LA LIBIA OGGI. TRA IDENTITÀ, STORIA E CAOS
Ero a Tripoli tra la fine di Ottobre ed i primi di Novembre del 2013. Avevo preso alloggio in un modesto albergo di un quartiere tranquillo della capitale, Zawiya al-Dahmani, consigliatomi da amici. Ma furono gli stessi amici che mi suggerirono il trasferimento per qualche giorno in una casa di campagna a sud di Tripoli nella zona di ‘Ayn Zara, ospite di uno di loro. La situazione a Tripoli tra il 7 e l’8 di Novembre era divenuta incandescente a causa della violenza degli scontri, anche con armi pesanti, tra milizie contrapposte, in particolare quelle di Misurata vicine a Fajr Libya, ossia l’alba della Libia, milizie “islamiste”, e quelle di Fashlum, cioè i “rivoluzionari” che a Tripoli avevano condotto le operazioni contro Gheddafi nel 2011. Tornai a Tripoli per un ciclo di lezioni nella primavera del 2014. Mi accorsi che le mie preoccupazioni dell’anno precedente si erano concretizzate. Il 2014 rappresenta infatti l’anno di svolta per la situazione già drammatica della Libia. L’arrivo al governo di Tripoli degli Islamisti e l’occupazione della città da parte delle milizie sostenitrici di Fajr Libya e del Mufti al-Gharyani, favorirono il clima di scontro tra bande armate per il predominio ed il controllo dei quartieri della città, e del business legato al petrolio ed alle migrazioni. Non bisogna dimenticare che le zone interessate dal fenomeno della tratta dei migranti verso l’Italia sono le piccole città di mare vicine a Tripoli, quindi nella costa della cosiddetta Tripolitania. Alla fine del 2014 le statistiche raccontano che il numero dei morti in scontri tra le milizie in tutta la Libia furono, tra combattenti e civili, fu di 30 mila e che il dinaro libico crollò a livelli impensabili, neppure dopo gli avvenimenti del 2011, causando una crisi sociale ed economica mai vista prima in Libia, neppure al tempo delle sanzioni contro Gheddafi. L’Emigrazione di libici, soprattutto da Tripoli, verso la Tunisia raggiunse numeri preoccupanti per la stessa stabilità sociale del paese. Bisogna ricordare che la Libia conta circa 6 milioni di abitanti, pare che dal 2014 l’emigrazione libica verso la Tunisia e l’Egitto, paesi confinanti e verso altri paesi dell’Asia, abbia raggiunto il milione di persone. Un numero altissimo se si considera il totale degli abitanti, e un fenomeno sociale gravissimo se si aggiunge che negli ultimi due anni arriva in Italia anche una immigrazione libica illegale, la prima volta nella storia contemporanea della Libia indipendente. Caos, divisioni tribali e territoriali, disgregazione sociale e di gruppo sono alcuni elementi attorno a cui ruotano le analisi sulla Libia post “rivoluzionaria” (febbraio 2011). L’esistenza di più centri di potere a Tripoli e a Bengazi, di milizie corrotte e bande armate in guerra per il controllo del territorio e dei traffici interni, compreso quello delle migrazioni, interessi economici e finanziari contrapposti su cui muovono le fila burattinai esterni, Occidentali, ma anche turchi ed arabi del Golfo, nella regione di Tripoli e nel Fezzan, regione meridionale strategicamente importante tra Tchad e Mali (la Francia soprattutto), avvalorano l’idea del caos. Mentre l’Egitto del presidente ‘Abd al-Fattah al-Sisi si muove ad Oriente (Cirenaica) a sostegno dell’operazione politico-militare al-karama (dignità) del generale Khalifa Haftar, capo del riorganizzato esercito libico. Il generale Haftar, come qualcuno ricorderà, era stato dato per morto dal più grande giornale italiano, il Corriere della Sera, molto vicino al Governo italiano di allora, dopo l’operazione a cui il generale si era sottoposto in un ospedale parigino. Ma è solo caos, rivalità tribali, disgregazione del tessuto sociale? L’Italia che ritorna a guardare con interesse alla Libia, si può limitare ad un approccio che tenga conto solo di ciò, o ancora peggio della competizione con la Francia? La stampa italiana nei giorni scorsi ha narrato gli avvenimenti drammatici accaduti a Tripoli nel contesto della rivalità Italia – Francia / al-Sarraj vs Haftar. Non nego che la Francia non si muova in Libia, anzi va considerato che Parigi ha interessi antichi vero il territorio noto come Libia, fin dal tempo della conquista coloniale dell’Algeria nel 1830. Da ciò si può dire che la Libia resta dopo 7 anni ghanima, ossia bottino di guerra. Ma una finestra andrebbe aperta sulla società libica, sulle rivendicazioni ed i bisogni dei libici, e qualche cenno, pur minimo, andrebbe fatto alla storia di questo paese, legato all’Italia, nel bene e nel male, da antiche relazioni storiche e culturali.
Non entro nel merito degli ultimi avvenimenti di Tripoli, dove la situazione, nonostante la debolissima tregua voluta dall’ONU e sottoscritta da capi locali che però non rappresentano il popolo libico, rimane confusa e assai precaria. L’attacco di giovani di da’esh (Isis) alla sede della Società Nazionale del Petrolio, nel centro di Tripoli, ha un significato chiaro all’indomani della firma della tregua. Mentre nella notte tra il 10 e l’11 di settembre l’aeroporto di Ma’tiga nella parte est di Tripoli veniva bombardato con razzi, e rimane ancora chiuso. Dopo la distruzione dell’aeroporto internazionale nel 2014, l’attacco a Ma’tiga isola ancora di più la capitale libica, che, nonostante la tregua, è ostaggio delle bande armate e dei dawa’esh. La tregua è appesa a delicati equilibri tra le milizie armate, soprattutto tre: quella più forte di Tarhuna, città vicino Tripoli, sostenuta dal generale Haftar, che vuole ripetere l’operazione karama anche a Tripoli contro le milizie islamiste e i dawa’ish. Poi c’è quella al seguato del governo di Fa’iz al-Sarraj, riconosciuto legittimo dall’Occidente e dall’Italia, ma senza un vero consenso all’interno neppure in Tripolitania. Va citato infatti che nei giorni tra il 9 e il 11 di settembre violente manifestazioni sono state organizzate a al-Zawiyya sulla costa ad ovest di Tripoli, contro il governo al-Sarraj, e che la città di al-Zawiyya è in mano a molti dawa’ish ed è un centro di business delle migrazioni illegali. Infine la terza milizia è quella derivata dalla ricomposizione delle bande “rivoluzionarie” nate nel 2011. Sulle figure qui citate non spendo parole, poiché chi vuole trova biografie, più o meno veritiere, accettabili comunque, su wikipedia. Non essendo un analista di geo-politica, mi interessa invece proporre un riflessione, che va al di là delle tre cose sopra ricordate (caos, divisioni tribali e territoriali, disgregazione sociale) e che possa risultare utile all’Italia ed a quegli italiani interessati a capire la Libia e la sua società.
La società libica si presenta sicuramente composita e diversa da quella caratterizzata dalla cosiddetta organizzazione tribale. Il radicamento nel territorio, o meglio in gihat (parte, quartiere, ente, distretto amministrativo) piuttosto che nella tribù, ha modificato nel tempo, dall’indipendenza ad oggi, le tradizionali appartenenze. Nonostante i profondi cambiamenti conseguiti all’urbanizzazione, dalla tribù al gihat, quel che è risultato evidente in questi sette anni di “rivoluzione” e/o caos (al-fawdà), è un senso di appartenenza al Watan e alla wataniyyah, patria e patriottismo, carente ed inadeguato alla drammatica crisi che vive il paese. Su ciò trovai conforto in un articolo di al-Badri al-Sharif al-Mana’i, pubblicato nella rivista “Libiya al-Mustaqbal” (22-3-2015). Si tratta di un breve articolo che ha al centro dell’analisi il dibattito sulla Costituzione in Libia. Al-Mana’i non fa riferimento alla tradizionale analisi sulla composizione e scomposizione della società libica, secondo cui la Libia, ai fini della riconfigurazione politico-statuale, non rappresenterebbe un paese omogeneo, ne dal punto di vista etnico ne da quello ideologico. Al-Mana’i si chiede invece quale è il vero interesse (maslahah) del popolo libico in un contesto contrassegnato da assenza di patria (al-watan gha’ib) e del senso stesso della patria (watan e al-wataniyya). Si chiede infatti al-Mana’i: chi è il muwatin “cittadino” libico, che cosa significa essere parte del popolo (al-sha’b) in Libia? Quindi quali sono i veri interessi nell’immagine e nella percezione della costruzione del futuro a parte la ripetizione quasi ossessiva del inshallah khayr (se Dio vuole sarà il bene)? La posizione dei gruppi e movimenti politico-militari che si contendono la costruzione dello Stato in Libia, e quella della gran parte della società coincidano, se pur da prospettive diverse: la Libia è ghanimah, bottino di guerra, sottolinea al-Mana’i. Il quale afferma che se la gran parte dei gruppi politici rappresenta solo se stessa e si muove al fine di affermare i propri interessi particolari, anche la parte sociale o cosiddetta società civile rimane di tipo fluttuante e si muove all’interno del particolare quadro di assenza di una “patria unica dal nome Libia”. Resta insoluto quindi il problema di definire dopo 7 anni di conflitti il senso di dipendenza, connessione, appartenenza, attraverso cui tentare di configurare in maniera moderna il rapporto tra élites e cosiddetta società civile nel quadro dello stato di diritto (dawlat al-qanun wa’l-mu’assasat) in un quadro di sicurezza e stabilità (al-amn wa’l-istiqrar) e sovranità nazionale.
L’Occidente e la Nato, non l’Italia, spingono perché la Libia vada a votare entro l’anno, questo è almeno l’auspicio di alcuni anche in Libia. Credo che sarà impossibile, considerata la situazione attuale e a Tripoli in particolare. Aggiungo che nelle prossime settimane l’esito della battaglia di Idlib nella Siria del Nord, che, a meno di un intervento diretto degli Stati Uniti e dei paesi europei della Nato, sarà favorevole all’esercito arabo siriano, potrebbe rendere più instabile la situazione anche nella Libia orientale. Dalle notizie che arrivano dalla Turchia, pare che Ankara potrebbe trasferire migliaia di qa’idisti, oggi a Idlib, nella regione libica confinante con l’Egitto. Allora il problema non è elezioni si, elezioni no, ma è il recupero della storia, del passato e della memoria, che restano in Libia oggi, ancor più di prima, un problema irrisolto, mancando la consapevolezza di una scienza della padronanza del passato e coscienza del tempo.
La storia è narrazione ed insieme problema, ta‘rif al-waqt scriveva Ibn Manzur nel celebre Lisan al-‘Arab. Essa è movimento e cambiamento ininterrotto, si afferma. E’ nel Corano che la storia è vista unità di tempo, dove passato, presente e futuro non sono separabili. La storia è inoltre movimento che ha uno scopo. Ha una ragione finale che volge lo sguardo al futuro, cioè, essa non è un semplice movimento determinato dalla causa e/o legato alla sua causa, al suo passato, ma è teso allo scopo finale nel futuro. Nel senso che il futuro è il vero motore di ogni vitalità della storia. Il futuro è, nella realtà, ciò che spinge in avanti l’uomo in base alla sua esistenza intellettiva. Da ciò deriva il ruolo decisivo dell’uomo nell’attività di realizzazione del movimento della storia. Ne deriva che compito precipuo dello storico è quello di acquisire con precisione, ed essere in grado di valorizzare, la nozione del tempo e quindi la complessa relazione tra tempo e spazio. La storia è opera di trasformazione e di cambiamento, essendo costituita da una serie di passaggi “da una situazione ad un’altra”, come si evince dalla lettura coranica. Non a caso gli avvenimenti che accadono nei singoli paesi si combinano con quanto avviene negli altri ed incide sulla politica del mondo nel suo insieme. Come è stato possibile allora che la Libia venisse definita, nell’alveo della visione coloniale, o dal colonialismo europeo derivata, regno del vuoto e creazione recente?. Venisse considerata territorio ottomano le cui province erano separate senza alcun rapporto tra loro? Nella saggistica coloniale si sottolineava l’occasionalità dei rapporti tra popolazioni dell’interno e quelle delle zone costiere e urbanizzate. La Libia prima della conquista italiana sarebbe stata una federazione di province senza passato. Ne derivava la negazione del sistema delle aree comunicanti o dei diversi cerchi o da’irat, combinati tra loro. Era l’affermazione di una visione separante, che però viaggiatori e geografi italiani ed europei che visitarono il territorio libico nel sec. XIX non avevano riscontrato, sottolineando invece una realtà diversa.
Gli Arabi contemporanei, seguendo antiche riflessioni,hanno considerato il deserto non il vuoto, anzi un passaggio di ondate umane tra magribini e orientali. Nel contesto di tale “attraversamento ondulatorio” la Libia, si sottolinea, era “la porta principale di ingresso in Ifriqiyyah”, quindi verso ovest, e dalla Libia le carovane commerciali si dirigevano verso il lago Tchad, al sud. Da qui l’importanza del territorio inteso come parte di una totalità “juz’un”, una parte che non si divide dal mondo dell’arabismo e dell’islam.
Negli anni cinquanta il noto scrittore libico ‘Ali Mustafà al-Misrati usava in modo ricorrente le seguenti espressioni e terminologia per indicare paradigmaticamente il ruolo di Tripoli: bab al-Magrib (porta del Maghreb); ma‘bar (punto di attraversamento) e sabil (cammino attraverso cui arrivare in altro posto) per orientali e magribini; anche mahattah (luogo di sosta e stazione di un cammino). Mentre lo storico libico al-Mazini sottolineaa il ruolo di marhalah fi tariq (stazione di sosta durante n cammino), e quello di halqah li’l-wasl ossia anello di giunzione tra Mashrek e Maghreb: “la Libia è stata porta d’ingresso (madkhal) dell’arabismo e dell’islam, della civiltà islamica verso Occidente. Nello stesso tempo porta verso l’oriente e il cuore del mondo islamico”. E’ l’idea di “wasl” che viene affermata, che rendiamo col senso di concatenazione in rapporto all’azione di mettersi in movimento (intiqal e irtihal).
Da ciò deriva che il collegamento ed il vincolo devono intendersi come azione di mettersi in relazione con qualcuno, appartenere a qualcuno, derivare la propria origine da un determinato legame. La forma verbale “yasiluna ilà” (legarsi a) e quella di “yantasibuna ilà” (derivare la propria origine da) sono qui connesse. L’essere con-giunto è quindi il contrario dello staccarsi da qualcuno, ossia dal troncare le relazioni con qualcuno. E’ questa la definizione di appartenenza che nella storia della Libia islamizzata ha superato il ricordato ordinamento tribale, che pur esiste. Essa trova riscontro nelle opere dei geografi arabi d’epoca classica, nella storiografia arabo-libica moderna e nella letteratura religiosa musulmana d’ambito libico. Non a caso annotava l’islamista francese Robert Mantran: «et pourtant la Libye n’a pas été absente de l’histoire;.. elle a sourtout, par sa situation, joué un role d’intermédiaire entre l’occident nord-africain et la vallée du Nil, entre les pays au sud du Sahara et la cote méditerranéenne. Ce role de lieu de passage se reflète dans les divers peuplements».
Aggiungo per concludere che la composita società libica non ha giocato solo ruolo di intermediario, ma il ruolo di passaggio, come gli stessi autori libici sopra citati sottolineano, significò anche il riconoscersi in una entità definita fondata su più cerchi o da’irat, e consapevolezza di appartenere ad uno spazio storico-culturale la cui caratteristica fu quella di iltiqa’ (luogo di incontro). E’ cio che oggi dall’esterno, con l’appoggio di capi locali, non si vuole che venga ricostruito dopo il disastro del 2011o kharràb. L’Italia, se vuole veramente ritrovare spazio in Libia e nel Mediterraneo in generale, deve favorire un approccio storico-culturale che tenga conto della cultura e delle tradizioni del popolo libico, senza privilegiare una parte sull’altra e avendo consapevolezza che la politica nei riguardi della Libia non può essere dettata solo dalle scelte dell’ENI o dalla questione delle migrazioni. Problemi questi veri ed importanti per un paese come l’Italia, ma la Libia è anche altra cosa.