La lunghissima durata della questione meridionale
Il ritorno della lunga durata nella ricerca storica
Il Manifesto per la storia degli storici statunitensi David Armitage e Jo Guldi (1) ha denunciato la crisi profonda che attraversa questa disciplina. Già dopo la pubblicazione della prima edizione, nell’ottobre del 2014, esso ha suscitato grande interesse e reazioni contrastanti sia in ambito accademico che nei media di tutto il mondo, come raramente si è visto per un libro di storia, divenendo da subito un caso editoriale (2). La tesi centrale è la guerra al cosiddetto short-termism, il virus che secondo gli autori, in un arco di tempo compreso tra il 1975 e il 2005, ha contaminato la ricerca storica; le cause di questa svolta vengono fatte risalire da Armitage e Guldi a vari fattori: in primo luogo l’affermarsi a livello internazionale nel corso dei primi anni settanta di una nuova generazione di storici – cresciuti nelle università europee dopo i fermenti del 1968 – che «avevano sperimentato un approccio al passato molto diverso da quello dei cultori della longue durée della generazione precedente» (3). In secondo luogo l’abbandono delle prospettive di lunga durata e il culto del «Passato breve» che ha prodotto la nascita di «quella scuola fondamentalista fautrice della necessità di restringere gli orizzonti temporali che venne definita “microstoria”» (4).
Una serie di svolte
Il crescente sospetto per le grandi narrazioni da un lato, la tendenza a privilegiare la «storia dal basso» da un altro, mettendo in secondo piano la storia delle élites, ha aperto la strada a una successiva serie di «svolte» che è stata descritta dagli autori seguendo questa sequenza concatenata di passaggi: la svolta linguistica ha spianato la strada a un’ampia ripresa della cultural history per arrivare alla storia transnazionale, a quella imperiale e alla storia globale. Ma Armitage e Guldi hanno anche sostenuto che è in atto un ritorno alla lunga durata che si è manifestato nella storiografia internazionale negli ultimi anni come conseguenza delle riflessioni che si sono sviluppate in relazione ai cambiamenti climatici e più in generale alla difesa dell’ambiente; potendo utilizzare una gamma sempre più ampia di documenti digitalizzati e big data la storia può offrire strumenti interpretativi sul futuro della sostenibilità, può analizzare le cause che hanno ostacolato il percorso delle singole comunità nazionali verso la realizzazione di una società più giusta e più ecologicamente equilibrata, può indagare la storia dell’Antropocene e può far emergere le responsabilità di quanti hanno lavorato nelle ultime decadi alla sistematica distruzione dei beni comuni prodotti nel corso dei secoli passati (5).
Una crisi generale delle scienze umane
Armitage e Guldi hanno precisato, poi, in quale ambito il grande storico francese Fernand Braudel coniò l’espressione longue durée; essa fu generata da una “crisi generale delle scienze umane”, come ha scritto lo stesso Braudel. Alla luce degli odierni dibattiti sul futuro delle discipline umanistiche e delle scienze sociali la natura di quella crisi appare per certi aspetti familiare: un’esplosione di conoscenze, accompagnata da una proliferazione di dati; una generale preoccupazione riguardo ai confini disciplinari; la percezione di una mancata cooperazione fra ricercatori attivi in ambiti di studio contigui; le lamentele per la stretta soffocante di “un umanesimo retrogrado, insidioso”: tutti aspetti di cui si possono trovare paralleli nella nostra epoca. Braudel si doleva del fatto che le altre scienze umane avessero trascurato lo specifico contributo della storia per trovare una soluzione alla crisi, una soluzione che andasse al cuore della realtà sociale da lui ritenuta il punto focale di ogni indagine umana; era essenziale quindi rivolgersi a un orizzonte temporale diverso, a una storia misurata in termini di secoli e di millenni: “la storia di lunga, addirittura di lunghissima durata” (6).
Per Braudel il concetto di lunga durata faceva parte di una gerarchia di dimensioni temporali che strutturano tutta la storia e che si intersecano senza escludersi reciprocamente; ne aveva fornito una descrizione nella prefazione del 1946 al suo capolavoro, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, uscito nel 1949, illustrando le tre storie che in quell’opera vengono narrate: una storia quasi immobile relativa agli esseri umani che vivono nel loro ambiente fisico; una “lentamente ritmata”, quella degli Stati, delle società e delle civiltà; una infine più tradizionale, centrata sugli eventi, quella evenemenziale, “dalle oscillazioni brevi, rapide, nervose” (17).
La Civiltà Appenninica (8)
La causa vicina dell’arretratezza del Mezzogiorno è la sua mancata partecipazione a quella che gli storici chiamano la ‘rivoluzione borghese dei Comuni’: quella che nel Basso Medio Evo, a partire dal XII/XIII secolo, prima nel Nord e poi nel Centro, vide l’emergere di una nuova classe borghese, imprenditoriale e mercantile, che portò all’affrancamento dei Comuni, intesi appunto come ‘comunità borghesi’, dal feudalesimo e all’affermazione dei nuovi valori dell’individualismo e del successo personale come prova di distinzione, in opposizione ai valori feudali della ‘nobiltà di sangue’ e dell’ereditarietà aristocratica. Tale mancata partecipazione segnò l’inizio di una profonda differenziazione nel destino delle due metà della penisola: soggetto attivo che la nuova classe borghese, nonostante l’eredità feudale e la presenza della Chiesa, spinse verso il futuro, il Nord-Centro; oggetto passivo, docile strumento nelle mani di potenze straniere e locali, il Sud e le isole.
Preso atto di questo fondamentale spartiacque medievale fra Nord-Centro e Sud lo studioso che dia un senso profondo ed autentico alla nozione delle ‘origini’ di un fenomeno non potrà fermarsi qui ma si domanderà da cosa, a sua volta, possa derivare questa mancata partecipazione del Sud e delle isole alla rivoluzione comunale borghese. Perché nel Sud non vi fu questa fondamentale svolta? Ed è qui, nella ricerca della causa lontana dell’arretratezza del Sud, che si entra nel vivo della questione (9). Occorre anzitutto ricordare le conclusioni di straordinaria importanza che l’archeologia moderna ha raggiunto nei riguardi dell’Italia (e dell’Europa). In particolare, nel periodo della prima Età del Ferro (1000-700), cioè quello che precede ed accompagna la fondazione di Roma, «l’Italia centrale.si presenta […] come la continuazione di quella [del] Bronzo finale» (10) e poiché questa conclusione vale anche per l’Europa (11), dobbiamo considerare l’Età del Bronzo, a tutto diritto, come la diretta matrice delle società europee moderne e, per quanto riguarda l’Italia, della stessa civiltà romana. Prima ancora della fondazione di Roma, dunque, la distribuzione delle facies culturali dell’inizio del Ferro «assomiglia ormai alla divisione amministrativa augustea dell’intera area» (12); nell’«articolato sistema insediamentale [dell’Italia mediana dell’VIII secolo] si può già riconoscere l’organizzazione ‘paganico-vicanica’ tipica delle popolazioni italiche di età storica» (13) e proprio in Italia meridionale è durante la prima Età del Ferro «che giunge a compimento il processo di formazione delle singole unità etniche dell’Italia storica» (14).
Un’economia pastorale di tipo transumante
A partire, poi, dall’Età del Bronzo Medio (1700-1150) tutta l’Italia centro-meridionale, più l’Emilia Romagna – con ulteriore estensione, più tardi, anche alle isole e alla Corsica – venne interessata ed unificata da una grande cultura caratterizzata da un’economia pastorale di tipo transumante, detta Appenninica (15). Questa cultura emerse proprio nel Sud, alla fine del III millennio e al principio del II, prima come Protoappenninica (16) poi nel corso del Bronzo Medio raggiunse la sua massima estensione areale come Appenninica e Subappenninica e infine, nel Bronzo Finale e nella prima età del Ferro, con il declino della Cultura Appenninica, la crescente diffusione dell’influenza della Cultura delle Terremare emiliane e l’emergere, in tutta Italia, del Protovillanoviano si divise in due: nell’area del Centro-Sud, a sud del Tevere, prese la forma storica della Civiltà Italica e nel resto dell’area, a nord del Tevere, prese la forma storica della Cultura di Villanova (Emilia, Toscana e Lazio) da cui emersero prima l’Etruria e poi Roma (17). Ma è opportuno anche ricordare la millenaria durata e il grande ruolo, come potente fattore di unificazione, dei tratturi, i percorsi della transumanza dai pascoli estivi appenninici ai pascoli invernali sulle due sponde della penisola. Lo hanno notato gli archeologi per spiegare la diffusione degli stessi aspetti culturali preistorici in tutto il centro-meridione della penisola italiana in questo periodo (18) e lo hanno notato anche i linguisti per spiegare la «forte unità» degli odierni dialetti dell’Italia centro-meridionale (19). Una conoscenza, anche superficiale, della terminologia pastorale dell’Italia centro-meridionale permetterebbe di verificare il suo carattere fondamentalmente unitario e di dimostrare, quindi, che essa non può che derivare dall’unico contesto che vide tutta l’Italia centro-meridionale culturalmente unita in chiave, appunto, pastorale: la Cultura Appenninica del Bronzo Medio (20).
La storica arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno
Spesso gli storici e gli economisti trovano difficoltà a misurarsi col problema dell’arretratezza del Mezzogiorno; secondo l’interpretazione prevalente questo problema data da quasi mille anni e storici ed economisti rifuggono da analisi così estese nel tempo. I primi – con la grande eccezione di Giuseppe Galasso – ritengono in genere che la ricerca debba limitarsi a periodi ben più ristretti, i secondi si limitano all’esame del presente e dell’immediato passato. In tal modo, però, questi studiosi rinunziano a indagare sui processi di fondo che hanno prodotto e riprodotto per secoli l’arretratezza del Sud e spesso trascurano la continuità di questi processi per sottolineare differenze e particolarità di ciascun periodo o regione (21); così perdono di vista quella che Galasso ha chiamato “la sostanziale permanenza di un certo indirizzo degli equilibri (o squilibri) strutturali e sociali” del Mezzogiorno (22). La stessa cosa vale per “l’equilibrio agrario-mercantile” che si impianta sin dal XII-XIII secolo fondandosi su rapporti “di dipendenza e di subalternità” ai “dominatori del grande mercato” europeo e che, come la feudalità, dura fino alla fine del regno di Napoli e lo stesso vale ancora per l’appoggio dato a mercanti e finanzieri stranieri, per la prevalenza dell’investimento immobiliare e in titoli pubblici, per l’importanza data agli status symbol (23). Galasso aggiunse che nell’Italia post-unitaria il divario Nord-Sud era “la prosecuzione di una condizione, di lontana origine, del Mezzogiorno, perpetuatasi attraverso i secoli rispetto alle potenze economiche dell’Italia settentrionale e, poi, anche di altre parti d’Europa” (24).
I fattori di fragilità della struttura dell’economia meridionale
I fattori di fragilità della struttura complessiva dell’economia meridionale nel corso del Mezzogiorno moderno (un Mezzogiorno comprendente la parte continentale, la Sicilia e la Sardegna e che va dall’inizio del Viceregno spagnolo nel 1503 alla fine del Regno delle due Sicilie nel 1861) sono stati schematicamente individuati. Essi sono:
- la prevalenza del sistema feudale, forze produttive e rapporti sociali di produzione condizionati dalla giurisdizione, da un insieme, cioè di diritti-privilegi che gravano sul possesso terriero, formano generalmente la maggior parte della rendita agricola della signoria terriera e frenano la proprietà nella promozione di innovazioni tecnologiche e miglioramenti nella gestione della terra;
- un’economia agricola fondata prevalentemente sul trinomio cereali-olio-vino, seta, prodotti particolarmente esposti all’andamento climatico, al ciclo epidemia-carestia-epidemia, alla disponibilità di manodopera, al gioco della domanda e dell’offerta internazionali;
- il deficit quasi permanente della bilancia dei pagamenti e del rapporto import-export;
- la debole attività manifatturiera, caratterizzata da piccole industrie a domicilio, prodotti semilavorati, scarsa disponibilità di capitali privati per investimenti, assenza di innovazione tecnologica;
- la dipendenza da operatori d’affari e mercanti stranieri;
- la pressione fiscale, sproporzionata rispetto alle capacità produttive, una giungla di giurisdizioni differenti e concorrenti sullo stesso territorio: Stato, Chiesa, feudalità laica ed ecclesiastica, comuni, ecc.;
- un sistema fiscale che sostiene il debito pubblico: cioè non è solo impositivo e squilibrato, perché colpisce in prevalenza ceti deboli e risparmia i ceti dotati di immunità e privilegi, ma anche distributivo perché alimenta la finanza pubblica ed è strumento di introiti per soggetti diversi che investono nelle voci di imposta, del debito pubblico (non solo nobiltà, mercanti, operatori finanziari, ma anche enti assistenziali, opere pie, enti ecclesiastici, ecc.);
- la persistenza di alcuni di questi caratteri, tra cui la bassa intensità di capitale delle aziende, la committenza statale che le sostiene, la forte esposizione alla congiuntura internazionale, anche nel periodo successivo alla fine dell’antico regime (25).
Fino al Seicento la struttura avviata nel medioevo permase incontrastata e consolidò i caratteri pre-moderni dell’economia, della gerarchia sociale, dei valori; nacquero così il familismo amorale, il mancato riconoscimento dell’interesse pubblico, la visione strumentale delle norme e dei suoi apparati (26). Nel Settecento si vide qualche timido tentativo, fallito, di modernizzazione; nel secolo XIX ci furono le leggi eversive della feudalità, dei sovrani napoleonici; quindi gli insediamenti industriali protetti, con capitali stranieri, promossi dai Borboni. Con l’Italia unificata ci fu il primo cambiamento radicale; vennero introdotte l’istruzione elementare obbligatoria; la ferma militare; strade e ferrovie; scuole, farmacie, carabinieri; tutto ciò provocò un certo miglioramento nella vita dei contadini; permise l’emigrazione massiccia, che alleggerì l’oppressione nelle campagne e fece crescere un ceto medio che in parte era indipendente dagli agrari ma fino al secondo dopoguerra l’arretratezza e le sue logiche prevalsero (27).
Il salto decisivo
Il salto decisivo avvenne solo nella seconda metà del secolo XX; in meno di venticinque anni il Sud passò dalla situazione di miseria e di isolamento descritta da Carlo Levi e da Edward Banfield a un tenore di vita simile a quello raggiunto dall’Inghilterra in più di cento anni di sviluppo. Crebbero i consumi, la scolarizzazione, il lavoro extra-agricolo, l’industria, le abitazioni moderne, le strade, le comunicazioni, l’istruzione universitaria, il ceto medio (28). Tuttavia, questo rapidissimo cambiamento nel livello dei consumi e dei servizi, e il relativo cambiamento nella produzione, non furono dovuti ad un aumento della produttività e all’affermarsi del profitto, come reddito fondamentale, al posto della rendita agraria; la causa, com’è noto, furono i finanziamenti pubblici, sia nella produzione che nella spesa sociale. Questo permise alle vecchie élite borghesi e ai vecchi valori pre-moderni di sopravvivere, in forma camuffata, all’interno della (presunta) modernità della società meridionale (29). Si accentuò il sottosviluppo, cioè lo sviluppo parziale e distorto, funzionale all’economia più forte; si riprodussero schemi di comportamento anti-moderni; si riprodussero le rendite e i privilegi, non più in forma di rendita agraria, ma soprattutto come gestione privatistica del denaro pubblico, e come speculazione fondiaria per l’urbanizzazione. In questo senso i tre fattori originari dell’arretratezza, nonostante tutti i cambiamenti, continuarono a impedire lo sviluppo del Sud (30).
Continua…
Franco Pelella
Note:
- DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi (ed. or. 2014); Donzelli, Roma, 2016.
- RENATO CAMURRI: La storia, bene comune, introduzione a DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. VII.
- DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. 77.
- DAVID ARMITAGE, JOE GULDI: Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi, cit., p. 87.
- RENATO CAMURRI: La storia, bene comune, cit., p. XII.
- FERNAND BRAUDEL: Storia e scienze sociali. La “lunga durata” (ed. or. 1958), in ID.: Scritti sulla storia; Arnoldo Mondadori, Milano, 1973, p. 60.
- FERNAND BRAUDEL: Prefazione (1946), in ID.: Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II; Einaudi, Torino, 1953, p. XXXIII.
- Devo la ricostruzione delle origini preistoriche della Civiltà appenninica al grande linguista Mario Alinei (Per la descrizione della sua carriera accademica e delle sue opere si veda HARALD HENDRIX: In memoriam Mario Alinei (1926-2018), in “Incontri”, Anno 33, 2018 / Fascicolo 2 / p. 146-147). Egli cercò di ricostruire le origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta scrivendo, nel 2007, un bellissimo articolo (Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta: un esperimento di Archeologia Etimologica, in “Quaderni di semantica”, anno VIII, n. 2, dicembre 2007). Questo articolo, però, ha il difetto di indagare sulle origini preistoriche di queste organizzazioni criminali e non sulle loro radici preistoriche perché è oramai acclarato che esse sono nate non prima del 19° secolo. Questo errore di valutazione non inficia, però, la validità dell’articolo perché egli, indagando su mafia, camorra e mafia, ha comunque evidenziato benissimo le radici preistoriche della mentalità collettiva e dei comportamenti violenti di una fascia consistente della popolazione meridionale. Considero Mario Alinei alla stessa stregua di uno scienziato che volendo fare una determinata scoperta ne ha fatta un’altra altrettanto importante. Al suddetto articolo di Mario Alinei mi sono ispirato anche nella stesura di un mio precedente lavoro (Le origini preistoriche della civilizzazione degli italiani (2021), https://francopelella.blogfree.net/?t=6329615 e https://www.academia.edu/70874151/LE_RADICI_PREISTORICHE_DELLA_CIVILIZZAZIONE_DEGLI_ITALIANI).
- MARIO ALINEI – Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta: un esperimento di Archeologia Etimologica, cit. p. 249.
- RENATO PERONI: L’Italia alle soglie della storia, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 430.
- MARIO ALINEI: Origini delle lingue d’Europa II: Continuità dal Mesolitico all’età del Ferro nelle principali aree etnolinguistiche; Il Mulino, Bologna, 2000.
- ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, in ALESSANDRO GUIDI, MARCELLO PIPERNO: (a cura di): Italia preistorica; Laterza, Bari, 1992, p. 421.
- ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, cit., p. 435.
- ENRICO PELLEGRINI: Le età dei metalli nell’Italia meridionale e in Sicilia, in ALESSANDRO GUIDI, MARCELLO PIPERNO (a cura di): Italia preistorica, cit., pp. 505-506.
- SALVATORE PUGLISI: La Civiltà Appenninica, Firenze, Sansoni, Firenze, 1959; GRAEME BARKER: Ambiente e società nella preistoria dell’Italia centrale (ed. or. 1981); Carocci, Roma, 1984 ; ALESSANDRO GUIDI: Le età dei metalli nell’Italia centrale e in Sardegna, cit., pp. 422 e 436.
- GRAEME BARKER: Ambiente e società nella preistoria dell’Italia centrale, cit., p. 99
- MARIO ALINEI – Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘drangheta, cit., pp. 251-252.
- ANNA MARIA BIETTI SESTIERI: Rapporti e scambi fra le genti indigene del bronzo e la prima età del ferro nella zona della colonizzazione, in GIOVANNI PUGLIESE CARRATELLI (a cura di): Magna Grecia. Il Mediterraneo, le metropoleis e la fondazione delle colonie; Mondadori Electa, 1985, pp. 85-126; ENRICO PELLEGRINI: Le età dei metalli nell’Italia meridionale e in Sicilia, cit., p. 488.
- UGO VIGNUZZI, FRANCESCO AVOLIO: Per un profilo di storia linguistica ‘interna’ dei dialetti del Mezzogiorno d’Italia, in GIUSEPPE GALASSO (a cura di): Storia del Mezzogiorno, vol. IX; Edizioni del Sole, Napoli, 1993, p. 641.
- MARIO ALINEI – Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ‘ndrangheta, cit., p. 252.
- COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno. Le idee, l’economia, la storia; Bruno Mondadori, Milano, 2012, p. IX.
- COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. IX.
- GIUSEPPE GALASSO: Storia del Regno di Napoli, vol. VI: Società e cultura del Mezzogiorno moderno; Utet, Torino, 2011, pp. 595-6.
- GIUSEPPE GALASSO: Storia del Regno di Napoli, vol. VI: Società e cultura del Mezzogiorno moderno, cit., p. 598.
- AURELIO MUSI: Mezzogiorno moderno. Dai Viceregni spagnoli alla fine delle due Sicilie; Salerno Editrice, Roma, 2022, pp. 24-25.
- COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XI.
- COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XI.
- COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., pp. XI-XII.
- COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XII.
- COSIMO PERROTTA, CLAUDIA SUNNA (a cura di): Prefazione a ID:: L’arretratezza del Mezzogiorno, cit., p. XII.