“Intervenire subito o il patrimonio si disperderà”: la crisi annunciata del teatro dei pupi siciliani
Undici famiglie di pupari della Sicilia si uniscono in un unico grido d’allarme per salvare il loro mestiere dal post lockdown
Il teatro dei pupi rischia di sparire per sempre e con esso anche una parte importante dell’identità siciliana.
Essere riconosciuto dall’Unesco “capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità” non basta quando ad essere messi a repentaglio sono proprio l’accesso e la sua trasmissione, punti cruciali perché questa arte possa essere tramandata di generazione in generazione.
Le difficoltà della ripresa post lockdown, dovute al divieto della messa in scena degli spettacoli, rappresentano solo la punta dell’iceberg di un allarme lanciato da anni e determinato anche dalla mancanza di fondi e di volontà politiche mirate a dare il giusto peso alla salvaguardia di un patrimonio che necessita costante cura ed attenzione.
A spiegare come stanno i fatti è Rosario Perricone, direttore del museo delle marionette Antonio Pasqualino di Palermo.
«Il mio grido d’allarme non è casuale – spiega – perché è stata sottoscritta dalle istituzioni una convenzione internazionale di cui i politici si fanno vanto ma che non viene fattivamente rispettata».
Si rivolge allo Stato in prima istanza, poi alla Regione e al Comune come ente più vicino, e fa riferimento alla mancanza di un piano organico di salvaguardia che, proprio in questa fase di ripresa avrebbe sortito i suoi effetti.
Le proposte all’unisono delle undici famiglie di pupari siciliani di cui il museo Pasqualino è portavoce: l’istituzione da parte della regione siciliana di un finanziamento straordinario extra furs a fondo perduto per le compagnie di Opera dei pupi che non usufruiscono dei fondi e che avvenga senza nessun vincolo così come già fatto dal Ministero dei beni culturali e del turismo per le compagnie teatrali extra FUS); la modifica, da parte dell’Assemblea Regionale Siciliana, dell’articolo 11 della legge regionale n. 25 del 5 dicembre 2007 che riguarda l’opera dei pupi, per un ampliamento del contributo al 90% della spesa ritenuta ammissibile, anche senza l’effettivo svolgimento dell’attività teatrale, considerata l’impossibilità dettata dal momento; l’ideazione da parte della Regione Siciliana di un programma di spettacoli di opera dei pupi dal vivo, da svolgersi all’aperto nel periodo primaverile-estivo in circuitazione sul territorio regionale all’interno di luoghi capaci di assicurare il rispetto delle vigenti norme sul distanziamento sociale e infine sgravi sugli affitti e le utenze relativi alle sedi teatrali per il periodo di inattività.
«Abbiamo proposto ai Comuni di agire direttamente nelle loro città – ha affermato Perricone – e alla Regione di programmare un calendario diffuso in modo da avere sempre, almeno due volte alla settimana degli spettacoli periodici, sia per il pubblico straniero ma anche per i nostri cittadini».
Costruire un “sistema di abitudine”, così lo definisce l’antropologo, per far sì che gli spettacoli vengano periodicamente messi in scena e che la gente sia a conoscenza di un appuntamento fisso con il teatro dei pupi a seconda della città in cui si trova.
Per fare questo, come sostiene Perricone, non ci vogliono grandi risorse. Ma a lasciare perplesso il referente dell’associazione dell’Opera dei pupi è proprio la destinazione dei fondi per i beni siciliani riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’umanità in cui è puntualmente dimenticato il patrimonio immateriale.
Nell’ultima legge di stabilità, infatti, il parlamento regionale ha stanziato fondi per i siti monumentali riconosciuti dall’Unesco patrimonio dell’umanità in Sicilia, tralasciando così il patrimonio immateriale e quindi l’opera dei pupi. «Qui siamo ancora di fronte al fatto che purtroppo per i decisori politici, questa arte, anche se ha avuto il riconoscimento dall’Unesco, non è considerata cultura, diciamocelo chiaramente» afferma lo studioso.
Incalza tra i pupari la paura di ritornare ad una nuova crisi come quella subita negli anni ‘60 in cui i teatri sono stati costretti alla chiusura e alla vendita dei preziosi materiali, pupi e scenografie all’estero. Era l’epoca del cambiamento, del boom economico e l’avvento dei mass media, in testa la televisione in casa, aveva cambiato le abitudini degli spettatori, distratti da un mondo che correva più veloce di loro. Era necessario reinventarsi, strizzando l’occhio alla modernità ma senza lasciare le radici alla tradizione che animava lo spirito dei pupi. La scelta è stata quella di mandare in scena spettacoli più brevi e fruibili anche ai turisti.
Il monito alla salvaguardia lanciato da Perricone è rivolto anche al pubblico, perché ad essere i custodi di questa arte non sono solo i maestri pupari, ma anche la gente che li sostiene. È stato proprio questo lo spirito con cui Antonio Pasqualino nel 1965 ha dato vita al museo che ancora oggi si batte perché le tradizioni popolari siciliane non vengano adombrate da una società in continua evoluzione che vada un lato assecondata e dall’altro indirizzata verso scelte di consumo responsabili, come quelle che investono sulla cultura.
La tecnologia, però, ha permesso all’associazione Opera dei pupi di rimanere all’avanguardia e di creare prodotti culturali digitali tramite attività di catalogazione schedatura e inventari dei patrimoni custoditi da ogni compagnia in attuazione di un progetto del ministero dei Beni culturali diretto a a trasmettere il patrimonio alle nuove generazioni.
Ma il teatro, quello vero, è fatto di maestri che danno voce e mani che regalano i movimenti ai pupi scalpitanti sul loro piccolo palco di legno. Quello del puparo è un mestiere così come quello degli altri collaboratori che lavorano per la definizione di tutti gli spettacoli.
«Come patrimonio Unesco siamo veri ed esistiamo tanto quanto la cattedrale di Palermo o il duomo di Monreale. «Bisogna intervenire ora per evitare di arrivare troppo tardi – conclude Perricone – perché per costruire un teatro dell’opera dei pupi, con almeno 50 pupi e 50 scene, ci vogliono anni. Per disperderlo basta un giorno solo».