La filosofia dell’uomo e la comprensione del lavoro di oggi
Le trasformazioni che stanno investendo il mondo del lavoro contemporaneo rischiano di mettere in ombra una discussione di più ampio respiro sul tema. In questo articolo cerchiamo di trarre un bilancio, chiamando in causa la filosofia di André Gorz. Uno sguardo di ieri per le sfide di domani.
La narrazione politica italiana, da un paio d’anni a questa parte, si affanna a raccontare di uno scenario della situazione economica e occupazionale descritto come il più roseo da quando la crisi economica, scoppiata poco prima dell’inizio di questo decennio, ha cancellato migliaia di posti di lavoro. Tuttavia, al netto della verità politica che soggiace a queste affermazioni, sembra altresì riscontrabile un trend di costante crescita occupazionale in quasi tutti i settori.
Diverse realtà hanno saggiato la qualità di questa crescita: tra queste, l’Istat ha messo a punto un sistema di raccolta informazioni sull’occupazione con la pretesa di fornire una lettura chiara e armonizzata del panorama lavorativo attuale.
Effettivamente, dal 2014 la curva della crescita occupazionale risulta in risalita costante, allineandosi ai livelli pre-crisi del 2007, cioè quando le stime parlavano di circa venticinque milioni di occupati sul territorio nazionale. Il motore di questa crescita è però alimentato da posti di lavoro con contrattualizzazione a termine, part-time o occasionale: si lavora meno ore rispetto a dieci anni fa, inquadrati in mansioni più precarie di prima: «poco male, si potrebbe dire – scrive Internazionale nel 2017 – se fosse il frutto di una libera scelta: invece i dati Istat, […] registrano una forte crescita del part-time involontario – ossia quello imposto dalle aziende e non scelto dai lavoratori». I lavori a tempo determinato registrano così una crescita record, imponendosi come la forma contrattuale sotto la quale si assume la maggioranza dei lavoratori oggi.
Le politiche sul lavoro degli ultimi anni hanno contribuito all’affermazione di una nuova categoria di lavoro a tempo determinato. Un universo caratterizzato da mansioni brevi, discontinue – in ultima analisi – precarie. Le cause sono ovviamente molteplici: non sono solo le politiche economiche premono verso una precarizzazione della forza lavoro, ma anche l’automazione, che ha ridotto – a volte drasticamente – il tempo necessario per la produzione di beni e servizi gioca un ruolo determinante. Il lavoro per come oggi è inteso dal discorso politico sembra investito da un radicale mutamento.
Considerando la situazione odierna, dalla quale emerge l’evidenza che si lavora sempre meno ma sempre più a prestazione, che senso assume il lavoro oggi, quando esso viene filosoficamente interrogato?
La filosofia, per lunga tradizione, ha quasi sempre escluso il lavoro dallo spettro degli argomenti passibili di dissertazione. Tuttavia, lo scenario attuale non difetta di accenni al contrario. Tra i primi ad aver avviato il dibattito, troviamo André Gorz, filosofo francese attivo fino agli anni Novanta. Egli fu in grado di descrivere e analizzare quel nucleo di cambiamenti strutturali che investirono l’apparato produttivo francese ed europeo, cogliendo prima di altri le sorti del lavoro nella società industriale. Tra le sue opere più celebri, ricordiamo Addio al proletariato e Metamorfosi del lavoro.
In un intervista del 1991, egli commenta in maniera lapidaria la situazione lavorativa nei paesi industrializzati: «In passato, il termine impiego a termpo indeterminato si riferiva ad una situazione lavorativa in cui l’individuo si trovava a svolgere un lavoro full-time, che durava tutto l’anno, svolto dopo il conseguimento degli studi e fino alla pensione. Non rivivremo mai più questa situazione.» I motivi che Gorz riconosce come cause di innesco di questo cambiamento sono vari e differenziati.
Oltre alle trasformazioni tecnologiche, che fanno e faranno da sfondo alla questione lavorativa negli anni a venire, egli rileva una destrutturazione in senso verticale della classe lavoratrice messo in atto attraverso l’appropriazione di quelle rivendicazioni proprie dei subordinati, declinate in concordanza con gli scopi dell’aziendalismo. Ciò fu possibile attraverso un radicale ripensamento dei modi di organizzare il lavoro..
Fu in effetti una rivoluzione epocale, basata però su una semplice intuizione: contrarre l’occupazione attraverso una massiccia automazione dei lavori più monotoni e ripetitivi, affidando contemporaneamente mansioni complesse a team altamente specializzati le cui abilità non possono essere – ancora – automatizzate, esternalizzando in parallelo tutto quell’arcipelago di servizi e prestazioni d’opera poco qualificate o richieste a intermittenza: «il lavoro doveva essere reso più soddisfacente e autonomo grazie ad una certa ricomposizione delle mansioni. Mansioni relativamente complesse dovevano essere assunte da gruppi semiautonomi che potevano ripartirsi il lavoro come meglio credevano».
Emerge così una nuova figura: il «lavoratore di tipo nuovo»: motivato, spinto al rendimento da una moltitudine di privilegi che lo pongono in linea con l’interesse del datore di lavoro. Questa figura, «deve essere capace di iniziative rapide, deve cooperare col gruppo di pari […] in funzione della situazione; deve possedere autonomia e senso di responsabilità».
A questo nucleo di lavoratori, ben pagati e stimolati, fa da contraltare una manodopera periferica costituita dalla maggioranza dei lavoratori la cui prestazione viene fornita in appalto, siano essi in possesso delle qualifiche più richieste piuttosto che competenti unicamente nello svolgimento di mansioni di piccolo cabotaggio.
Al di là del caso individuale, questa sterminata massa di lavoratori rimane in balìa della fluttuazione occupazionale, sottoposta ai rischi delle congiunture economiche e suscettibile alle variazioni del mercato. La sicurezza lavorativa dei primi può darsi solamente a discapito della stabilità dei secondi: «La sicurezza del posto di lavoro nella società madre ha come rovescio della medaglia la precarietà occupazionale e la mancanza di sicurezza nel resto dell’economia. […] Dovunque, infatti, uno strato privilegiato di lavoratori stabili, legati alle loro imprese, fa contrasto con la massa crescente dei precari, degli assunti a tempo limitato, dei disoccupati e dei sottoccupati. L’integrazione nell’impresa di un nucleo di lavoratori di elite, […] è diventata una necessità tecnica per l’insieme delle industrie in via di robotizzazione»
L’etica del lavoro, il cui compito è legittimare l’esistenza di una minoranza di lavoratori il cui destino è reso più sicuro dal privilegio dell’impiego indeterminato nel tempo, è per Gorz un residuato di un modo di intendere il lavoro ormai spazzato via dalla contingenza storica.
Di fronte all’innegabile realtà della rarefazione delle mansioni, «l’esaltazione dello sforzo, l’affermazione dell’unità di mestiere […] non possono essere altro che l’ideologia di una elitè privilegiata che si accaparra le posizioni ben pagate. L’ideologia del lavoro, la morale dello sforzo diventano a questo punto la copertura dell’egoismo ipercompetitivo e del carrierismo: i migliori riescono, gli altri devono soltanto prendersela con sé stessi […]»
Come precipitato di questa trasformazione, rimane un’etica del lavoro profondamente escludente, che motiva una manodopera ancora difficilmente sostituibile, persuasa del fatto che la posizione da essa occupata sia dovuta ad una indefessa abnegazione ai propri compiti adesso gestiti in maniera più autonoma rispetto ai compiti dei più. La realtà descritta da Gorz mostra i tratti di una sostanziale diminuzione dell’offerta di lavoro: «Bisognerà pertanto nascondere il fatto che c’è un crescente eccesso strutturale di manodopera e una penuria strutturale crescente di posti di lavoro stabili e a tempo pieno; in breve, che l’economia non ha più bisogno – e avrà sempre meno bisogno – del lavoro di tutti quanti. E che, di conseguenza, la «società del lavoro» è destinata a scomparire: il lavoro non può più servire da fondamento all’integrazione sociale»
In un contesto che spinge con tutte le sue forze in direzione dell’espulsione del fattore umano dal processo produttivo, cercando così di consumare l’attuale – e per adesso necessaria – polarizzazione del lavoro in un orizzonte che rende la prestazione umana accessoria e interscambiabile, che significato è lecito attribuire all’attività lavorativa?
In altre parole, quando l’automazione raggiungerà un livello tale da fare meno anche di quei lavoratori stabili di cui Gorz parla – cosa che accadrà prima di quanto si pensi – verso che direzione tenderà il lavoro? Che significato senso incarnerà per l’individuo chiamato a tale attività? La questione, oggi, rimane più aperta che mai: «Tutti gli studi convergono nel mostrare che la rivoluzione numerica in atto conduce alla diminuzione della quantità di lavoro richiesto. Questo movimento induce una trasformazione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro a sfavore di quest’ultimo. Ma allora, il salario può restare lo strumento principale di emancipazione?».
Tra i meriti di André Gorz, vi è quello di aver posto l’attenzione su una sfida fondamentale per la società odierna: alla luce del presente a noi contemporaneo, segnato da sviluppi tecnici inimmaginabili anche solo dieci anni fa, che posto occuperà il lavoro in una società che di lavoratori sembra necessitare sempre di meno? Nel contesto di una comunità dove il lavoro non è più presupposto di socialità ed emancipazione, come si fa a trasformare la massa dei disoccupati in una collettività di individui liberati dal peso di guadagnarsi da vivere attraverso i lavori più instabili? Gorz risponderebbe che «per questa domanda si conosce, nel suo principio, la risposta: è la riduzione programmata, graduale e senza perdita di reddito reale, della durata di lavoro, accompagnata da una serie di politiche parallele che consentano al tempo liberato di diventare per tutti quello della libera realizzazione».
Oggi, nel momento storico in cui queste trasformazioni sembrano più reali che mai, di lavoro si parla troppo poco, e troppo spesso nei modi sbagliati. Il mondo tecnologico ha investito il lavoro in modi che non abbiamo ancora del tutto compreso, sorpassando il dibattito politico di più lunghezze, rendendolo così inadeguato. Eppure, lo svecchiamento del discorso politico sul lavoro può passare – forse – proprio dalla filosofia.
È ad essa che dobbiamo rivolgersi, se vogliamo separare il progresso dal profitto, cominciando così a immaginare un modello di sviluppo non quantificato in termini economici, ma di vita.
Per ulteriori informazioni potete consultare i seguenti testi:
– A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, critica della ragione economica, Bollati boringhieri, Torino, 1992;
– A. Gorz, J. Keane, C. Turner, What is left? Social change in Postindustrial age, Grand Street, N° 38 (1991), pp. 130-164;
– Roberta Carlini, Internazionale online, Cosa resta del mercato del lavoro dopo dieci anni di crisi, 18/12/2017. Link: https://www.internazionale.it/notizie/roberta-carlini/2017/12/18/lavoro-italia-dieci-anni-crisi
– Rapporto Istat “Il mercato del lavoro, verso una lettura integrata”. Link: https://www4.istat.it/it/archivio/207245