Il gnaro, la siesa e i bisnenti – L’emigrazione veneta in Brasile secondo Paolo Malaguti
Posted On 8 Agosto 2023
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In memoria di Alfredo Curti, “Dedo”
Come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato?
John Steinbeck, Furore, 1939
Nella storia, non certo finita, dell’emigrazione italiana post-, ma anche pre-unitaria, vi sono capitoli di straordinaria importanza non solo per il contesto italiano. Uno di questi è quello dell’emigrazione italiana, ma soprattutto veneta, in Brasile. Il nucleo “italiano” ha dato vita ad una lingua, ma più in generale, una cultura (e forse si potrebbe azzardare, una civiltà), quella del “talian”, veneto-brasiliana, con una lingua appunto (spiace, davvero, chiamarla “dialetto”, secondo i linguisti libertari i dialetti sono quelle lingue che non hanno né un esercito né una marina), pervicacemente “veneta”, tanto è vero che accreditati linguisti, non ostante le presenze di portoghese e lingue non venete, si sono rifiutati di definirla “lingua creola”. La struttura portante è quella veneta.
Si tratta di una pianta veneta, anzi forse tri-veneta e lombarda, fiorita, a più esotiche latitudini, fino a dare fiori e frutti attualmente coltivati, e gustati, da almeno mezzo milione di persone, il 10% degli abitanti del Veneto attuale. Soprattutto negli stati federali del Rio Grande do Sul e Santa Catarina. Non solo la lingua: innumerevoli sono qui le tracce, e presenze ben vive, della cultura veneta, assai ben percepibili.
Si pensi solo al merletto a fuselli, di Pellestrina e Burano. La prima scuola di merletto, aperta nel 1874, venne inaugurata mentre cominciavano proprio le migrazioni di massa di cui qui si parla.
Nella mia storia personale, l’incontro col Brasile risale agli anni liceali, presso il D’Oria, a Genova quando il mio compagno di classe, Umberto Curti – ora studioso di vaglia di enogastronomia e cucine liguri – ci narrava dei viaggi avventurosi del padre, Alfredo, alla scoperta del Mato Grosso, che non è un “pazzo particolarmente robusto” come credevano a ragione i veneti emigrati nel tardo Ottocento, ma la grandiosa foresta amazzonica, ancora in gran parte inesplorata fino a metà del Novecento (e forse in parte anche non minima, incognita tutt’ora). Alfredo Curti fu anche co-autore di uno splendido, ma poco noto documentario, “I misteri del Mato Grosso”, del 1953, basato su un libro di memorie a quanto so ancora inedito (grazie al figlio Umberto potei leggerlo, e goderne la bellezza descrittiva, e lo spirito autenticamente libero che lo animava). Umberto, invece, scrisse la propria tesi di laurea, a Genova, sotto la direzione di uno dei maggiori storici delle esplorazioni geografiche italiani, Francesco Surdich, sul contributo dei salesiani alla scoperta e colonizzazione del Mato grosso, lavoro che credo anch’esso inedito. Ma non solo i Curti. L’ora collega Alessandro Morini (giurista presso l’Università di Bergamo) ci portava “cachaca” originalissima e squisita da quel Brasile ove la sua famiglia aveva ancora interessi economici. Insomma il Brasile e i suoi “italiani”, non necessariamente tutti veneti, erano ancor ben viva e suggestiva presenza nella Genova degli anni Settanta e Ottanta del secolo passato.
Singolare, che uno scrittore classe 1978, che non ha vissuto direttamente l’emigrazione veneta in Brasile, vi abbia dedicato uno squisito romanzo, Piero fa l’America (Einaudi, 2023). Si tratta della storia di una famiglia che fugge la miseria del Montello e dei luoghi circostanti, una delle tradizionali legnaie della Serenissima, per imbarcarsi nell’avventura brasiliana. Una singolare, quasi naturale compresenza di veneto e italiano lascia poi lo spazio all’incursione del portoghese, in una serie di vicende personali, familiari e collettive che in ogni modo immerse
nella tragedia, trovano un riscatto in un colpo di fortuna, che prelude al ritorno di un ricco e maturo Piero, partito in miseria nera e ragazzino, nelle sue terre natie.
Ove addirittura acquista quella Villa Pisani che era, per la loro famiglia senza terra (la poco terra su cui vivevano era proprio degli inarrivabili signori d’Antico Regime con cotale colendissimo nome), era simbolo di ogni felicità e ricchezza. La letteratura sulla migrazione può essere ripetitiva e noiosa, ma anche piena di intuizioni e aperture, godibile non ostante la gravità del tema, tanto è grave poi per migliaia di famiglie tuttora il peso della memoria: la partenza con ben poche speranze di tornare; l’odissea dello spostamento in Italia, dal Veneto ad una Genova qui descritta con toni impietosi (davvero era così greve e infernale l’alloggio per i migranti in attesa di imbarco, nei fetidi caruggi di Prè?), il viaggio “in terza classe” con contorno di morti improvvise a bordo, l’arrivo straniante in terre desolate, letteralmente da edificare, inurbare, addirittura popolare. In mezzo a “mati” che non sono pazzi ma foreste; “bissi” che non sono bisce ma insettini letali, tra “bulgari”, “bugre”, che non solo slavi ma indigeni più o meno “cattivi”, ma soprattutto vittime semi-indifese dell’avanzamento della “civiltà” latina, fatti a pezzi da “bugreiros” spietati killer al soldo delle comunità.
Cadono gli alberi, cadono le teste degli indigeni, avanza l’Uomo Bianco e di questa avanzata anche la piccola, povera, lacerata famiglia dei Gevori, soprannome che sta per “conigli”, per la frequenza dei parti (ma poi la sterilità colpirà proprio Piero, togliendogli la gioia ultima di una discendenza, gioia forse per lui assai più grande rispetto a quella della ricchezza, ora raggiunta). La foresta recede, il ventre della terra viene scavato in modo sistematico e impietoso, la natura addomesticata, anche se ogni tanto si ribella. Ambienti millenari per sempre stravolti.
Molte sono le chiavi di lettura di questo libro.
Sono sicuro che i cultori delle “Environmental Humanities” – tra i più noti gli italiani Serenella Iovino e Marco Armiero, entrambi attivi all’estero – vi troveranno elementi di interesse. Soprattutto il confronto tra la natura addomesticata da millenni del Montello, e quella del mato brasiliano, tutta da domare (e per questo ancora fertile, ancora portatrice di ricchezza?). Vi è poi un fil rouge, davvero rosso sangue, legato al “gnaro”, al nido (variante veneto-centrale del più comune “nio”, veneziano). Piero e il fratello vanno a caccia di merli nella “siesa” – così si apre la narrazione –, siepe o cespuglio, per avere un po’ di proteine da aggiungere alla polenta, uccidendo i piccoli di merlo con le mani, ed ecco la “polenta e osei” così nota. Singolarmente, la parola “gnaro” significa (anche in lombardo) non solo nido, ma ragazzo. Meravigliosa la vicenda delle etimologie. Così inizia dunque il romanzo, sotto un velame di tetra malinconia, poco attutita dalla dolcezza delle colline e delle piane. I Gevori sono “bisnenti”, hanno meno di niente, due volte niente che neppur in sofistica logica fa “qualcosa”. La mattanza di merli nel nido diviene mattanza di uomini, e sempre in un nido, ma umano, in una spedizione punitiva contro i “bugre”, che non sono i bulgari, ma sono gli indigeni (la tribù più nota è quella, tuttora esistente in qualche migliaia di individui, dei Xochenglues), la cui capacità di difesa non è poi molto superiore a quella dei piccoli di merlo del Montello.
Come narra in un testo ben noto lo storico Sílvio Coelho dos Santos: “Si prendono infinite precauzioni, poiché è necessario sorprendere gli indios nelle loro capanne quando dormono. Non si portano cani per questo compito. Si seguono le tracce degli indiani, scoprono le capanne e, senza parlare né fumare, aspettano il momento giusto. È quando il giorno sta per spuntare che attaccano. La prima precauzione è tagliare le corde dell’arco. Quindi praticano il massacro. Gli indios, svegliati da colpi di fucile e machete, non tentano nemmeno di difendersi, e gli atti eroici degli
assalitori consistono semplicemente nel tagliare la carne indifesa di uomini intimoriti dalla sorpresa”. Di questo autore si veda, tra l’altro, Gli indiani Xokleng: memoria visiva. (Florianópolis, UFSC, 1997).
Tra i brugheiros anche una figura quasi leggendaria, quel Martin Brugheiro, nato nel 1876, dunque al momento dell’arrivo dei nostri veneti, o poco prima, che partecipò alla rivolta, la cosiddetta “rivoluzione costituzionale”, dello Stato di San Paolo contro il governo centrale, nel 1932 (due interessanti questioni storiografiche al proposito: qual fu la partecipazione dei veneti emigrati ormai di seconda generazione, ma molti anche di prima, al conflitto? E poi: vi fu o non vi fu un tentativo di separazione dello stato di San Paulo dalla Federazione?) Ebbene per due volte il “bisnente” uccide: Non bis in idem si dice ed invece dopo i merli gli uomini, anzi, una donna, paradossalmente, poiché il giovane Piero era divorato dal desiderio. E non poteva essere altrimenti. La natura si vendicherà. Sottilmente, ma crudelmente.
Sono mirabili le descrizioni che Malaguti fa della fauna e flora locale, del giaguaro, dei “bissi”, dei guaritori, dei minatori, degli altri emigrati, e della nascita della città dal niente, delle notti insonni per il basso continuo della foresta equatoriale, costante come nella ciaccona. Il cerchio si chiude col ritorno malinconicamente trionfale, o trionfalmente malinconico, del Piero ormai avviato alla vecchiaia nella terra da cui per la più persa miseria era dovuto fuggire, senza poter rivedere neppur la mamma morta, da vera coniglia, al momento del parto (insieme al bambino, un fratello che non potrà mai stringere tra le braccia, come aveva fatto per gli altri due fratelli, Nina e Tonìn), dopo aver esperito tanto durezza, compresa quella del padre che sposa la fanciulla, Caterina, di cui il giovane Piero
era innamorato.
Ora, se i poveri, miserrimi Gevori insieme a centinaia di migliaia di altri “talian” rendono grande, con la forza delle loro braccia, la costanza mirabile, e qualche geniale intuizione, il Brasile, occorre, se mai, indagare i motivi dell’impoverimento improvviso del Montello e del Veneto centrale (ma in realtà di tutto il Veneto agrario, si pensi alle cronache coeve di Adolfo Rossi su Rovigo e il rovigotto), dopo l’annessione al Regno d’Italia, nel 1866, ma forse anche prima, durante il periodo asburgico, e potremmo scendere agli ultimi decenni della Serenissima (forse). Un tema ora finalmente caro allo storiografia, che studia il modo in cui l’eliminazione delle terre comuni e delle vecchie tradizioni di diritto di proprietà e uso della Serenissima, soprattutto (ma non solo) per le zone boschive, abbia prodotto una rivoluzione negativa. Forse dal tempo in cui tali politiche, di origine settecentesca, furono applicate ad esempio dai Savoia nel 1847, con l’Unione Perfetta del Piemonte alla Sardegna, che tutto fu fuorché perfetta, né per ideazione né, meno che meno, per realizzazione ed effetti ultimi. La fine dei “commons” è finalmente tema entrato nella storiografia italiana (anche se già nel Dopoguerra vi fu chi lo trattò), e ora un ottimo libro di giovane storico veneto, lo tratta per quel che riguarda il Cadore. Si tratta di Giacomo Bonan (1987), e il libro si intitola The State in the Forest. Contested Commons in the Nineteenth Century Venetian Alps (2019).
Si inserisce certo nel contesto, e questo vien detto subito, delle “Enviromental Humanities”, anche se la storia sociale si è da sempre posta la questione, a partire dal Marc Bloch citato qui: “In much of Europe, this process should be placed within the context of the comprehensive socio-economic change that transformed the continent between the eighteenth and nineteenth centuries and one of whose features was the drive towards agrarian individualism. The development of agrarian individualism, at the expense of more open and hybrid forms of land tenure…” E tuttavia erano proprio quelle forme “ibride” di possesso, uso, “diritto” sulle terre, che avevano garantito la stabilità dei boschi ma in generale dell’agricoltura per molti secoli, soprattutto sul suolo della Serenissima. Insomma, siamo nel quadro delle ricerche che in ambito giuridico ha portato avanti quel sommo Maestro che vorrei qui ricordare, Paolo Grossi, morto a 89 anni nel luglio 2022, docente per quaranta anni a Firenze, autore di Un altro modo di possedere, splendida introduzione al tema.
La brutalità dell’introduzione dei demani e della frammentazione forzata della proprietà con l’ingresso dei Savoia nel Veneto è all’origine dello sconvolgimento degli assetti agrari anche nella zona dei Gevori. L’estensione dell’ordinamento sabaudo, centralistico e poco attento alle tradizioni – immense, radicate, e dai molteplici significati – dei diritti locali, fu fomite di sciagure, come ben s’avvide un altro Maestro, Gianfranco Miglio. “Ad un gigante – l’Italia unificata – l’abito di un nano – il Regno di Sardegna”. Far indossare quell’abito alla Sardegna ne costò la miseria, forse fino ad ora. Così disse Miglio.
Per questo, inevitabilmente, il romanzo di Malaguti fa riflettere su questioni politiche pressanti, e non mai sepolte. Certo, ora il Veneto è cambiato, anche nei suoi assetti e nelle sue produzioni agrarie, inclusa la legna e i boschi, resilienti perfino ai downburst recentissimi, tristi nunzi, forse, di futuri danni maggiori. “La siesa del merlo” è perfino divenuto nome di un vino di alto prestigio, un rosso dal vitigno che porta il bel nome evocativo di “pavana”. Forse un modo, un altro, per esorcizzare la povertà degli infiniti Piero che nelle “siese” andavano per l’appunto a far strage di “oxeleti”, invece, magari, di ascoltarne solo e soavemente il bel canto (come racconta tra l’altro un incantevole volgarizzamento veneto della Navigatio di San Brandano, studiato ed edito da Beatrice Barbiellini Amidei: “E li oxeleti che de iera sí chantava molto soavementre, e iera tanto beli ch’elo no è omo alo mundo ch’elo podese dire…” (Carte Romanze, 2/2, 2014).
Il romanzo si conclude con il suggerimento/ordine di Piero tornato dopo aver “fatto fortuna”, oltre ad aver “fatto la Merica”, a chi si occuperà della Villa Pisani, ora di sua proprietà: “Pianté alberi alti. Che ghe staga tanti nidi”.
Alti abbastanza onde nessuno li possa violare, nessuno possa uccidere ancora – per un motivo o per altro, ma sempre per sopravvivere – creature innocenti e indifese.