La pedagogia contro la Storia
Dovrebbe suscitare una forte reazione critica da parte del mondo della cultura la decisione del ministro Valditara di insediare una Commissione con lo scopo di redigere le nuove linee guida per gli ordinamenti scolastici del primo e secondo ciclo di istruzione. Soprattutto perché a far parte di detta Commissione sono stati chiamati esclusivamente pedagogisti, in linea con quel principio che ha guidato la politica scolastica in Italia negli ultimi tre decenni, fondata sulla relativizzazione del sapere disciplinare, considerato esclusivamente “apparato servente” per l’acquisizione di competenze, che i pedagogisti sarebbero gli unici a poter individuare. Che cosa esse siano, nonostante la sicumera di molti “scienziati dell’educazione”, è ancora tutto da stabilire; quel che è certo è che le stesse vengono sempre declinate in un’ottica per lo più economicistica, e in ogni caso esclusivamente pratica. Di conseguenza, come ha affermato più volte lo stesso ministro, non si può più indulgere a uno studio dedicato a discipline che si valorizzano solo dal punto di vista culturale, e che producono disoccupazione. Bisogna invece implementare capacità intellettuali di progettazione, di inserimento in un lavoro di gruppo (quasi sempre etero-diretto), per agire in modo efficiente in vista di risultati concreti (in campo storico, per esempio, più che dedicarsi allo studio del passato, sarebbe più opportuno iniziare immediatamente con la “ricerca storica”, magari limitandosi al proprio orizzonte territoriale, se non familiare). Bisogna quindi mutare la forma mentis del discente; proponendogli modalità di lavoro che evitino le sfide di quei contenuti capaci di mettere in crisi il senso comune, lo sottraggano alla “fatica del concetto” o allo sforzo legato a ogni attività di comprensione e interpretazione. Niente di meglio allora che affidarsi allo scientismo pedagogico, e alla sua pretesa di saper individuare le procedure attraverso cui si realizza l’apprendimento.
Poiché si tratta di una procedura etero-diretta, che condiziona la libertà dell’intelligenza di orientarsi in modo critico secondo esigenze personali, servono alcune strategie retoriche per affermarne l’irrinunciabilità, in particolare la validazione scientifica della teoria dell’apprendimento. «Una società avanza se c’è una scienza, io sono uno scienziato dell’apprendimento e dell’educazione, se il Ministro non mi ascolta vuol dire che si è rotto qualcosa, è come se un ospedale venisse gestito senza i medici, non è possibile.» Queste affermazioni del pedagogista Daniele Novara sono indicative e involontariamente rappresentative, grazie al paragone con la medicina, di quel fenomeno di “medicalizzazione” verso cui indulge l’attuale organizzazione della scuola nei confronti del dialogo educativo: sostituire alla relazione la terapia, che solo un’autorità scientifica può indicare a quegli “operatori”, i docenti, che la devono somministrare. In realtà siamo di fronte alla distruzione sistematica della migliore tradizione pedagogica, che ha sempre coltivato se stessa in relazione con il più rappresentativo pensiero filosofico, e si è sempre concepita come disciplina intrinsecamente pluralista, dove teorie concorrenti possono convivere e godere di eguale legittimità. E, d’altra parte, basta leggere le riflessioni, radicalmente differenti e ben più convincenti, di pedagogisti come Gert Biesta, Henry Giroux, ma anche di sociologi e psicologi come Christian Laval e François Vergne, per comprendere come questa pretesa sia infondata.
Per quanto riguarda la storia (ma il discorso coinvolge evidentemente qualsiasi campo disciplinare), è inutile ribadire in queste righe l’incompatibilità -potremmo dire ontologica- tra la storia come disciplina (e la storicità come orizzonte d’esperienza cui la disciplina si dedica) e l’inquietante (perché dall’atteggiamento intrinsecamente totalitario) didattica per competenze. Su “l’Identità di Clio” abbiamo più volte ribadito questo assunto; ma, al di là di ciò, basterebbero le autorevoli prese di posizione, tra gli altri, di Adriano Prosperi, Aurelio Musi, Piero Bevilacqua, Francesco Germinario e altri. Risulta perciò assurda una Commissione che non preveda il confronto con gli esperti delle discipline; forse perché, in quel contesto, emergerebbero tutti i limiti intellettuali della pretesa scientista dei pedagogisti. Dovrebbero essere in primo luogo i docenti delle Università, e tra questi gli storici, a protestare in modo vibrante (non con quei toni dimessi e disposti al compromesso già notati da Aurelio Musi), abbandonando quell’atteggiamento di rassegnazione di fronte allo scadimento qualitativo che in questi anni anche l’università ha conosciuto. E dovrebbero non delegare a presunti esperti di didattica la responsabilità di come organizzare l’insegnamento della loro disciplina. Come è accaduto, p.es., alla SISEM, che nel 2015 ha pubblicato un documento sulla didattica della storia in linea con la teoria delle competenze. Tra le le altre cose, vi si sosteneva (bold nostro) la necessità di «inserire obbligatoriamente la didattica modulare e laboratoriale nei programmi di didattica della storia degli attuali percorsi di formazione iniziale degli insegnanti». Per ammettere poi candidamente lo scetticismo diffuso tra gli storici in merito a tale impostazione: «non esiste, al momento, una proposta organica proveniente dall’interno del mondo accademico e condivisa dagli storici e dagli esperti di didattica della storia [notare la volontà di separare radicalmente i due ambiti NdA], che parta della situazione esistente e che abbia l’ambizione di indicare gli strumenti per riorganizzare il percorso di insegnamento/apprendimento della storia nell’intero sistema scolastico».[1]
In gioco è allora il destino stesso della disciplina, ormai già mortificata a scuola da un quadro orario ridotto, dalle continue interruzioni cui è soggetta la programmazione didattica, dall’obbligo di inserirsi in bislacchi percorsi “trasversali”. L’annullamento di un autentico studio della storia, peraltro, si rifletterebbe sulla stessa qualità del percorso universitario. È necessario rendere consapevole l’opinione pubblica di quanto tale dominio della pedagogia sulle discipline sia profondamente anti culturale e foriero di gravi conseguenze sul piano cognitivo.
L’impegno dei docenti universitari risulta particolarmente importante, soprattutto in solidarietà con i colleghi della scuola pubblica. Questi da decenni sono sottoposti a quella pratica di “umiliazione”, per usare l’espressione di Henry Giruox, nota come learnification. Se ne disconosce il ruolo intellettuale, se ne denuncia lo spontaneismo professionale in nome dello pseudo-scientismo che abbiamo sopra richiamato. E non ci si fa scrupoli nello screditarli, se non accettano di sottomettersi alle pratiche innovative dominanti (se non consentono di «lasciarsi accompagnare», come più educatamente si esprime il ministero. Anche se l’ex ministro Bianchi ha parlato addirittura di “addestramento”). Solo una forte alleanza tra mondo della docenza universitaria e quello della scuola statale può permettere di arginare tale deriva, di capovolgere il discorso mostrando l’estraneità del pedagogismo egemone all’autentico pluralismo culturale (quello che la scuola dovrebbe trasmettere); per denunciare la sua volontà di occupare qualsiasi spazio (teorico, pratico, politico) relativo all’insegnamento. Si tratta di evitare un degrado definitivo della cultura del nostro paese e di salvaguardare l’autentica emancipazione delle nuove generazioni. Protestare contro la Commissione voluta da Valditara e pretendere che vi partecipino innanzitutto i rappresentanti più autorevoli delle rispettive discipline sarebbe un primo passo.
[1] Sul documento della SISEM mi permetto di rimandare a G.Carosotti, Sull’insegnamento della storia nella scuola. Vecchie proposte, nuovi pericoli, in “Historia Magistra”, 34/2020.