Il Vino Siculo – Francese del Duca D’Aumale
Fino ai primi decenni dell’800 la viticoltura e l’enologia siciliana, e non solo nell’Isola, erano considerate come le due fasi di un unico ciclo produttivo; chi impiantava e lavorava vigne, grande proprietario terriero o piccolo contadino, si riteneva naturalmente titolato a produrre vino, indipendentemente dalle quantità e dalla destinazione finale (autoconsumo, mercato locale, esportazione per fuori Regno). Per conseguire il risultato non contava distinguere tra le numerose varietà di vitigni, purchè i ceppi fossero longevi e i tralci prolifici di grappoli succosi; ed era sufficiente attenersi alle regole del saper fare vino secondo la tradizione e l’esperienza tramandata di padre in figlio.
La separazione dei saperi e dei mestieri, viticoltore da una parte ed enologo dall’altra, sarebbe stata quasi incomprensibile. Alla viticoltura tuttavia si riservava maggiore attenzione e, sotto questo profilo, poteva ritenersi più progredita dell’enologia. Non a caso, di impotabilità del vino siciliano scriveva Domenico Scinà a fine ‘700, notando: «si rimescola ogni sorta d’uva, sia matura o immatura e si lascia fermentare ad arbitrio del rozzo contadino»; come a dire che dall’avvio della vendemmia in poi le pratiche seguite lasciavano molto a desiderare. Ma è ben più grave che queste osservazioni dirette venissero ancora confermate nel 1894 da Jessie White Mario, durante i suoi sopralluoghi all’interno dell’Isola: «L’uva vendemmiata gettata nei palmenti sporchi dell’anno precedente era pigiata alla meglio, poi di nuovo spremuta in cestoni sporchi e il mosto gettato in tini incrostati».
Tuttavia, questa arretratezza non potrebbe essere rappresentata graficamente solo con una linea ad andamento costante, da fine ‘700 a fine ‘800. Importanti progressi erano già evidenti nel processo di elaborazione del marsala il vino creato dai mercanti-imprenditori britannici insediatisi in provincia di Trapani. Grazie a loro, tra XVIII e XIX secolo si era fatta strada la convinzione che per ottenere i migliori risultati non bastasse soltanto comprare mosti e manipolarli con alcol, ma occorresse anche mantenere un rapporto costante con i proprietari per selezionare le uve migliori; grazie a loro si realizzò la prima separazione tra i due mondi. A loro si deve l’organizzazione razionale delle cantine e la creazione delle riserve per l’invecchiamento dei vini. Ma l’innovazione sul versante di quelli da pasto non fu di matrice britannica bensì soprattutto francese, a partire dalla seconda metà dell’800.
Il duca Henry d’Aumale, figlio di Luigi Filippo re di Francia, dopo avere acquistato nel 1853 l’ex feudo dello Zucco (40 km da Palermo), esteso oltre 3.000 ettari (diventati 6.000 a fine ‘800), fu il primo ad avviare un’intensa opera di trasformazione colturale disponendo l’impianto di vigne, ulivi, agrumi, frassini, carrubi, sommacchi, pistacchi. Uno dei primi resoconti su questa modernissima azienda agraria e, in particolare sui vini lì prodotti, risale al 1869, ad opera dell’agronomo siciliano Girolamo Caruso che dal 1871 al 1917 avrebbe diretto l’Istituto Agrario Pisano. Inizialmente i vini della fattoria dello Zucco erano tre: due bianchi ad uso marsala ed un vino nero non commercializzato. Pochi anni dopo, la coppia vincente sui mercati e alle esposizioni nazionali e internazionali sarebbe stata quella del bianco e del rosso esportati principalmente in Francia e Inghilterra, non solo in botti ma anche in bottiglie (in casse da 12). Negli stabilimenti enologici siciliani il confezionamento in bottiglia riguardava, allora, modeste quantità di prodotto; non così nel baglio del duca d’Aumale, in località costiera di Terrasini, dove il vino veniva processato e infine confezionato, dal quale si spedivano, migliaia di bottiglie, circa 400 mila l’anno, secondo il Caruso, al prezzo di due lire per bottiglia, sia per il bianco che per il rosso. Il deposito generale di distribuzione per la Francia era naturalmente a Parigi, presso la Casa Veuve Rivet, in boulevard Poissonniere.
Il vino nero non era posto in vendita ma rimaneva ad uso esclusivo del duca; si preparava con uve autoctone da una vigna vecchia di circa 80 anni; gradazione elevata (oltre 19% di alcol): «di color cerasa carico, tendente al nero, e s’imbottiglia dopo di essere stato curato per un periodo da 4 a 6 anni». Oltre ai vitigni autoctoni Catarratto e Inzolia, il duca fece introdurre il Sauterne, le viti del Reno e la varietà Spagnola. Sappiamo che già nel 1877 nella tenuta dello Zucco erano state impiantate 30 mila viti del Reno. Massima attenzione era dedicata alla cura delle vigne in tutte le sue fasi: i sarmenti erano legati a dei pali (prevalentemente le canne di cui vie era grande abbondanza nella zona, ma anche pali da frassino e castagni), in modo che l’uva restasse sospesa in alto, evitando di marcire. Si utilizzava poi il fil di ferro tra due pali, per creare una doppia elevazione per stendere i tralci con le uve in modo da farle maturare in modo uniforme. Per la vendemmia, che durava da 40 a 50 giorni, venivano impiegate circa 300-400 donne che si occupavano solo della raccolta e un centinaio di uomini addetti al trasporto delle ceste allo stradale più vicino dove stazionavano i carri a trazione animale. Il mosto rimaneva fino al mese di marzo nei magazzini dello Zucco, epoca in cui veniva travasato dalle stipe grandi alle botti per essere trasferito al baglio di Terrasini, dove si effettuavano tutti gli affinamenti successivi. La chiarificazione avveniva esclusivamente con albume d’uovo e non con il sangue di bue. I travasi nel corso dei cinque anni di invecchiamento avvenivano tre o anche quattro volte l’anno, per spurgarlo dalle feccie. Il legno delle botti era il cerro d’America. Il risultato finale era un vino da pasto di grande qualità che, finalmente, si discostava dai vini deliberatamente rinforzati con alcol.
Quello dello Zucco non fu l’unico esempio di innesto di cultura enologica francese in Sicilia; vanno infatti ricordati altri due casi di rilievo: il primo per merito di un altro duca, Edoardo Alliata di Salaparuta, che chiamò l’enologo di Bordeaux, Jean Lagarde, a dirigere la sua fattoria di Casteldaccia (25 Km da Palermo), dal 1876 al 1892. Il secondo esempio riguardò i Florio, sia nello stabilimento succursale di Balestrate sia, in quello principale di Marsala, dove a partire dal 1892 si cominciarono a produrre vini da pasto sotto la direzione di un altro enologo di Bordeaux, George Lamènery. La strada era ormai tracciata e l’effetto emulativo avrebbe gradualmente coinvolto altri produttori locali.