La “fiction” del declino americano II: Designated Survivor
Posted On 30 Marzo 2017
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La “fiction” del declino americano II: Designated Survivor.
Emilio Gin
Durante l’ultima dichiarazione sullo “stato dell’Unione” a camere riunite, il più devastante attentato dall’11 settembre colpisce il cuore dell’America. Dal Presidente all’ultimo congressman, tutta la classe di governo degli Stati Uniti rimane sepolta sotto le macerie del Campidoglio lasciando il Paese in una drammatica situazione di vuoto di potere. Per fortuna, come prassi consolidata sin dai tempi della guerra fredda, nelle ore precedenti alla seduta parlamentare due esponenti politici scelti a caso, uno per l’amministrazione in carica e uno per l’opposizione, sono segretamente custoditi in un luogo protetto proprio al fine di garantire la continuità istituzionale in caso di necessità. Così, Tom Kirkman, interpretato da un brillante Kiefer Sutherland, già noto per la serie tv “24” (altro esempio di fiction sul “declino americano”), da membro di secondo piano del gabinetto spazzato via dall’attentato si trova sbalzato suo malgrado sulla poltrona presidenziale più potente del mondo. Come prevedibile, la situazione che il neopresidente si trova ad affrontare è a dir poco spaventosa, con un’opinione pubblica terrorizzata e la tremenda responsabilità di dover cercare di rimettere in piedi un governo funzionante e dare la caccia ai responsabili dell’attacco. Ciò che risulta meno prevedibile invece, almeno per lo spaesato Kirkman, è la risposta di ciò che resta delle istituzioni americane. Invece di fare blocco attorno al Presidente, parecchi governatori ne contestano più o meno sfacciatamente l’autorità, non nascondendo di voler anteporre la sicurezza dei loro Stati al di sopra di quella dello Stato federale, mentre i generali più bellicosi del Pentagono ne scavalcano gli ordini pur di giungere a un’immediata revisione della politica estera americana in senso bellicista sfruttando i primi –ma inattendibili- risultati delle indagini circa la matrice islamica dell’attentato. Inoltre, il Paese è percorso da un’ondata xenofoba che impone la revisione almeno temporanea della politica migratoria e lo stesso Kirkman si trova, quasi immediatamente, al centro di violenti attacchi che coinvolgono persino la sua famiglia rischiando di compromettere l’immagine pubblica della first lady. Tutto ciò mentre, nel frattempo, le ricerche autonome di una coraggiosa agente dell’FBI, in contrasto con i dati ufficiali forniti dalla CIA e dai militari, iniziano a far emergere indizi inquietanti sui veri mandanti dell’attentato e delineano la presenza di complotto tutto interno all’amministrazione americana.
Questa, in breve sintesi, è la trama di Designated Survivor, recentissima serie tv giunta alla tredicesima puntata che –anche tale dato è significativo- sta riscuotendo ampio successo di pubblico Oltreoceano. Una trama che deve certamente la sua fortuna alla bravura degli screenwriters che hanno saputo non solo ben caratterizzare i vari personaggi ma anche dosare il passo degli eventi per lasciare lo spettatore sempre in attesa degli sviluppi successivi senza pause e tempi morti.
Altrettanto certamente, però, il successo è anche il frutto della capacità della serie di intercettare gli umori, i timori e le ansie dell’opinione pubblica nella storia americana più recente. A veder bene, infatti, per molti aspetti la fiction non appare così tanto straordinaria rispetto alla realtà. Senza contare che dopo l’11 settembre un attentato delle proporzioni descritte nella trama, seppure fortunatamente improbabile, non appare certo inverosimile, è appena il caso di sottolineare che abbiamo assistito alla campagna elettorale tra le più controverse della storia degli Usa. Circa il novanta per cento della stampa si è dichiaratamente schierata a favore di uno dei due candidati mentre sia la CIA che l’FBI sono intervenute più volte a gamba tesa –in modo del tutto inedito e inusuale- nelle settimane precedenti alle elezioni lasciando intravvedere l’esistenza di uno scontro tra interessi contrapposti gigantesco e una frattura istituzionale senza precedenti. Il neoeletto Presidente ha di fronte a sé un Paese diviso, che in parte ne contesta la legittimità, e giudici federali e governatori degli Stati guidati dall’opposizione che ne boicottano sistematicamente l’applicazione dei decreti più controversi. In Texas e in California serpeggiano movimenti, politicamente insignificanti ma indicativi del clima politico attuale, per la secessione o per la più ampia indipendenza dal governo federale. Le posizioni assunte in campagna elettorale e nei primi atti di governo in materia migratoria ed economica dal nuovo Presidente non cessano di sollevare proteste e recriminazioni dentro e fuori gli Stati Uniti. Certamente, a differenza dell’immaginario Kirkman, il nuovo inquilino della Casa Bianca può rivendicare l’investitura proveniente dalle recenti elezioni ma gli vengono ugualmente contestate l’inesperienza e l’assoluta ignoranza del funzionamento della macchina burocratica e dello stato delle relazioni internazionali a dispetto della sbandierata volontà di voler far “risorgere” l’America. Nessuno sa se e come Donald Trump riuscirà a ricomporre le fratture di un Paese che ha perduto da tempo molte delle proprie sicurezze, che diffida delle proprie istituzioni e della tenuta della propria leadership globale, mentre tanto lo scenario economico mondiale quanto il fronte internazionale continuano a essere incerti.
E Tom Kirkman? Riuscirà nell’impresa di risollevare gli Stati Uniti e di riportarvi la fiducia e la concordia a dispetto dei propri nemici interni ed esterni? Beh, per saperlo basterà restare sintonizzati sino all’ultima puntata.