Il tempo, questo ritrovato
Dalla paura dell’horror vacui a una (nuova?) filosofia della lentezza. I percorsi delle nostre giornate: non scandite dalla frenesia
Ore, giorni, settimane chiusi in casa per raggiungere il famigerato calo dei contagi. Flash mob dai balconi per sentirci più vicini, videochiamate, smart working e lezioni online occupano le giornate di molti.
Il tempo a disposizione finisce lì o se ne ha ancora? E, soprattutto, cosa se ne può fare? #iorestoacasa. È questa la risposta cosciente che sempre più persone stanno dando al Covid-19. La domanda, però, è: a fare che cosa? Il problema di oggi è capire cosa fare di questa gran quantità di tempo che la diffusione pandemica di questo virus sembra averci concesso.
Tantissime ore che, prima dello stop generale, sembravano appartenere ad altri. Il tempo è quindi comparso dal nulla? Ci è stato concesso da qualcuno che prima lo teneva custodito? Il Covid-19 ha messo in evidenza a tutti noi le temute e teorizzate conseguenze della crescente accelerazione della vita che ha investito la società moderna del mondo occidentale. Ci ha chiusi in casa, costretti a condividere la nostra vita con quelle persone che, in teoria, dovrebbero essere le più vicine: i membri della famiglia.
Non abbiamo più la libertà di fare ciò che vogliamo e, erroneamente, pensiamo di non poter più usare il nostro tempo. Quando si tratta di un tempo che però non era nostro, di cui abbiamo perso il valore se non è misurabile in denaro, siamo ancora sicuri di poter parlare di un tempo che ci è stato sottratto? O forse dovremmo pensare ad un tempo che ci è stato restituito per farne buon uso?
Se ci si fermasse ad analizzare come la società capitalista moderna ha organizzato la vita dei propri cittadini, il risultato sarebbe quello di accorgersi che tutto è teleologicamente pensato per produrre e consumare. Le ventiquattro ore di ogni individuo, quindi, sono massimizzate per ottenere maggior profitto, producendo per poter poi consumare. Un ciclo che non sembra fermarsi mai, se si vuole restare all’interno di questo genere di società.
Il tempo libero, che ognuno di noi sostiene di avere quando non è più a scuola o al lavoro, è realmente libero? Ma soprattutto libero da cosa?
Zygmunt Bauman sosteneva che coloro che, finito il lavoro, continuano a rispondere alle email che ricevono, non smettono realmente mai di lavorare. Ciò che però porta l’individuo moderno che vive in una società capitalista a ricercare del tempo libero sembra essere la consapevolezza inconscia che il tempo utilizzato in ufficio non sia veramente proprio. Se è vero che il lavoro nobilita l’uomo, gli individui dovrebbero sentirsi gratificati nell’utilizzare il proprio tempo lavorando e non dovrebbero avere la sensazione di essere sempre in debito di ore di libertà. Se il lavoro è però pensato in un’ottica produttiva e consumistica, potrebbe venir meno la parte gratificante ed edificante, lasciando il posto all’obbligo di lavorare per produrre denaro da reinserire nel mercato tramite il consumo. È un meccanismo ben strutturato, che non lascia alcuno spazio reale al proprio tempo in quanto qualsiasi attività da fare nelle ore libere non fa altro che reiterare la stessa struttura.
Andare al cinema, stare sui social network, fare acquisti: sono tutte attività che hanno alle spalle una struttura produttiva e consumistica che inevitabilmente viene proiettata e introiettata nell’individuo che le porta avanti. Ritrovarsi, quindi, improvvisamente, con centinaia di ore vuote da poter riempire a piacimento porta questo genere di individuo a sentire quell’horror vacui di aristotelica memoria: la frenetica e irresistibile necessità di riempire gli spazi vuoti del nostro tempo. Sì, perché finalmente si può parlare di tempo proprio, di ore che il virus ci ha restituito, dandoci la possibilità di ripensare alla semplice bellezza di poter sentire i minuti che passano senza l’ansia di una scadenza imminente o all’impagabile sensazione di perdersi in un romanzo per ore.
L’horror vacui però rimane e perseguita chi non riesce ad accettare di aver ricevuto questo dono inaspettato. Il rischio è di non riuscire a rimanere chiusi in casa con il terrore del vuoto che avanza, scegliendo di violare le regole ed uscire. Chi, umanamente, decide di fare questa scelta si ritroverà in uno spazio senza vita, dove tutto è rimasto uguale, ma allo stesso tempo si è fermato. Questo spazio non è altro che un ennesimo locus da riempire lasciando gli affamati di contenuti a bocca asciutta. Il Covid-19 ha messo la popolazione nelle condizioni di sentirsi mancare quel solido appoggio che la società capitalista ha costruito: la certezza della scansione del tempo. Prima dell’emergenza, un lavoratore o uno studente sapevano che le loro giornate sarebbero state “sezionate” in chiare e lineari parti che prevedevano il famigerato detto “prima il dovere, poi il piacere”.
A partire dall’inizio della quarantena, milioni di persone non hanno saputo più come dividere le proprie ore nella spasmodica necessità di continuare a produrre.
Questa immediata incertezza non è altro che un reiterato presentarsi del vuoto, dell’inaspettato che spaventa perché non conosciuto.
Ciò che emerge da questa vacuità è la temporalità ripensata secondo le logiche tanto apprezzate da Martin Heidegger di attesa e di scoperta. Oggi l’uomo può riscoprirsi filosofo dentro le mura domestiche, attraverso l’invito che questo tempo extra ci fa a riprendere la riflessione sulla vita che ogni giorno viene ad incontrarci, ma che, troppo spesso, noi eludiamo a causa del fatto che non si può perdere neanche un minuto.
Il tempo è denaro, scriveva il saggista e filosofo Sir Francis Bacon nella sua opera Essays del 1597. Occupare anche soltanto un minuto del proprio tempo con attività non produttive sembrerebbe uno spreco di un bene prezioso che una banca consegna ogni giorno ai propri investitori. E se leggessimo la frase espressa da Francis Bacon in un altro modo? Se la parola denaro fosse soltanto simbolica e si potesse sostituire, invece, con prezioso, non si comincerebbe a pensare quel minuto come un nostro bene da proteggere dal gioco prodottoconsumo?
La mia proposta è proprio questa: ritornare a contatto con il nostro tempo, riscoprendo la capacità esclusivamente umana, che Antonio Gramsci ha sottolineato nel suo undicesimo quaderno né Quaderni del carcere: «tutti [gli uomini] sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente» 1. Rispetto all’emergenza pandemica del Covid-19, l’unica alternativa sembra quindi essere quella di restare in casa e affrontare questo tempo che tanto si teme, ma che in realtà è nostro amico e confidente. Guardare a queste ore e vederle come nostre, aperte alle possibilità della propria volontà, non è cosa semplice, ma se si raggiunge questa consapevolezza si potrebbe cominciare a ripensare il proprio tempo anche quando questa emergenza sarà finita. Iniziare a fare le cose più lentamente, a fare ciò che veramente interessa senza timore che non sia produttivo.
Sono queste due delle possibilità che ci permetteranno di ricordare che il nostro organismo si è evoluto in migliaia di anni e di pensare quindi che, dal punto di vista biologico, non siamo macchine che possono accelerare sempre di più puntando sulla produzione come vogliono farci credere.
Bibliografia
1) Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci (4 voll.), a cura di V. Gerratana, Vol. 2, Collana NUE n.164, Torino, Einaudi, 1975.
2) Aristotele, Fisica, a cura di Roberto Radice, Bompiani, Milano, 2011.
3) Davide Mazzocco, Cronofagia: Come il capitalismo depreda il nostro tempo, D Editore, 2019.
4) Martin Heidegger, Contributi alla Filosofia. (Dall’evento), a cura di Franco Volpi e F.W. von Herrmann, trad. di Alessandra Jadicicco, Collana Biblioteca Filosofica n.26, Adelphi, Milano 2007.
5) Lamberto Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna 2014.
6) Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, trad. di Marco Cupellaro, Laterza, Roma-Bari 2008.
7) Zygmunt Bauman, Vite di scarto, trad. di Marina Astrologo, Laterza, Roma-Bari 2017.
Note
1. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci (4 voll.), a cura di V. Gerratana, Vol. 2, Collana NUE n.164, Torino, Einaudi, 1975, p. 1375.