Il «decennio inglese» 1806-1815 in Sicilia
Nel volume edito da Rubbettino il bilancio storiografico e le prospettive di ricerca di un periodo di grande fermento
Sicilia 1806-1815. Dieci anni che hanno inciso profondamente nella storia dell’isola e che non sono stati solo una parentesi tra il riformismo settecentesco e la Restaurazione ottocentesca dei Borbone, ma hanno avuto una lunga eco sia durante che dopo l’età del Risorgimento.
Di questo periodo – noto anche come «decennio inglese» per la presenza degli alleati inglesi che, tra il 1806 e il 1815, difendono l’isola borbonica da una temuta conquista napoleonica e tentano di riconquistare per i Borbone il regno di Napoli occupato dai francesi – intende offrire ora una rilettura il volume Il «decennio inglese» 1806-1815 in Sicilia. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, a cura di Michela D’Angelo, Rosario Lentini e Marcello Saija (Rubbettino, Soveria Mannelli 2020).
Come il convegno che si è tenuto nel dicembre 2018 presso la Fondazione Whitaker a Palermo, anche questo volume, che ne raccoglie gli atti, è articolato in quattro sessioni (Il Mediterraneo e il «decennio inglese» in Sicilia; La Sicilia nel «decennio inglese»; Inglesi in Sicilia nell’Ottocento; Il costituzionalismo inglese in Sicilia e il contesto europeo) che affrontano tematiche di ampio respiro su molti aspetti del «decennio inglese» e sulla sua rilevanza nella storia siciliana.
Caratterizzato dall’arrivo di tanti soldati e mercanti inglesi nell’isola nell’ambito dell’alleanza anglo-borbonica contro Napoleone, il «decennio inglese» ha contribuito sotto vari aspetti a modernizzare la realtà siciliana, a cominciare dalla sfera politico-istituzionale con il «laboratorio politico» in cui nasce nel 1812 la Costituzione siciliana ispirata al modello britannico.
Per arrivare alle attività economiche, commerciali e finanziarie che inseriscono la Sicilia nell’orbita inglese durante e dopo il blocco continentale napoleonico, senza trascurare le positive influenze e i proficui innesti che gli inglesi residenti nell’isola hanno in diversi settori della società, della vita culturale, dell’ambito religioso, degli interventi sanitari e delle strutture difensive sia in quel decennio che in quelli successivi.
Nei dieci anni che intercorrono tra il 15 febbraio 1806 (data dell’arrivo dei primi 7.500 militari inglesi nel porto di Messina) e il 7 ottobre 1815 (giorno della partenza dell’ultimo reggimento inglese dalla città dello Stretto) la Sicilia conosce, seppure per un breve periodo, una straordinaria modernizzazione con l’abolizione del secolare sistema feudale e una Costituzione ispirata ai principi del liberalismo e dal costituzionalismo britannico.
Con una fase di ripresa economica per l’arrivo e l’insediamento di molti mercanti inglesi alla ricerca di nuovi mercati dopo le restrizioni imposte dal blocco continentale al commercio inglese in Europa e con la formazione di «un piccolo mondo anglo-siciliano» che introduce nella società locale nuove idee e modelli culturali di stampo inglese.
Se la svolta politico-istituzionale del 1812 – ispirata in particolare da Lord William Bentinck e sostenuta da una parte della nobiltà siciliana – si conclude con l’avvento della Restaurazione per riaffiorare con i suoi percorsi carsici in altri periodi cruciali della storia dell’isola come le rivoluzioni del 1820-21 e del 1848-49, non così avverrà nella vita economica e sociale dell’isola. L’eredità del «decennio inglese», infatti, non solo si mantiene viva nel campo commerciale, finanziario e imprenditoriale, ma si accresce continuamente grazie alla lunga residenza dei tanti mercanti inglesi arrivati nel decennio 1806-1815 che decidono di restare nell’isola anche dopo la congiuntura napoleonica e che diventano sempre più numerosi almeno fino al primo ‘900 soprattutto a Messina, Palermo e Marsala.
Alcuni di questi mercanti-imprenditori danno vita a vere e proprie dinastie familiari che, nell’arco di più generazioni, talvolta insieme con la borghesia locale, avviano attività commerciali, imprenditoriali e finanziarie che costituiscono strutture portanti dell’economia siciliana tra ‘800 e ‘900. Il caso più noto, ma non l’unico, è quello di Benjamin Ingham che, arrivato in Sicilia all’inizio del «decennio inglese», crea un vero e proprio impero economico che sarà poi gestito per oltre un secolo dai suoi nipoti e pronipoti Whitaker, e che incide ad alti livelli non solo nella sfera economica, ma anche in quella sociale e culturale.
Rileggere questi anni, oggi, in una prospettiva di lungo periodo, significa anche rileggere luci ed ombre di un periodo fondamentale della storia isolana per cogliere i successivi nodi irrisolti, tra progressi e retaggi, della società siciliana tra la fine del feudalesimo di ancien régime e le aspirazioni a un sistema ispirato ai principi del liberalismo di matrice inglese. In una visione che, talvolta, trascende necessariamente e opportunamente i limiti cronologici del «decennio inglese», i contributi pubblicati in questo volume offrono un quadro variegato che consente di valutare meglio l’incidenza che quel breve periodo ha avuto nella storia dell’isola tra ‘800 e ‘900.
In un quadro d’insieme sulla realtà politica, economica e sociale della Sicilia tra il 1806 e il 1815, chi scrive mette in evidenza «the great importance of Sicily» che gli inglesi attribuiscono all’isola sia come frontiera contro l’espansione napoleonica nel Mediterraneo sia come risorsa economica alternativa nella guerra commerciale contro i francesi. Nello stesso tempo, la presenza di diplomatici, militari e mercanti inglesi nell’isola diventa fattore di modernizzazione nella sfera politica, nelle attività economiche e nella vita sociale, culturale, religiosa, ecc. (Il «decennio inglese» 1806-1815 in Sicilia tra politica, economia e società).
Ad ampliare lo sguardo dalla Sicilia verso Napoli e l’Italia settentrionale in età napoleonica contribuiscono i due saggi di Antonio De Francesco e di Renata De Lorenzo. Il primo delinea un raffronto tra l’isola sotto protezione inglese e l’Italia sotto dominazione francese mettendo in rilievo la controversa recezione nell’Italia napoleonica di quella «sfida politica» che gli inglesi lanciano dalla Sicilia con la Costituzione del 1812 ispirata al sistema politico britannico e, in particolare, con il «progetto italiano» di Lord William Bentinck nel 1814 (Sicilia inglese e Italia napoleonica).
La seconda, prendendo in esame anche le problematiche relazioni della corte borbonica con inglesi e francesi, propone un raffronto più ravvicinato tra le due diverse esperienze che i due regni di Ferdinando IV di Borbone, divisi tra il 1806 e il 1815 da «frontiere geofisiche, politiche e mentali», vivono con il «decennio inglese» nell’isola e il «decennio francese» nel Mezzogiorno continentale (Due «decenni» a confronto: Napoli e Sicilia (1806-1815).
L’interesse inglese verso il Mediterraneo è al centro di due contributi dedicati all’Italia meridionale e alle isole Ionie. Ai rapporti tra Gran Bretagna e Regno delle Due Sicilie nel lungo periodo dedica la sua attenzione John A. Davis che, dopo aver preso in considerazione le relazioni tra gli alleati anglo-borbonici nel «decennio inglese», ha proposto una rilettura delle tesi che attribuiscono alla Gran Bretagna un ruolo determinante nelle vicende interne del Regno delle Due Sicilie dalla Restaurazione al suo crollo nel 1860 (Britain and the Two Sicilies (1799-1860).
Analizzando la storiografia greca del ‘900 sulle isole Ionie nel periodo napoleonico, Gerassimos D. Pagratis mette in evidenza come le ricerche avviate in Grecia abbiano fino ad ora privilegiato il periodo relativo alla storia della Repubblica Settinsulare (1800-1807) piuttosto che quello dell’occupazione e del lungo protettorato inglese (1809-1864) che potrebbero aprire nuove e interessanti prospettive di ricerca (Le Isole Ionie nel periodo napoleonico: un bilancio storiografico).
Tornando alla Sicilia nel «decennio inglese», particolari aspetti dell’incidenza della presenza inglese nel contesto politico-culturale, economico e infrastrutturale dell’isola sono messi in luce da altri contributi più specifici. Marcello Saija ricorda la presenza massonica inglese nella società isolana attraverso alcune testimonianze sulle «numerose officine massoniche guidate da ufficiali delle armate britanniche» e sulla rete commerciale-massonica che tessono alcuni mercanti inglesi di Messina, Palermo e Marsala tra il 1806 e il 1815.
E, tra i segni di questa presenza, è segnalata, in particolare, l’epigrafe in cui sono incisi «squadra e compasso tra le colonne di Hiram» su una tomba eretta nel 1812 dai «Friends of the Masonic Society» nel Cimitero Inglese di Messina (Massoneria e «decennio inglese» in Sicilia).
Le attività commerciali e finanziarie che legano alcuni tra i più importanti e i più ricchi mercanti, imprenditori e banchieri inglesi residenti nella Sicilia occidentale sono oggetto delle ricerche d’archivio di Rosario Lentini che ricostruisce una «British Connection» attraverso le attività finanziarie (fino ad ora poco analizzate) che uniscono nel «decennio inglese» il mercante-banchiere Abraham Gibbs di Palermo, l’imprenditore John Woodhouse di Marsala e il mercante-imprenditore Benjamin Ingham di Palermo e Marsala.
Ne emerge una rete di connessioni tra commercio, impresa e finanza che è essenziale e vitale nel «tessuto connettivo commerciale della capitale siciliana» e non solo nel «decennio inglese» (Gibbs, i Woodhouse e Ingham: una British Connection in Sicilia).
Sulla scorta delle fonti archivistiche inglesi, Maria Teresa Di Paola considera un particolare aspetto del commercio siciliano alimentato dalla domanda di rifornimenti per la Royal Navy nel Mediterraneo durante l’età napoleonica. Se già prima del «decennio inglese» gli agenti del Victualling Board acquistavano nell’isola cibo e merci per la flotta britannica, a partire dal 1806 i rifornimenti per le truppe britanniche stazionanti in Sicilia aumentano notevolmente e coinvolgono, con il sistema degli appalti, sia i mercanti siciliani che quelli inglesi che vengono a risiedere a Messina e Palermo (La Sicilia nel sistema dei rifornimenti per le operazioni belliche britanniche).
Agli interventi infrastrutturali realizzati dagli inglesi tra il 1806 e il 1815 per fini militari, dedica la sua attenzione Massimo Lo Curzio. Da un’inedita documentazione cartografica conservata negli archivi inglesi emergono le innovazioni introdotte a Messina dai militari inglesi nel sistema delle preesistenti fortificazioni per la difesa dell’isola dai temuti attacchi francesi nello Stretto così come il rifacimento di strade e l’apertura di canali che, al di là della utilità militare, hanno ancora oggi positive ricadute per il territorio che ne conserva memoria anche nella denominazione di Torre degli Inglesi, di Canale degli Inglesi, ecc. (Territorio e fortificazioni: gli interventi inglesi in Sicilia 1806-1815).
Sulle presenza degli inglesi in Sicilia non solo nel decennio 1806-1815, ma per tutto il secolo e oltre si soffermano altri contributi. Sebastiano Angelo Granata ripercorre le vicende della ducea di Bronte concessa di Borbone a Nelson nel 1799 e poi gestita dai suoi eredi Bridport fino al 1981. Del periodo della gestione dei Bridport, oltre l’impulso dato alla modernizzazione del territorio con la promozione e il finanziamento della ferrovia circumetnea, si ricorda in particolare l’introduzione di nuovi metodi e tecniche di lavorazione della terra che alla fine dell’Ottocento culmina nella produzione del «vino del Duca» a lungo apprezzato anche in Inghilterra (Inglesi sotto il vulcano. La Ducea di Nelson).
Uno sguardo inglese al femminile sulla Sicilia è delineato da Alessia Facineroso che rivisita i testi di alcune inglesi residenti stabilmente o temporaneamente in Sicilia tra ‘800 e ‘900. Tra queste vi sono Mary Charlton, che nelle sue Letters from Sicily traccia un resoconto dei «political events» del 1848 siciliano; Jessie White Mario e Louise Hamilton Caico, che descrivono la dura realtà dell’area dello zolfo; Tina Whitaker Scalia, che con Sicily & England rivive le vicende risorgimentali della sua famiglia e di altri esuli politici a Londra dopo il 1848 (Iron Ladies. Donne inglesi in Sicilia fra XIX e XX secolo).
Sempre tra ‘800 e ‘900 Claudio Paterna, dopo aver ricordato gli interessi culturali e scientifici della famiglia Whitaker e, in particolare, quelli di Joseph Whitaker per l’archeologia con gli scavi nell’isola di Mozia, mette in rilievo i contributi dati in questo campo dagli architetti-archeologi William Harris e Samuel Angell e dal capitano-mecenate William Hardcastle nella Valle dei Templi; dal console-archeologo Robert Fagan a Piazza Armerina e Tindari così come dal suo collega-etruscologo George Dennis; dall’imprenditore James Stevenson nelle Isole Eolie e dall’archeologo Sir Arthur Evans a Gela (Inglesi in Sicilia nell’800 tra archeologia, arte e cultura).
La Costituzione siciliana del 1812-1815, che rappresenta il punto più alto della svolta politica ispirata dalla presenza inglese nel decennio, è analizzata non solo nel contesto isolano dalla sua genesi alla sua fine e nell’eco che ha avuto nei successivi momenti fondamentali della storia siciliana, ma anche in rapporto ad altre simili esperienze europee tra ‘700 e ‘800. Wanda Mastor ripercorre le esperienze della Corsica nel corso del ’700, dalla prima Costituzione del 1735, elaborata dalla Consulta di Orezza durante una rivolta contro i genovesi, alla «moderna» Costituzione di Calvi del 1755, ideata da Pasquale Paoli che enuncia per la prima volta il «diritto alla felicità».
E che sarà un modello per la successiva Costituzione emanata a Corte nel 1794 durante la breve occupazione inglese dell’isola che dà vita al Regno anglo-corso (Il modello corso di Pasquale Paoli. La Costituzione del 1755).
Dal raffronto di Werner Daum tra le carte costituzionali di due periferie europee, quella siciliana del 1812 e quella norvegese del 1814, emerge non solo il carattere più democratico di quella nordica, ma anche la maggiore valenza contrattuale con il potere monarchico dal momento che nel 1814, mentre la Costituzione siciliana si sta avviando verso il declino reso poi definitivo dalla formazione del Regno delle Due Sicilie, l’assemblea costituente di Eidsvoll impone al re di Svezia il giuramento sulla Costituzione norvegese come condizione per poter diventare anche re di Norvegia in una unione dinastica che durerà fino al 1905 (La costituzione siciliana del 1812 nel contesto regionale e nel quadro europeo: Sicilia e Norvegia in una prospettiva di storia costituzionale comparata).
Al centro di altri interventi incentrati sulla svolta politica attuata nel «decennio inglese» in Sicilia è la Costituzione del 1812. Daniela Novarese ne analizza alcune problematiche relative alla struttura e al contenuto «fra moderni principi e vecchie logiche» così come le nuove istituzioni politiche, le «originali tecniche di redazione» e l’esigenza di nuovi codici civili e penali e, in una prospettiva di nuove ricerche, propone di inserire la Costituzione del 1812, oltre che nel solco della tradizione siciliana, nel contesto europeo come anello di congiunzione tra vecchio e nuovo costituzionalismo (La Costituzione siciliana del 1812: caratteristiche del testo e contenuti).
Di Carlo Ricotti, alla cui memoria è dedicato il libro, viene proposto un contributo sulle cause della crisi finale della Costituzione del 1812. Studioso eminente del costituzionalismo britannico in particolare in Corsica, a Malta, in Sicilia e nelle Isole Ionie nel periodo rivoluzionario e napoleonico, Carlo Ricotti mette in luce convergenze e divergenze tra modello britannico ed esperienza siciliana, oltre a rivisitare il ruolo di Lord William Bentinck nell’avvio del nuovo sistema politico ed anche i suoi successivi tentativi di «rivitalizzazione» di fronte alle prime crisi costituzionali che porteranno al suo definitivo tramonto alla fine del «decennio inglese» (La crisi del «modello siciliano» e la sua fine).
Il «laboratorio costituzionale», che in Sicilia prende le mosse nel «decennio inglese» e si proietta sino alla metà del ‘900, è esplorato in un lungo excursus da Gaetano Armao. Il collegamento tra la Costituzione del 1812, la rivoluzione del 1820 e la rivoluzione e la Costituzione del 1848 «non è soltanto ideale, ma è anche giuridico, anche se non mancano chiari segni di discontinuità» e, oltre l’ipotesi di autonomia regionale non attuata nel 1860, arriva fino allo Statuto autonomistico della Regione siciliana del 1946 che «affonda le proprie radici nella storia siciliana e nella sua condizione di Isola europea al centro del Mediterraneo» (I valori costituzionali in Sicilia: 1812, 1848, 1946).
Infine, una rassegna delle principali pubblicazioni dedicate in due secoli al «decennio inglese» è tracciata da chi scrive a partire dalle opere dei protagonisti e testimoni di quel periodo come Aceto, Balsamo, Palmieri e Paternò Castello fino ai libri basati su ricerche d’archivio come quelli di Giuseppe Bianco (La Sicilia durante l’occupazione inglese, 1902), John Rosselli (Lord William Bentinck and the British Occupation of Sicily, 1956) e Diletta D’Andrea (Nel «decennio inglese», 2008) e alle più recenti ricerche sulla storia economica e sociale del decennio 1806-1815 che integrano la consistente produzione storiografica relativa alla storia politica (Il Decennio inglese in Sicilia tra storia e storiografia).
Del «decennio inglese», considerato sotto vari aspetti, tutto il volume nel suo insieme e nei singoli contributi tende a dare una prospettiva unitaria sulla storiografia esistente, sulle ricerche in corso e sulle possibili indicazioni per future ricerche.