomini et animali di pietra, e di bronzo, come per i loro idoli e simulacri negli tempi con le campane, incensieri grandissimi che tengono avanti agli idoli et altre opre artificiose. E parmi che la causa di non esser loro eminenti in simili arti fu la puoca o nessuna comunicatione che hebbero con altre nationi dalle quali potessero essere agiutati; poiché nella destrezza delle mani e buon ingeno non cedono a nessuna natione. Non sanno pingere con olio né dar l’ombra alle cose che pingono, e così tutte le loro pinture sono smorte e senza nessuna vivezza. Nelle statue sono infelicissimi, e non so se habbino altra regola nelle proportioni e simmetria che dell’occhi, i quali, in cose grandi, si ingannano molto facilmente, e fanno pure figure grandissime di pietra come di bronzo».
Il Ricci, che aveva conosciuto la pittura dei grandi artisti europei, rimase certamente impressionato dalla mancanza della prospettiva nell’arte cinese. Golas a questo proposito mette in evidenza il ruolo svolto dal Ricci e dai missionari Gesuiti, che diedero una nuova visione del realismo pittorico, con l’uso del chiaroscuro. Uno scrittore della tarda dinastia Ming, Jiang Shaowen, commentando un ritratto di Dio e della Vergine Maria presentato all’imperatore da Ricci, scrive: «La caratteristica del volto e delle linee dell’abbigliamento danno la sensazione di guardare immagini di cose reali come in uno specchio, vividamente vivo. La dignità e l’eleganza delle figure sono oltre la capacità tecnica di riproduzione dei pittori cinesi». L’influsso dell’arte europea, ebbe però uno scarso impatto sull’arte cinese. Un importante contributo lo diede Giulio Aleni, gesuita bresciano vissuto in Cina dal 1611 fino alla morte avvenuta nel 1649, il quale si rese conto dell’importanza delle arti figurative, tanto che nel 1635 incise e stampò un Commento e immagini della Incarnazione del Signore del Cielo con 55 tavole illustrate e commentate, precedute da una mappa di Gerusalemme.
L’opera deriva da un modello preciso, costituito dall’opera postuma del gesuita spagnolo Jeronimo Nadal (1507-1580) Evangelicae historiae immagines, edita ad Anversa da Martin Nutius nel 1595, contenente 153 grandi incisioni dei fratelli Antonius, Johannes e Hieronimus Wierix, eseguite su disegni di Martin e Nicolas de Vos. Questo libro è il tentativo di adattare immagini occidentali al mondo orientale attraverso la modifica di figure umane, paesaggi, edifici e ornamenti, senza tuttavia raggiungere risultati veramente apprezzabili. Questo tipo di opera è riferibile ai modelli di Biblia pauperun diffusi in Europa nel XIII e XIV secolo.
Il fondo di opere cinesi della Biblioteca centrale della regione siciliana.
Con il decreto prodittatoriale 20 luglio 1860 Giuseppe Garibaldi sopprimeva le corporazioni dei Gesuiti e dei Liguorini e ne espropriava tutti i beni. La ricca biblioteca fu incamerata dall’allora Biblioteca reale, oggi Biblioteca centrale della regione siciliana. Tra questi libri si trovano cinque volumi, di cui sono tre in cinese e latino e due in latino ma stampati in Cina.
- Prospero Intorcetta. Sapientia sinica exponente. Ignatio a Costa lusitano Soc. Iesu a p. Prospeto Ontorcetta Siculo eiusd. Soc. Orbi proposita. Kién C’hām in urbe Sinarū Prouinciae Kiām Sī, 1662.
- Prospero Intorcetta. Sinarum Scientia Politico-moralis a p. Prsopero Intorcetta Siculo Societatis Iesu in lucem edita (Goae iterum, recognitum , ac in lucem editum die 1. Octobris 1669).
Quest’opera in due volumi è descritta da G. Pennino. Era ritenuto l’unico esemplare conosciuto insieme a quello conservato a Vienna, ma recenti ricerche hanno portato all’individuazione di un’altra copia nella Bibliothèque nationale de France e di un’altra nella Biblioteca Trivulziana di Milano. L’esemplare della Biblioteca Trivulziana è stato recentemente riprodotto con un’introduzione di Paolo Beonio-Brocchieri, e ristampato nel 2017. A proposito di questo secondo volume è stato fatto notare un piccolo errore in cui incorre l’Intorcetta, quando a p. 6 della sua introduzione spiega come l’ordine cinese si debba leggere dall’alto in basso e «a lava ad dextram» mentre è vero il contrario.
- Giulio Aleni. Commento e immagini della Incarnazione del Signore del Cielo. Jinjiang: Jingiiaotang, 1637.
Oltre queste tre opere, la biblioteca possiede altri due volumi, anch’essi stampati in Cina sulla caratteristica carta sottile cinese, ma scritte in latino. Si tratta di:
- Breuis relatio eorum, quae spectant ad declarationem Sinarum imperatoris Kam Hi circa caeli, Cumfucij, et autorum cultum, datam 1700. Accedunt primatum, doctisimorumque virorum et antiquissimae traditionis testimonia. Opera PP. Societ. Jesu Pekini pro euangelij propagatione laborantium. [Pekini, 29 julii 1701].
- Stumpf, Kilian (1655-1720). Informatio pro veritate contra iniquiorum famam sparsam per Sinas cum calumnia in PP. Soc. Iesu & detrimento missionis. Communicata missisonariis in imperio Sinensi. Anno 1717. [Pechino , ca. 1717].
Queste ultime due opere si collocano nell’ambito della disputa sui «Riti». In particolare questo secondo volume, edito a Pechino nel 1717, è citato dal Sommervogel, il quale annota che lo stesso fu inserito nell’Indice dei libri proibiti il 24 gennaio 1720.
Alcuni aspetti bibliografici del fondo cinese della Biblioteca centrale della regione siciliana
Questo piccolo gruppo di opere possiede alcune caratteristiche bibliografiche tipiche del libro cinese, molto differenti da quello occidentale. In particolare:
- Questi libri sono stampati con la tecnica xilografica. La stampa a caratteri mobili è stata inventata in Cina intorno al 1045, da Bi Sheng (ca. 990-1051). Dopo numerosi tentativi e perfezionamenti sviluppati nel corso dei secoli, la stampa a caratteri mobili fu però abbandonata, per le difficoltà che nascevano dal dovere utilizzare alcune migliaia di caratteri tipografici differenti. Fu così preferita la tecnica di stampa xilografica, anche questa inventata in Cina nel VII secolo d.C., circa sei secoli prima della sua introduzione in Europa. Matteo Ricci nella sua opera sulla Cina, dedica un’ampia descrizione alla stampa xilografica cinese. Fa eccezione il secondo volume dell’opera dell’Intorcetta, in cui la parte finale del volume dedicata alla vita di Confucio fu stampata con i caratteri mobili in latino a Goa, su carta indiana.
- La forma del libro. In Occidente siano abituati a considerare libro, un insieme di fogli piegati e inseriti uno dentro l’altro a costituire dei fascicoli cuciti tra loro, inseriti tra due piatti di cartone, ricoperti di pelle, pergamena o carta. Il libro cinese è invece totalmente differente con una storia diversa da quella del libro occidentale e del Vicino Oriente (arabo, persiano e turco). Infatti, durante la dinastia Song meridionale (1127-1279), dopo numerosi passaggi e trasformazioni, il libro assunse la forma del così detto libro a creste in cinese chiamato pao pei chuang e in inglese wrapped back. Questo era formato da un insieme di fogli piegati singolarmente in due e incollati non lungo il dorso, ma gli uni agli altri lungo i bordi laterali, in modo che la serie delle piegature venisse a coincidere con il taglio esterno del volume. I fogli erano poi inseriti in una coperta incollata sul dorso. Siccome era difficile la riparazione di questo tipo di legatura senza rovinare ulteriormente il libro, soggetto frequentemente a rottura, si decise di passare attraverso la spina un filo di seta o cotone, per rinforzare il dorso e finalmente, intorno al XVI o XVII secolo, la coperta incollata fu sostituita da una legatura cucita (hsien chuang) ottenendo così un libro cucito. Questo tipo di legatura rimase comune durante le dinastie Yuan (1279-1368) e Ming (1368-1644).
- La stampa è solo sulle facciate esterne dei fogli. In questa forma di libro erano stampate solo le due facciate esterne, lasciando bianche quelle interne, poiché la carta cinese, tradizionalmente molto sottile, non consentiva la stampa su ambedue le facciate come avveniva invece con la carta giapponese. A questo proposito va notato un fatto curioso relativamente agli esemplari conservati presso la Biblioteca centrale della regione siciliana. Questi mostrano tutti una rimozione della legatura originale e la loro sostituzione con una coperta di tipo occidentale in pergamena con il dorso incollato. Inoltre i vecchi bibliotecari, ignorando la struttura del libro cinese, in alcuni di questi volumi hanno tagliato lungo la piega dei fogli, come se si fosse trattato di un libro occidentale intonso con le pagine non aperte.
- La trascrizione del cinese. Un ultimo punto riguarda la trascrizione dei caratteri cinesi nell’opera dell’Intorcetta. Il primo a tentare una trascrizione dei caratteri cinesi in alfabeto latino fu Matteo Ricci, che nel 1605 pubblicò un opuscolo, andato perduto, che conteneva un testo in cinese con la trascrizione in caratteri alfabetici latini. Un successivo tentativo fu fatto nel 1626 dal gesuita francese Nicolas Truigault, il quale stampò un dizionario cinese con la trascrizione alfabetica in lettere latine della pronuncia dei caratteri; in realtà si trattava di una versione raffinata del sistema di M. Ricci. Nel 1662-1669 Prospero Intercetta pubblicò i due volumi della Sapientia sinica. Il testo era su due colonne: a sinistra la traduzione latina e a destra il testo in caratteri cinesi, con accanto a ogni segno la trascrizione in caratteri latini. A questo fecero seguito numerosi altri tentativi di trascrizione del cinese.
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Opere storiche di Matteo Ricci. Cura di P. Tacchi Venturi. Macerata: Premiato stab. tip. F. Giorgetti, 1911-13.
M. Ricci. Della entrata della Compagnia di Giesù e Christainità della Cina. Edizione realizzata sotto la
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P. J. Golas. Picturing Technology in China. From Earliest Times to the Nineteenth Century. Hong Kong:
Hong Kong University press, 2015, p. 140-143.
Ibid. pp. 140-141.
Aug. Et Aloys De Backer. Bibliotèque de la Compagnie de Jésus. Nouvelle édition par Carlo Sommervogel.
Bruxlles: O. Schepens; Paris: A Picard, 1890-1930, v. 1, col. 157-160.
Decreto prodittatoriale 17 giugno 1860: «Giuseppe Garibaldi, Comandante in capo delle forze Nazionali in Sicilia
Vista la legge del 2 agosto 1848;
Considerato che i Gesuiti e Liquorini sono stati nel triste periodo dell’occupazione borbonica i più validi
fautori del dispotismo;
In virtù dei poteri a lui conferiti;
Sulla proposta del Segretario di Stato dell’Interno;
Udito il Consiglio dei Segretari di Stato:
Decreta:
Art. 1. Le corporazioni di regolari esistenti in Sicilia sotto il vario nome di Compagnie o Case di Gesù e del
SS. Redentore sono sciolte. Gli individui che le componevano sono espulsi dal territorio dell’Italia. I loro beni
sono aggregati al Demanio delle Stato.
Art. 2. Il Segretario di Stato dell’Interno e della Sicurezza pubblica e quello delle Finanze sono incaricati,
anche con particolare regolamento della esecuzione del presente decreto.
G. Pennino. Catalogo ragionato dei libri di prima stampa e delle edizioni aldine e rare esistenti nella
Biblioteca nazionale di Palermo compilato dal sac. Antonio Pennino. Palermo: Tip. Lao, 1975-1880, v. 1, pp.
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P. Intorcetta. Confucio e il cristianesimo. Torino: V. Bona, 1972-1973. Rist.: Milano: Luni editore, 2017.
Tesori della biblioteca universitaria di Bologna. Codici libri rari e altre meraviglie. A cura di Biancastella Antonino.
Bologna: Bononia University Press, 170-171.
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