Il terremoto e i monopoli
Lunedì 29 dicembre 1908, ore 5, 21: un terremoto del 10° grado della scala Mercalli scuote per quasi 40 secondi l’area dello stretto di Messina. Pochi minuti dopo ondate alte oltre 10 metri spazzano le città devastate. Messina perde d’un colpo ottantamila dei suoi 150.000 abitanti. Circa il 95% degli edifici viene distrutto. A Reggio Calabria morirà circa un terzo dei 45.000 abitanti. Le vittime in complesso saranno oltre centomila.
Ma l’economia ha le sue leggi spietate. E quell’immane disastro costituò l’occasione crudele per definire, a Messina, un nuovo assetto in un settore strategico dei pubblici servizi quale la produzione e distribuzione dell’energia elettrica.
Il servizio di illuminazione pubblica era da anni coinvolto nel duro scontro sulla gestione dei pubblici servizi in città che opponeva il blocco clerico-moderato, espressione di gruppi politico-affaristici determinati a mantenere nelle proprie mani il controllo di un affare che si preannunziava estremamente lucroso, e dei partiti popolari, decisi a dare un assetto più efficiente e meno costoso al sistema.
Nel 1887 il sindaco Giacomo Natoli si era impegnato a rinunciare per sette anni all’introduzione o all’incoraggiamento dell’impiego dell’illuminazione a luce elettrica.
La città peloritana disponeva in quel momento di un sistema misto: la illuminavano i lampioni a gas di carbone della inglese “Continental Union gas Company Limited”, che aveva rilevato nel 1866 l’appalto dalla francese A. Gotterau e C., che ne era stata la prima concessionaria, e contribuiva con cospicui finanziamenti alle campagne elettorali del sindaco.
La stessa impresa del gas aveva negli anni Novanta provveduto alla costruzione e all’esercizio di una piccola centrale termoelettrica che produceva energia per illuminare alcune abitazioni private con lampade ad incandescenza e la piazza del municipio con sei lampade ad arco. L’officina, che occupava cinque operai in tutto, era dotata di due motori a gas da 45 cavalli ciascuno e di due dinamo a corrente continua e bassa tensione costruite dalla Siemens e Halske.
Nel 1899 la vittoria dei popolari aveva portato alla carica di sindaco il repubblicano Antonio Martino, con l’appoggio del partito socialista. E Martino aveva impresso alla propria azione un forte impulso riformatore, revocando numerosi appalti per gestire direttamente molti servizi comunali. L’alleanza popolare si era spezzata proprio sulla decisione di costruire una centrale idroelettrica, che Martino avrebbe voluto assegnare alla tedesca Siemens, colosso mondiale del settore, mentre una parte dei suoi alleati, capitanati dalla potente famiglia Fulci, spingeva perchè l’appalto fosse assegnato ad una società municipalizzata.
Nel 1904 era poi tornata al potere l’alleanza clerico-moderata, intenzionata a ricondurre sotto controllo privato l’affare dei pubblici servizi.
In questo contesto fortemente conflittuale si inserì una delle più dinamiche aziende italiane operanti nel settore dell’energia: la Società Meridionale di Elettricità, guidata da Maurizio Capuano. Attraverso una sua partecipata, la Società Tirrena di Elettricità, la SME avviò una trattativa per rilevare una concessione di diritti relativi all’impianto elettrico della città dello Stretto detenuta dalla società napoletana Buonomo e Utili. L’operazione giunse in porto nel 1907, dopo la costituzione della Società Elettrica della Sicilia Orientale (SESO), che aveva sede legale in Roma, sede amministrativa in Milano, ma per iscopo la produzione e la distribuzione di energia elettrica mediante le forze idrauliche ottenute dal fiume Alcantara. Una società cooperativa locale, già socia dell’impresa napoletana, si trasformò in Società messinese di elettricità, con direttore l’ingegner Giuseppe Foti, sindaco della Seso, e una forte dipendenza finanziaria dalla stessa Seso, dalla quale ottenne un prestito di circa seicentomila lire per avviare la costruzione dell’impianto, che si prevedeva potesse entrare in funzione nell’estate dell’anno seguente. Tra le due aziende vigeva un patto teso ad evitare tra loro, ogni reciproca dannosa concorrenza.
E quando la Messinese nei primi mesi del 1908 procedette ad un aumento di capitale, la Seso convertì in azioni il suo credito, mentre due dei suoi dirigenti, l’amministratore delegato Emirico Vismara e il direttore, l’ingegner Ernesto Diana, entravano a far parte del Consiglio di Amministrazione della società peloritana, che ormai la Seso controllava pienamente.
La battaglia per il controllo dei servizi pubblici continuava intanto ad infuriare: la belga Tramways di Messina minacciava di costruire una propria centrale nella città dello Stretto. Per scongiurare questa ipotesi, Emirico Vismara dovette personalmente recarsi a Bruxelles e trattare con la probabile concorrente un accordo per la fornitura di energia destinata alla trazione elettrica dei tram cittadini. A conferma del ruolo egemone esercitato dalla Seso nei confronti della Messinese, il contratto fu firmato tra Seso e società belga.
La situazione era a questo punto quando le due sponde dello Stretto vennero devastate dal terribile cataclisma del dicembre 1908.
La Messinese fu gravemente colpita dalla catastrofe, che ne falcidiò dirigenti, tecnici, operai. Lo stesso direttore Giuseppe Foti perì nel disastro.
Il Consiglio di Amministrazione della Seso, riunitosi il 18 gennaio 1909, prese immediatamente misure per soccorrere le famiglie delle vittime: al personale che aveva perduto tutto quanto possedeva la Società avrebbe garantito anticipazioni sullo stipendio, salvo successivi conguagli.
Ma, esaurito il compito di garantire solidarietà agli scampati, si passò immediatamente alla discussione sul modo migliore di cogliere l’opportunità offerta dalle condizioni di mercato al consolidamento delle posizioni dell’azienda sul mercato peloritano. La Messinese, colpita duramente negli uomini, non lo era stata affatto negli impianti che erano anzi rimasti praticamente intatti. Gravi invece, e forse irreparabili, risultavano i danni patiti dall’azienda del gas. Era dunque possibile, sottolineò Vismara, ripristinare le condizioni di efficienza del servizio, prendere contatti con l’amministrazione municipale e rimpiazzare l’avversario, ormai definitivamente fuori gioco, in tutti i servizi pubblici.
Il CdA decise pertanto di avviare subito le pratiche occorrenti col Commissario straordinario che era stato chiamato reggere la città, per ottenere alla Messinese una concessione conveniente per l’esercizio dei servizi di distribuzione d’energia elettrica.
Le cose procedettero speditamente. Nella successiva seduta del 13 marzo Vismara riferiva infatti di aver già concordato con la Giunta municipale un contratto per la fornitura di energia elettrica per cinque anni per l’illuminazione pubblica per un canone, giudicato molto conveniente, di 150.000 lire annue. Quanto al servizio ai privati, era stato convenuta una tariffa di 60 centesimi per kWh essendo quasi certo che sarebbe stato ingiunto l’uso della luce elettrica nelle baracche per ragioni di sicurezza: scelta che avrebbe garantito un largo mercato alla società. Erano inoltre in corso le trattative per l’illuminazione anche del porto e della stazione ferroviaria. L’insieme di queste attività si prevedeva potesse dare un incasso annuo intorno alle trecentocinquantamila lire.
Il 6 giugno il servizio di illuminazione pubblica entrava in funzione, mentre anche gli altri servizi procedevano in modo positivo. Il Cda prendeva pertanto atto con soddisfazione che nell’esercizio 1910 sarebbe stato possibile distribuire un interesse del 5% al capitale oltre ad un 4% di ammortamento.
Grazie alla catastrofe avvenuta sei mesi prima, la partita per l’aggiudicazione e l’esercizio del servizio di illuminazione pubblica e privata della città dello Stretto era ormai chiusa.