Il consumo della carne nella Sicilia del Trecento
Nella Sicilia del Trecento la carne, al contrario di ciò che si possa pensare, è un genere alimentare ampiamente diffuso.
Il largo consumo di carne, alimento ad alto contenuto proteico, è testimoniato anche dalla presenza nella sola città di Palermo di sette macelli, uno per ogni quartiere, ai quali si aggiunge il macello degli ebrei: il macello della Galca e della Guilla (Cassaro), di Ballaro (Albergheria), di Fieravecchia (Kalsa), della marina (Porta Patitelli) e il macello Grande (Seralcadio).
A Palermo la gabella imposta sulla carne, nei macelli cristiani, è quella delle bucheria e grazie ad essa è possibile conoscere i tagli di carne maggiormente diffusi, ovvero maiale, castrato, capretto e vitello. I macelli degli ebrei, invece, sono tassati sotto una voce differente; infatti rientrano nella gabella del fumo.
Una consuetudine della città di Palermo (la n. 75) prevede che i cittadini possano vendere le carni dei propri animali, a pezzi o a peso, in piazza o davanti la propria casa, senza pagare nessuna tassa. Chi scuoia o vende animali nei macelli di Palermo, invece, deve pagare il diritto di mercatura.
Per quanto riguarda le tariffe non ci sono notizie precise anno per anno, ma si può notare un incremento nei prezzi della carne nel XIV secolo, periodo delle lotte fra le fazioni dei catalani e dei latini, le cui bande armate non solo si scontrano tra loro ma spesso compiono razzie su colture e bestiame.
Le attività legate alla produzione della carne e derivanti dai macelli sono fonte di guadagni fiscali importanti per Palermo; e solitamente si riscontra una coincidenza tra la scadenza dei contratti di macello e i periodi di astinenza in occasione di determinate feste cristiane.
Gli affari in questo campo sono controllati principalmente dai nobili, favoriti dalla possibilità di mantenere delle mandrie, e dai gabelloti.
A rifornire i macelli di Palermo di carne bovina, oltre alle mandre della città stessa, ci sono Corleone e, più raramente, Salemi e Polizzi; i suini, invece, provengono principalmente da Partinico, da Carini, qualche volta da Vicari e anche da Corleone. Gli ovini arrivano da Sciacca, Cammarata, Caltabellotta, Vallelonga, Pollina, Militello.
Una parte ingente del paesaggio agrario siciliano è destinato alla pastorizia, che costituisce una voce importante dell’economia isolana. L’allevamento infatti non contribuisce solo alla presenza di carne nei mercati, ma alimenta il commercio delle pelli, della lana e dei formaggi.
Insieme alla carne sulle tavole dei siciliani nel Trecento si trovano pasta, pane, verdure, latticini e frutta.
Si stima che la pasta venisse mangiata solo una volta al mese, mentre la carne venisse servita sulle tavole due volte al giorno con contorno di verdure, poi pane, formaggi e frutta fresca o secca. Durante i pasti, come bevanda, il vino è spesso preferito all’acqua, poiché quella prelevata dai pozzi rischia di essere inquinata e dunque non potabile.
La frutta consumata comprende mele, pere, sorbe, ciliegie, datteri, fichi, frutta secca, nocciole, noci, castagne, mandorle, pesche, melograni, arance, lumie e limoni. Tra le verdure invece si trovano aglio, cipolle, cetrioli, melanzane e legumi vari. Il venerdì e il sabato, per motivi religiosi, si mangiano il pesce o le uova al posto della carne.
Quindi una dieta alimentare abbastanza completa dal punto di vista nutrizionale, in cui il consumo di carne non è un’eccezione per la popolazione ma parte integrante dell’alimentazione quotidiana.
Bibliografia di riferimento
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