Il saper vivere come vera sapienza: attualità di Baltasar Gracián – Prima Parte
Oraculo manual
Vita altalenante, umore malinconico, personalità in chiaroscuro, Baltasar Gracián, soprattutto con Oraculo manual y arte de prudencia, parla ancora con straordinaria attualità ed efficacia a noi contemporanei.
Il 1647, anno della pubblicazione dell’opera, rappresenta una congiuntura particolarmente delicata per Filippo IV e il sistema imperiale spagnolo[1]. L’ultima fase della Guerra dei Trent’anni vede fortemente appannata la capacità militare asburgica dopo le sconfitte dei primi anni Quaranta contro i francesi. Le rivolte hanno colpito il cuore del sistema con la lunga crisi della Catalogna e i moti in Sicilia e a Napoli. A conclusione della lunga e sanguinosa guerra nei Paesi Bassi, dispendiosa per le finanze spagnole e per il bilancio statale perennemente in deficit, Filippo IV è costretto a concludere nel gennaio del 1648 la pace separata con l’Olanda, preludio al riconoscimento della sua indipendenza a Vestfalia nel gennaio 1648. In politica interna, alla trasformazione della pratica di governo, prodotta dal valimiento, succede un nuovo ciclo, caratterizzato da un ridimensionamento dei poteri del nuovo valido, Luis de Haro, dall’assunzione di un maggiore protagonismo del sovrano, inedito rispetto agli anni precedenti, e dalla restaurazione del peso e del ruolo del sistema consiliare.
Al protagonismo di Filippo IV, teso a regnare e governare con minori mediazioni e maggiore incisività, corrisponde, tuttavia, il riflusso, il ripiegamento psicologico del sovrano quale emerge soprattutto dalla corrispondenza con la sua consigliera politica, oltre che religiosa, suor Maria de Agreda. Il sovrano malinconico è così metafora della malinconia dell’impero europeo della Spagna sul viale del tramonto.
Anche per Baltasar Gracián Oraculo manual rispecchia i caratteri di una seconda fase nella sua biografia. Direttore spirituale sul campo di Lerida, Gracián “critico patriota spagnolo”[2], col senso di appartenenza insieme aragonese e spagnolo, nel 1646 inizia il suo soggiorno a Huesca, dove insegna teologia morale fino al 1650 e pubblica El discreto con dedica a Baltasar Carlos, figlio di Filippo IV[3].
Oráculo manual prende atto del nuovo ciclo politico della Spagna imperiale e intende stabilizzare l’equilibrio che si è venuto a creare fra il sovrano e le funzioni del terzo valido, Luis de Haro, dopo il Lerma e l’Olivares, del quale Gracián ha vissuto da vicino gli anni del crepuscolo e della fine politica.
Ma, al di là di questa doverosa storicizzazione, l’opera si colloca ad un livello che ne oltrepassa i confini. Gracián è un moralista “pratico”, non “puro”, come ha scritto Giovanni Macchia: “Il moralista non si applica, con furore simmetrico, alla costruzione di un mondo di pensiero: si limita a notare la contraddittorietà dell’esistere, le luci e le ombre di tutto ciò che ha sotto gli occhi”[4]. Oráculo manual come la pittura del Seicento è un gioco di ombre, segnato dal fosco pessimismo gesuitico: vi è concepito come l’arena in cui si disputa “una lotta crudele di uomini mascherati”[5].
Il titolo originale dell’opera è Oráculo manual y arte de prudencia: quattro, dunque, le parole-chiave del titolo. Approfondiamone distintamente il significato, confrontando la sua contestualizzazione nella cultura barocca con profili semantici che vanno oltre i suoi confini.
“Oracolo” è forma di divinazione su cose ignote del passato, del presente, del futuro, ma anche giusta maniera di agire, quel “governarsi secondo le congiunture”, per riprendere Richelieu e lo spirito barocco.
“Manuale” ha a che fare con la precettistica e rinvia a Epitteto, anche se questo autore è poco citato citato da Gracián. La genesi del termine è nella parola greca encheiridion: in senso letterale, oggetto che si tiene in mano, maneggevole, di qui la sua estensione al libro di facile consultazione sia per il formato, sia per la struttura, sia per i contenuti. Una semantica più tardiva assume il termine anche come impugnatura, utensile. Ed è esattamente in tale pluralità di sensi, riassumibili nel maneggevole oggetto d’uso, che utilizza Gracián “manuale”, sulla scia di Epitteto, il cui discepolo, Arriano di Nicomedia, ne ha trascritto le Diatribe, i Frammenti, il Manuale (Encheiridion). Espressione della nuova Stoà, Epitteto, vissuto fra il 50 e il 130 circa d.C., rielabora, accentuandone la dimensione pratica, gli insegnamenti dello Stoicismo classico. Da tale punto di vista egli svolge la stessa funzione che, molti secoli dopo, svolgerà Gracián: come quelli di Epitteto sono precetti per il raggiungimento della felicità, così le massime di Gracián intendono suggerire, non solo all’uomo di Corte, ma a tutti coloro che operano in società, un “modus vivendi” nella difficile epoca oscillante fra il “secolo di ferro” e il “siglo de oro” e, forse, in tutti i periodi complicati, caratterizzati da accentuata conflittualità e da un generale riassestamento dei comportamenti della condotta di vita in comunità umane. E’ sorprendente, ad esempio, l’analogia fra l’indice delle Diatribe e, come vedremo, i titoli degli aforismi di Gracián. Epitteto, attraverso il suo discepolo, tratta “di quel che dipende da noi e di quel che non dipende da noi”, della salvaguardia della personalità in ogni occasione, della necessità di non irritarsi negli sbagli, dell’esercizio su se stessi, del comportamento in circostanze differenti, della fermezza, dell’equilibrio fra coraggio e prudenza, dell’indifferenza, dell’ansietà, dell’atarassia, dell’amicizia, del come trar vantaggio da ogni cosa esterna[6]. Nella lettera di Arriano a Lucio Gellio è ribadito il carattere di immediatezza delle Diatribe: “Per me certo – egli scrive – non ha importanza se apparirò un redattore incapace, per Epitteto, poi, ancora meno, se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio. Giacché si vedeva chiaramente che egli, anche parlando, nient’altro cercava se non di eccitare al meglio lo spirito degli ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero queste lezioni, otterrebbero, io penso, quel che devono ottenere le lezioni dei filosofi”[7].
Oltre i punti comuni la differenza fondamentale fra Epitteto e Gracián sta nel fatto che per il primo il mondo esterno è ininfluente – il modello è Diogene, il “vero cinico” – ; per il secondo il mondo esterno e il vivere in società costituiscono i parametri fondamentali di riferimento per i comportamenti umani. Non a caso la fonte Epitteto in Gracián è integrata con gli insegnamenti di Cicerone, Seneca, Giovenale, Orazio.
Così la disciplina come equilibrio fra i condizionamenti del mondo esterno e la vigilanza sui comportamenti soggettivi, risultato di un sistematico controllo sulla propria condotta, può costituire il termine medio fra oracolo e manuale come trattazione sistematica di una determinata disciplina. In questo senso l’opera di Gracián si può iscrivere nella manualistica che vede, tra Cinque e Seicento, la sua epoca d’oro di sviluppo e di trasformazione delle virtù da “native” in “dative”, “acquisitive”, risultato cioè di pratica, applicazione specifica di valori, tecniche e norme adatte allo svolgimento di una determinata professione. Le stratificazioni sociali e professionali, le gerarchie della “società di ordini”, la sua complessa articolazione inducono a formalizzare valori, virtù, comportamenti che si richiedono all’uomo di mondo.
Nel 1574 vede la luce la prima edizione de La civil conversazione di Stefano Guazzo[8]. Sotto il segno della grazia e del garbo, attraverso una summa di detti gradevoli, l’autore mette al centro del suo dialogo, che vede come interlocutori un cavaliere e un medico, due esponenti cioè della nobiltà e delle professioni in ascesa, la conversazione come forma ideale di una società. Molteplici sono, come è stato notato[9], le ragioni del successo dell’opera: la familiarità e la piacevolezza, il largo uso di proverbi, favole ed exempla, lo schieramento permanente dell’autore dalla parte del lettore, il “commune” e il giusto mezzo come ideali, il “civile” come qualità dell’anima, il primato della parola e della “viva voce”. Un rigoroso gioco di scale ascendenti e discendenti è dunque quello suggerito da Guazzo alla ricerca del senso comune, per il conseguimento del giusto mezzo come condotta di vita: e la “civil conversazione” costituisce la terapia d’urto, per così dire, per non cadere nella malinconia asociale, foriera di danni individuali e collettivi. Si tratta di un percorso che a monte guarda ad Erasmo e a valle ormai annuncia Robert Burton, l’autore di The Anathomy of Melancholy. In Stefano Guazzo la condanna della solitudine nel primo libro è il fondamento che regge tutta l’impalcatura dell’opera: la malinconica solitudine deve essere evitata perché sono le consuetudini, che si apprendono frequentando la maggioranza degli uomini civili, a stabilire ciò che è buono e giusto. Il valore della medietas si apprezza solo nell’apparenza. E il successo de La civil conversazione, che ebbe 43 edizioni italiane nel XVII secolo, traduzioni francesi, tedesche e inglesi, esercitò influenza notevole su Montaigne[10]. E’ l’altra faccia del moderno: l’esteriorità della “civiltà delle buone maniere” che deve convivere con la solitudine interiore del dotto.
Quello di Guazzo è il manuale per eccellenza del ben vivere in società. Ed è contemporaneo alla fortuna della trattatistica sulla nobiltà e sulle professioni “civili”, come quelle di magistrati, avvocati, segretari. La letteratura sul “secretario” è dissusissima tra XVI e XVII secolo. Il secretario di Torquato Tasso è del 1587: obiettivo del poeta è associare la figura professionale a quella del gentiluomo. Due anni dopo è la volta del napoletano Giulio Cesare Capaccio, nel 1594 di Battista Guarini. Nel 1604 Tommaso Costo pubblica il Discorso pratico fatto ad un suo nipote intorno ad alcune facoltà che debba aver un buon secretarlo: le “qualità” sono le virtù dative della sobrietà, compostezza, temperanza[11]. Opere successive sulla stessa figura sono di Vincenzo Gramigna (1620), Panfilo Persico dello stesso anno, Emanuele Tesauro, L’arte delle lettere missive (1674, la raccolta in volume delle lettere di Michele Benvenga col titolo Proteo segretario(1689), Proteo perché il segretario si deve vestire dei caratteri del padrone senza “spogliarlo”[12]. In sostanza nei manuali di comportamento la figura subisce un’evoluzione dal “secretario” idealizzato come gentiluomo alle virtù pratiche di Capaccio e Costo al segretario-Proteo.
Ma sono anche gli sviluppi di attività professionali diverse a sollecitare la formalizzazione, attraverso un’agile precettistica, di norme e regole pratiche per l’esercizio della professione. Si pensi alla diffusione delle arti paramediche, border line tra farmacia e “decoratoria” fisica. Il napoletano Tiberio Malfi è autore del trattato Il barbiere, pubblicato nel 1626[13], ispirato direttamente e forse, almeno in parte, scritto dal grande chirurgo calabrese Marco Aurelio Severino. Malfi mostra un percorso assai simile a quello del francese Paré: inizia da barbiere, diventa console dell’Arte, ma entra successivamente nei ranghi di accademico e docente di anatomia nello Studio napoletano. Il suo è un testo completo di disciplina, che non si sofferma solo sulla pratica del barbiere, ma tende a regolamentarne assai dettagliatamente atti, comportamenti, rapporti sociali, stili di vita, cultura, mentalità. L’assunto originario del Malfi è che la “decoratoria” è parte integrante della medicina. La chirurgia infatti fu trasferita ai barbieri per la vicinanza e affinità con le operazioni di “decoratoria”. Il barbiere è dunque il “vicario” del medico. “Ars-virtus”, la minuta precettistica e la gerarchizzazione delle virtù del barbiere occupano lo spazio maggiore del trattato. Qui da un lato la nozione di “virtus” è completamente svuotata della sua risonanza umanistica, anche se i termini resta gli stessi. D’altro lato è esaltata la dimensione tecnico-pratica delle virtù, mezzi per realizzare più compiutamente il fine dell’arte del barbiere che è “la politezza e l’ornamento dell’altrui persona”. L’inventario delle virtù che si richiedono al barbiere comprende al primo posto la cortesia e la fedeltà. Questa, a sua volta, si articola in una minuta precettistica: evitare sospetti; far corrispondere le parole alle passioni dell’anima; “mostri di intendersi solo delle armi del suo mestiere”; adotti portamento e vestiti adeguati; mostri a tutti gli strumenti richiesti al suo ufficio. Una parte del trattato è un vero manuale di psicologia ad uso del barbiere. L’ideale espresso è quello di un giusto equilibrio fra “i beni dell’anima e del corpo e anco della fortuna”. Si richiedono versatilità nelle lettere, conoscenza dell’anatomia, apprendimento dell’arte con “buoni maestri”, onore e rispetto al medico sua guida, l’adeguamento della dieta, l’acutezza della vista, l’età giovanile, la convenienza della condizione coniugale, l’uso intelligente del tempo. Tutti i temi della cultura barocca attraversano il trattato del Malfi: a testimonianza di una circolarità e circolazione intellettuali singolari e ineguagliate in altre epoche storiche. E’ ribadito il carattere attivo delle virtù. La loro articolazione tecnico-pratica investe persino le virtù cardinali tradotte in norme dell’agire professionale. Le qualità, persino la bellezza, sono funzionali alla loro utilità pratica. Attenzione particolare è riservata al rapporto barbiere-cliente, alla gamma dei comportamenti differenziati da osservare nel rapporto. Pochi, scarni i riferimenti a testi autoritativi; abbondanti invece l’esemplificazione storica, la ricostruzione biografica di barbieri che più e meglio corrispondono al modello tracciato da Malfi.
La terza parola-chiave del titolo di Gracian è “arte” nel suo triplice profilo di materia, tecnica come apprendimento e disciplina, spazio all’intervento creativo individuale, composto di intuizione e riflessione.
E all’arte, nella sua specificazione di “prudenza”, è collegata la quarta parola-chiave.