Quel giornale che fece scuola
(Dell’importanza di avere maestri e di essere allievi)
Uno degli aspetti che identificano e caratterizzano il percorso de L’Ora è di avere fatto scuola. In una doppia accezione: il quotidiano seppe essere infatti un punto di riferimento nella lettura e nell’interpretazione della contemporaneità, e non soltanto sul fronte della lotta alla mafia. Inchieste, approfondimenti, analisi erano un territorio costantemente frequentato, che si parlasse di divorzio o della vita nei quartieri periferici.
C’era però un altro aspetto non meno cruciale del “fare scuola”. La redazione lo era, una scuola: c’erano maestri (e quali!) e allievi disposti a ogni sacrificio pur di imparare una professione in cui il talento e la preparazione non bastavano. Non dovevano e non potevano bastare: erano necessarie anche robuste dosi di tenacia e di umiltà. Perché di apprendistato si trattava, in un “laboratorio di artigianato pregiato”, come scrive bene Marcello Sorgi. E per imparare a essere artigiani occorre innanzi tutto il tempo di accumulare esperienze, delusioni, piccoli successi, conti in rosso, viaggi in treno, niente di fatto, lacrime e rabbia. Occorre anche il tempo per riconoscersi allievo e per riconoscere un maestro. Sono posizioni difficili entrambe e nel caso del giornalismo ancora di più: il terreno su cui ci si muove è fatto di scrittura, ma anche di sensibilità e di capacità di leggere ogni cosa in un contesto insieme locale e globale. Questo seppero insegnare i cronisti-maestri de L’Ora: con una selezione a volte spietata, ma (i fatti lo hanno dimostrato) indispensabile nella formazione di nuove generazioni di giornalisti, pronte a loro volta a passare il testimone. Giornalisti che formavano altri giornalisti.
Anche in questo il quotidiano fece scuola, nel vero senso dei termini, tanto che non è difficile individuare – umanamente e professionalmente – chi fra quei “banchi” si è formato.
Oggi le parole “allievo” e “maestro” sembrano in via di estinzione. Essere allievo è soprattutto un atto di intelligenza e di “abbandono critico” nei confronti di un maestro; un modus operandi che fa a pugni con il tutto-e-subito a cui la rapidità della produzione e del consumo delle notizie ci ha abituati. Essere social è un modo più rapido per acquisire visibilità, un copia-e-incolla accorcia (quando non azzera) i tempi di lavorazione e di riflessione. Fioriscono comunicatori fieri di non avere avuto un maestro, di non essersi sottoposti ad alcun apprendistato di laboratorio, all’autorità e al giudizio alcuno.
E i maestri? Sono quelli che si mettono di santa pazienza a correggere anche cento volte un titolo; che dopo una colossale sfuriata sanno rimettere in sella e che gioiscono quando l’apprendista cresce. Quelli che allevano, appunto, che hanno statura e cultura per farlo. Anche se non ci sono tornaconti: perché è giusto così, perché qualcuno, prima, lo ha fatto con loro.
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