La Digital History: tra superamento della figura dello “storico” e ripensamento della didattica della storia
Negare che la realtà informazionale sia destinata a sconvolgere, anche sul piano metodologico, l’insieme dei diversi campi disciplinari sarebbe affermazione velleitaria, incapace di confrontarsi con una svolta epocale che rappresenta un salto di qualità non paragonabile con precedenti rivoluzioni tecnologiche; soprattutto per la capacità ormai evidente di condizionare in maniera determinante la stessa sfera cognitiva. Rivendicare allo stesso tempo la dimensione “culturale” della digitalità è anche affermazione superflua, dal momento che qualsiasi sapere tecnologico da sempre coniuga i principi scientifico-naturali con la libera espressione del pensiero individuale; coinvolgendo evidentemente anche la dimensione della storicità, dal momento che l’innovazione tecnologica ha sempre declinato in relazioni ai contesti e alle situazioni storicamente determinatesi quanto la ricerca scientifica veniva acquisendo sul piano teorico.
Sulla base di tali premesse, l’incontro tra mondo digitale e cultura umanistica, che ha dato luogo all’ambito disciplinare delle digital humanities, potrebbe conoscere sviluppi di reciproco approfondimento epistemologico. Sembra però che tra i maggiori sostenitori di questo nuovo fronte della ricerca l’intenzione non sia quella di comprendere sul piano storico-umanistico l’esperienza prodotta da quei contesti ormai noti con le espressioni di infosfera o di società della conoscenza, quanto di promuovere un riduzionismo dei contenuti delle discipline umanistiche a criteri quantitativi. Proposito che risulta ancora più paradossale quando si fa riferimento a quel campo di studi noto come digital history. In un contesto in cui la storia potrebbe ritrovare un protagonismo è una funzione ermeneutica decisiva, sembra invece piegarsi a criteri di analisi mutuati dalle più diverse scienze sociali, di indubbia efficacia, purché non intesi ingenuamente quali strumenti capaci di liberare l’analisi storica dalla presunta invadenza della soggettività dello storico.
I nuovi archivi
Nei principali studi dedicati a questa nuova branca del sapere storico, l’aspetto che maggiormente viene sottolineato riguarda la natura degli archivi e la stessa pratica sia di archiviazione sia di consultazione delle fonti, sconvolta dalle possibilità offerte dal digitale. Da una parte viene facilitato l’accesso a una sterminata mole di documenti, in qualsiasi parte del globo siano conservati; dall’altra lo stesso materiale storico risulta rinnovato, in quanto finisce per comprendere, grazie all’universale accessibilità alla rete, tutta una serie di riflessioni e testimonianze sulla quotidianità, ampliando a una dimensione quasi infinita lo spettro della documentazione disponibile. Una potenzialità di accesso a materiale documentario la cui consultazione e selezione va sicuramente al di là delle possibilità di un singolo studioso.
Da questo punto di vista, la modalità di esercizio della ricerca storica subisce un deciso mutamento qualitativo e necessita, per poter essere portata a termine, di una collaborazione tra lo storico e tutta un’altra serie di figure di ricerca, le quali concorrono in modo essenziale all’esito della stessa; che si configura, se non come il risultato di una riflessione intellettuale collettiva, quanto meno come un’impresa che ha bisogno di una pianificazione dei diversi ruoli che concorrono a realizzarla.
Ed è indubbio che ciò possa condizionare in modo inaspettato e sicuramente innovativo le prospettive euristiche delle discipline.
Una rivoluzione cognitiva o una volontà egemonica?
Date dunque per scontate queste trasformazioni, e perciò individuata una nuova inevitabile modalità di procedere della ricerca storica, è legittimo affermare che siamo di fronte a una rivoluzione cognitiva ed ontologica, per cui muterebbe non solo la natura della storia stessa ma addirittura l’atto intellettuale con cui lo storico approfondisce ed esamina i contenuti del proprio studio? Questa pretesa, sostenuta da buona parte di coloro che hanno aderito a questo campo di ricerca, ci sembra pretestuosa, e anche tutt’altro che priva di intenzionalità ideologiche. Enrica Salvatori, in un saggio tra i più illuminanti riguardo alle prospettive innovative implicite nella digital history, sostiene al contempo che non accettare questa trasformazione profonda che coinvolge la storia equivale a un «mancato aggiornamento sull’evoluzione della sua stessa disciplina. Questo processo sarà ostacolato o favorito nella misura in cui università e centri di ricerca forniranno agli storici in erba la formazione necessaria per dominare gli strumenti e le problematiche della storia digitale e opereranno perché la stessa diventi in misura crescente un lavoro interdisciplinare e d’équipe.». Sulla base di tali convinzioni, le conseguenze ricadono a cascata non solo sulla natura ontologica della disciplina storica, ma anche sulle modalità di condurre una ricerca storica (si afferma poco prima addirittura che «gli storici devono abbandonare, o quanto meno limitare, la ricerca solitaria e cominciare a lavorare in équipe interdisciplinari»), nonché la trasmissione didattica del sapere storico.
A suscitare una legittima perplessità è però il fatto che, quando tale convinzione teorica deve riferirsi a precisi riferimenti concettuali, questi, in modo ripetuto in buona parte delle riflessioni teoriche sulla digital history, fanno riferimento a principi come quello di interdisciplinarità, lavoro di gruppo, innovazione didattica. Non sfugge però come tali concetti non sorgano spontaneamente dalla stessa teoria della storia, ma vengano mutuati da quella corrente della pedagogia contemporanea di derivazione anglo-americana, che da tempo pretende di imporsi quale unica visione scientificamente affidabile di come debba avvenire un processo formativo. E che, egemone in molti dipartimenti di facoltà di scienze della formazione, vorrebbe gestire in prima persona la formazione degli insegnanti, da riconvertire al nuovo paradigma pedagogico. Ebbene, l’impressione che si ricava consultando la letteratura sostenitrice della digital history, è proprio quella non di porsi come un ulteriore ambito della ricerca storica, capace di inserirsi in modo arricchente nella riflessione disciplinare; ma che intenda, legandosi a questa vivace campagna egemonica della pedagogia tecnocratica, acquisire una rilevanza pressocché esclusiva nel dibattito sulla teoria della storia; secondo quella dialettica non collaborativa che, in ambito filosofico fa riferimento in particolare al modo di concepire se stessa da parte della filosofia analitica. Non c’è spazio per argomentare punto per punto tale pretesa; per cui ci limitiamo a sottolineare alcune criticità di fondo. Importanti però perché, come spesso capita a chi vuole teorizzare la torsione in senso quantitativo di discipline fondate sulla centralità della testualità, e quindi dell’interpretazione, ciò che viene meno è proprio un’analisi di corretta contestualizzazione storica. Nel caso di una disciplina come la digital history ciò risulta ancora più paradossale.
Neutralità dell’infosfera?
Un presupposto comune delle riflessioni sulla digital history è l’accettazione, forse acritica, del concetto di infosfera, presupposto decisivo per il nuovo modo di intendere la ricerca storica, che pone lo storico di fronte a una rete di materiale informativo che non mai stata in passato così ampia. L’infosfera è però un concetto ad alto tasso ideologico, come testimoniano le riflessioni, alternative, di Luciano Floridi (La quarta rivoluzione) e Roberto Finelli (Filosofia e Tecnologia), cui rimandiamo. Nel momento in cui si riduce la realtà a rete informazionale, si rischia di ridurre, se non addirittura di annullare, l’attività interpretante, non riducibile alla pratica informativa. La questione diventa particolarmente rilevante nella riflessione sulla storia, se si presuppone che il lavoro dello storico deve essere di tipo interpretante, deve cioè produrre storiografia e dare avvio a un dibattito storiografico. Secondo questo punto di vista, l’interpretazione storica non può che far capo a una riflessione individuale del singolo storico, che propone la propria analisi all’interno di un dibattito tra la comunità degli studiosi. Un’interpretazione storica frutto di un lavoro collettivo, che afferma la propria validità sul fatto di poggiare su una serie di dati oggettivanti, suscita legittimi sospetti quanto alla sua neutralità.
Un’interpretazione storiografica collettiva?
La logica del lavoro d’equipe, cui nella scuola pubblica per esempio si vorrebbe piegare ogni attività didattica, non rappresenta per forza di cose una modalità collaborativa e creativa di lavorare; ma assume come modello la progettazione d’azienda, che trova un suo senso in relazione al fatto che il prodotto finale che si vuole raggiungere sia già stabilito. Si tratta solo di perfezionare le procedure per arrivarvi attraverso un’esatta pianificazione. Non a caso in ambito pedagogico il sostenitore della critical Pedagogy Henry Giroux ha parlato in questo caso di «comodi prepensati». Una ricerca storica dove collaborano diverse figure professionali (lo storico, il programmatore, ecc.) può creare certo una sinergia in vista di un comune obiettivo di sintesi dello sterminato materiale informativo; ma successivamente, la riflessione storiografica non potrebbe che essere prodotta dal singolo storico, sulla base di personali convinzioni intellettuali. A meno che non prevalga l’idea -ma in questo caso il rischio di cadere nell’ideologia si fa molto forte- che la sintesi informazionale, superando quasi all’infinito le capacità umane, non costituisca già una corretta interpretazione; che, quasi sempre però, non farebbe che confermare un quadro esistente.
Una didattica laboratoriale\creativa e non trasmissiva?
Per quanto riguarda la didattica, la digital history propone la consueta centralità laboratoriale a discapito della riflessione teorica. Sia chiaro: in ambito universitario il frequentare un corso di Studi storici deve prevedere al contempo una conoscenza di come si realizza una ricerca storica. Ma riteniamo impossibile che ciò possa essere conseguito in assenza di una diffusa e ampia conoscenza preliminare dei contenuti disciplinari, capace di fornire esempi sia di ricostruzione sia di interpretazione del passato che il futuro storico sarà chiamato a proseguire. Configurare poi la didattica della storia come semplice “ricerca storica” nel percorso pre universitario ci sembra invece pura demagogia, e una concessione alla teoria delle competenze, la cui coerenza con la dimensione più autentica della disciplina storica è stata più volte oggetto di discussione.
Conclusioni
Sul primo numero del 2021 della “Rivista di ricerca e didattica digitale” è stato pubblicato un saggio di un ricercatore, Manfredi Scannagatta, dove si ripropongono in modo assolutamente acritico i più triti ruoli comuni sulla storia evenemenziale, intesa come puro nozionismo; secondo questa visione, l’attività didattica della disciplina storica come da sempre concepita manterrebbe lo studente in una posizione puramente passiva. Come se il venire a conoscenza delle problematiche connesse a un dibattito storiografico non ponessero chi recepisce tali informazioni in un atteggiamento mentale critico-attivo (sulla radicale negazione di questo modo di intendere il processo di apprendimento riteniamo abbia proposto riflessioni fondamentali Gert Biesta)
E, in fondo, ci sembra che anche le conclusioni -sempre modeste rispetto all’impianto analitico messo in atto- cui giungono alcuni dei testi fondamentali sulle digital humanities corroborino il nostro giudizio. Jeffrey Schnapp , cui pure si devono alcune osservazioni illuminanti, si interroga su come realizzare questa partecipazione al lavoro collettivo; e si domanda, assai banalmente, se la crisi della cultura umanistica non sia dovuta all’incapacità creativa di immaginare nuove forme di comunicazione del sapere. In altri casi, ci si limita addirittura a suggerimenti scontati: insegnare al futuro storico come muoversi nel mare magnum del web, sapendo distinguere ciò che vale la pena considerare da tanti altri materiali superflui. Per essere capace di individuare in quegli stessi materiali un’autentica autorialità, che rimane allora l’unico vero criterio di affidabilità per decidere la qualità di uno studio storico.