I peccati “mortali” del Generale Dalla Chiesa: “Anche Andreotti mi vuole in Sicilia” – Parte prima
Alle ore 21.00 circa, del 3 settembre 1982, veniva segnalata da un anonimo una sparatoria con feriti nella via Isidoro Carini di Palermo. Il personale intervenuto constatava che, all’interno di un’autovettura A112, si trovavano due cadaveri, crivellati da proiettili, ben presto identificati per quelli del Prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa e della giovane moglie Emanuela Setti Carraro. Quella sera il Prefetto, insieme alla moglie era diretto all’Hotel ristorante “La Torre” presso cui, telefonicamente, aveva preannunciato il suo arrivo al direttore, Salvatore Monforte. Dopo poche centinaia di metri, nella via Isidoro Carini, avveniva l’agguato di cui rimaneva vittima anche l’agente Domenico Russo che alla guida dell’Alfetta seguiva la A 112 guidata dalla moglie del Generale.
Secondo le testimonianze raccolte dagli inquirenti, il commando che eseguì l’eccidio era composto da almeno otto persone di cui due a bordo di ciascuno di due motocicli e due per ciascuna delle due autovetture poi trovate in fiamme.
Le indagini nel tentativo di individuare i moventi che del delitto, che per la verità sin dall’inizio, anche per le modalità di esecuzione, apparve di matrice mafiosa, esplorarono anche altre piste, come quella della vendetta terroristica, tenuto conto del pregresso impegno di Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo. Tale pista apparve subito improbabile dovendosi ritenere irreale una alleanza tra mafia ed eversione di sinistra. Così come inconsistente si rivelò un possibile collegamento con le indagini condotte dal Generale relative alla strage di Bologna o quelle riguardanti la scomparsa in Medio oriente dei giornalisti italiani Toni e De Paolo.
Un dato apparve subito certo e cioè che Dalla Chiesa aveva accettato quasi a malincuore la nomina a Prefetto di Palermo nutrendo forti dubbi sul consenso delle istituzioni alla sua futura attività antimafia. Ciò traspare in maniera evidente da quanto da lui annotato in una agenda del 1981, compilata fino alla data della sua destinazione a Palermo ed acquisita agli atti dell’indagine (un colloquio immaginario con la moglie scomparsa). Cosi annotava in tale agenda di essere consapevole di stare per divenire “strumento di una politica che fa acqua da tutte le parti”. Annotava sotto la data del 6 aprile “…poi ieri anche l’On. Andreotti mi ha chiesto di andare (in Sicilia n.d.r) e naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema. Sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori…” Ed ancora sotto la data del 7 aprile “….mi trovo ad essere richiesto di un compito davvero improbo e, perché no, anche pericoloso.
Promesse, garanzie, sostegni, sono tutte cose che lasciano e lasceranno il tempo che trovano…Mi sono trovato d’un tratto in…casa d’altri e in un ambiente che da un lato attende dal tuo Carlo i miracoli e dall’altro che va maledicendo la mia destinazione e il mio arrivo. Mi sono trovato cioè al centro di una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia ed una politica mafiosa, ma all’uso e allo sfruttamento del mio nome per tacitare l’irritazione dei partiti; ….pronti a buttarmi al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi, pronti a lasciarmi solo nelle responsabilità che indubbiamente deriveranno ed anche nei pericoli fisici che dovrò affrontare”.
Con riferimento alla richiesta di Andreotti di incontrare Dalla Chiesa, come annotato da quest’ultimo nel diario, il sottoscritto unitamente a Giovanni Falcone si recò a Roma per sentire sul punto Andreotti che allora ricopriva l’incarico di Ministro degli esteri. Andreotti escluse di avere chiesto al generale di incontrarlo, come risultava nel diario, ma che era stato lui a rendergli di propria iniziativa una visita. Negò anche che nel corso del colloquio che Dalla Chiesa gli avesse fatto il benché minimo accenno diretto o indiretto, ad esponenti politici della sua corrente compromessi con la mafia. Precisò: “D’altra parte avevamo lavorato assieme. Dalla Chiesa sapeva benissimo come la pensavo”.
Dalla Chiesa, ancor prima di assumere ed accettare l’incarico di Prefetto, aveva espressamente informato della sua volontà di recidere i legami tra la mafia e alcuni esponenti di partiti politici, il Ministro dell’interno, Virginio Rognoni e l’on. Andreotti e consapevole del fatto che i suoi poteri si sarebbero esauriti nella creazione, presso ogni Prefettura interessata dal fenomeno della mafia, di gruppi di investigatori alle dirette dipendenze del Prefetto, con esclusione del coordinamento che avrebbe dovuto essere svolto a livello centrale, aveva indirizzato una lettera al capo del Governo, on. Giovanni Spadolini, nella quale dopo avere affermato che la mafia era ormai un fenomeno nazionale, e non soltanto, evidenziava: “lungi dal volere stimolare leggi o poteri “eccezionali”, è necessario e onesto che chi è dedicato alla lotta di un “fenomeno” di tali dimensioni non solo abbia il conforto di una stampa non sempre autorizzata o credibile e talvolta estremamente sensibile a mutamenti di rotta, ma goda di un appoggio e di un ossigeno “dichiarato” e “codificato”. Sottolineato poi che avrebbe subito resistenze a livello locale da parte dei “palazzi”, pregava il capo del governo “di spendere il contributo più qualificato e convinto “perché l’iniziativa non abbia a togliere a questa nuova prestazione né la componente di un adesione serena né il crisma del sano entusiasmo di sempre”.
Malgrado le preoccupazioni espresse agli organi istituzionali e le pressioni affinchè l’incarico che gli si voleva conferire non fosse vuoto di contenuti ma gli consentisse un efficace contrasto alla mafia, Dalla Chiesa assunse l’incarico di Prefetto di Palermo senza precise attribuzioni antimafia. Il figlio di Dalla Chiesa, Fernando, sentito dal giudice istruttore, confermò il mancato conferimento al Prefetto dei poteri di coordinamento malgrado ciò avesse caldeggiato presso vari esponenti politici. Riferiva Fernando Dalla Chiesa :”Mi disse in particolare che fieri oppositori alla concessione di tali poteri erano gli andreottiani, i fanfaniani e parte della sinistra D.C.” Anche l’onorevole Macaluso, sentito dal giudice istruttore, riferì sulle resistenze che Dalla Chiesa incontrava in sede locale nello svolgimento del suo incarico, precisando che pochi giorni prima dell’assassinio era stato informato dall’On. Michelangelo Russo che nel corso di un incontro con Dalla Chiesa questi “gli aveva espresso il suo convincimento della mancanza di volontà politica, da parte del governo, di esaudire le sue richieste.
L’On. Salvo Lima dichiarava al giudice istruttore che la DC non aveva in alcun modo contribuito alla nomina di Carlo Alberto Dalla Chiesa a Prefetto di Palermo e che nemmeno durante la polemica relativa al conferimento dei poteri a Dalla Chiesa , la D.C. isolana aveva preso ufficialmente posizione, in un senso o nell’altro. Affermazione quanto meno strana se, come osserva Giovanni Falcone nell’ordinanza del maxiprocesso, si dovrebbero in questo caso ritenere non vere le affermazioni dell’on. D’Acquisto, dell’on. Nicoletti e del sindaco pro tempore di Palermo Martellucci, secondo cui gli stessi avrebbero dato a Dalla Chiesa un appoggio incondizionato.
In una intervista poi a Giorgio Bocca, pubblicata sul quotidiano “La Repubblica” del 10.08.1982, Dalla Chiesa cercò di sensibilizzare l’opinione pubblica per ottenere che il Governo lo ponesse in condizione di potere svolgere in maniera efficace l’attività di contrasto alla mafia. Sempre in tale intervista Dalla Chiesa accennava all’ambiente economico catanese e ad alcuni gruppi imprenditoriali interessati ad inserirsi nel palermitano con l’appoggio della mafia. Scrive in proposito Falcone nella motivazione dei 14 mandati di cattura emessi per l’omicidio Dalla Chiesa : “Non ci vuole molto a rendersi conto che l’opera del Prefetto Dalla Chiesa era guardata con vivissima apprensione da tutti coloro che temevano di essere implicati in indagini di mafia”.
Non è infatti senza significato, come si osserva nel suddetto mandato di cattura, che il banchetto con cui i mafiosi festeggiarono l’assassinio del Generale Dalla Chiesa si tenne, secondo quanto riferito da un testimone, nella Sicilia orientale, il che significa Catania e testimonia di una alleanza tra le cosche catanesi e quelle palermitane. Ed infatti uno dei destinatari del mandato di cattura era, insieme ai vari boss palermitani, Nitto Santapaola, boss di spicco della mafia catanese. A seguito di tale intervista, il Ministro dell’interno Rognoni in un discorso del 20 agosto 1982 riaffermava la stima e la fiducia del Governo nei confronti del Prefetto. Assicurazioni che dovettero apparire meramente formali se, proprio il 3 settembre 1982, prima di lasciare la Prefettura per andare incontro alla morte, Dalla Chiesa scrisse una lettera riservata indirizzata al Ministro dell’interno con cui richiedeva che venissero impartite chiare direttive affinché potesse effettivamente disporre delle forze dell’ordine poste a sua disposizione e venisse data concreta attuazione a quanto disposto dalla legge dell’aprile 1981.