Incontrare Sciascia: il documento, la lettura in chiave contemporanea, la scrittura
Ricordare Leonardo Sciascia, a trent’anni dalla morte, è anche dare testimonianza delle occasioni che ho avuto di lavorare con lui. Frammenti di memoria che scompariranno ben presto: da qui la necessità di fissare proprio in questa in occasione del trentennale della sua morte.
La prima occasione di confronto con Sciascia risale agli anni ’70 quando, da giovane funzionario degli Archivi di Stato, vengo chiamato dalla direttrice Adelaide Baviera Albanese. Nella stanza, immerso nel suo attento silenzio, c’era Leonardo Sciascia: le direttive che mi vengono date sono quelle di assistere lo scrittore in una complessa ricerca archivistica volta a individuare un riscontro documentario sull’esistenza della setta dei Beati Paoli. Inizia così un percorso condiviso con l’intellettuale che parte dalla lettura degli inventari in sala di studio e dai sondaggi in diversi fondi archivistici per verificare le ipotesi di ricerca con i documenti.
In quegli anni, lo scrittore di Racalmuto aveva riflettuto sui Beati Paoli e su William Galt (pseudonimo di Luigi Natoli), autore del fortunato ciclo nato sulle pagine del Giornale di Sicilia. Il tema dei Beati Paoli – con le logiche ricadute sule riflessioni sull’origine della mafia – appassionava negli anni ’70 la realtà degli intellettuali fortemente radicati nella realtà culturale palermitana. L’ispiratore della riedizione del ciclo uscito dalla penna del Natoli da parte di Sellerio era dunque Sciascia, ma devo ricordare che del tema si occuparono anche Carmelo Trasselli e Rosario La Duca.
Trasselli studiò le fonti utilizzate da Natoli per la costruzione dell’impalcatura narrativa che sono rappresentate essenzialmente dai diari del Marchese di Villabianca, senza alcun riferimento a documentazione archivistica che anche Trasselli cercò e non trovò; La Duca concentrò la sua attenzione sulla ricostruzione delle strutture sotterranee descritte nei romanzi, sempre nella speranza di reperire tracce della presenza dei Beati Paoli: anche in questo caso senza alcun risultato.
Dopo due settimane di ricerche con rammarico Sciascia prende atto dunque dell’impossibilità di trovare un riscontro documentario dell’esistenza della leggendaria setta. Se ne rammarica in un colloquio che ebbi con lui nel suo studio, che si affacciava sul parco di Villa Sperlinga, davanti alla sua macchina da scrivere rigorosamente meccanica e con la sigaretta accesa tra le dita. Quello che gli frullava per la testa era di trovare un nesso tra i Beati Paoli e le origini antropologiche della mafia. Di fronte al vuoto documentario preferì desistere e concentrarsi su un fascicolo giudiziario ritrovato nel corso delle ricerche nei fondi dell’Archivio di Stato di Palermo relativo al caso di un pugnalatore seriale che sconvolse la città. Un passaggio archivistico importante che non solo da conoscenza delle fonti di ispirazione del suo romanzo I pugnalatori ma che, soprattutto, chiarisce il metodo di lavoro di Sciascia. Era un intellettuale che costruisce le sue creature letterarie con un approccio metodologico approfondito, nel quale il documento e la storia che se ne ricava offrono una riflessione riflessione sul presente, una lettura della società contemporanea.
Quando, lasciato l’Archivio di Stato, mi sono trasferito all’Assemblea Regionale Siciliana, collaboravo con Aldo Scimè alla redazione dei volumi della Edizione della Regione Siciliana sulla cultura siciliana. Scimè affidò al sottoscritto e al collega Enrico Casile la stesura dell’apparato bio-bibliografico del volume di Caruso sull’opera grafica dell’incisore Francesco Cichè. Anche in questo caso colui che ispirava quest’opera era Leonardo Sciascia, era interessato alle incisioni dell’Atto pubblico di fede del Mongitore e al tema dell’Inquisizione siciliana. Negli incontri avuti per discutere sul materiale archivistico ritrovato – e in particolare su un articolatissimo inventario dei beni posseduti dall’incisore al momento della sua morte – Sciascia sosteneva che l’importanza del Cichè stava nell’aprire alcune finestre su un momento di particolare importanza nella evoluzione culturale della società siciliana, che avrebbero poi portato al Settecento riformatore. Anche in questo caso il metodo di lavoro dello scrittore era quello di documentarsi e di metabolizzare il materiale acquisito con riflessioni che si proiettavano sulla realtà a lui coeva che interpretava anche alla luce di letture e confronti con coloro i quali studiavano e lavoravano su questi temi.
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