Il controllo delle frontiere e la visione dell’altro
La recente uscita del numero 147 della rivista Storia urbana, dal titolo “Epidemie, sanità e controllo dei confini” e curato da chi scrive, rappresenta il culmine di un lavoro biennale che ha impegnato gli autori, oltre allo stesso curatore, Renato Sansa, Danilo Pedemonte, Idamaria Fusco, Raffaella Salvemini, Dario Dell’Osa e Matteo Di Figlia in un serrato e continuo confronto, che ha avuto il momento più importante nel convegno La sanità nel Mediterraneo e nei Balcani: politiche, istituzioni, luoghi, pratiche (XVII-XIX secolo) svoltosi nel dicembre 2013 presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il gruppo di studiosi ha operato all’interno del FIRB 2012 Frontiere marittime nel Mediterraneo: quale permeabilità Scambi, controllo, respingimenti (XVI-XXI sec.), coordinato da Valentina Favarò.
Fondamentale per l’indirizzo del lavoro dei singoli è stata la constatazione che, fino all’inizio dell’età contemporanea, le istituzioni degli stati italiani competenti in materia sanitaria si occuparono ben poco di prevenzione e di profilassi, e solo nei momenti di emergenza, e si dedicarono invece molto a controllare confini e frontiere da pericoli, reali o immaginari, tali da sovvertire pesantemente l’ordine sociale. La tutela della frontiera era problema di massima importanza, soprattutto per quegli stati che avessero sbocco al mare o la cui frontiera fosse addirittura totalmente acquatica: il Mediterraneo, ancora per tutto il Settecento, era area a rischio di contagio, soprattutto per le molteplici relazioni con l’Impero Ottomano.
Delicato era il compito delle magistrature sanitarie: ogni disposizione finalizzata a disciplinare la vigilanza sulle innumerevoli materie legate alla sanità era capace di compromettere attività economiche e relazioni commerciali e pertanto tali istituzioni dovevano svolgere una concreta e complessa attività di mediazione politica.
Le magistrature sanitarie tutelavano in primo luogo le città e in particolare le capitali: non solo dovevano essere protette dalle epidemie ma non potevano subire, in conseguenza di misure di isolamento, riduzioni del flusso di approvvigionamenti alimentari.
Dall’attività di questo tipo di istituzioni emerge la visione del confine e dell’altro più diffusa durante l’età moderna e in particolare l’individuazione degli stranieri, dei poveri, degli ebrei, degli emarginati come pericolosi vettori del contagio.
La comparsa del colera svuotò di significato istituzioni e apparati volti alla tutela dai pericoli, come la peste, che provenivano dall’esterno; un rischio sanitario che aveva origini dentro i confini avrebbe avuto necessità di strutture e strumenti che non si limitassero a garantire l’impermeabilità di frontiere di vario livello.