La pesca delle spugne nel Mediterraneo (1900-1939)
Posted On 24 Gennaio 2017
1
2.4K Views
Rosario Lentini
Con questo titolo e relativo sottotitolo (Produzione, commercio, mercati e legislazione), Franco Antonio Mastrolia ha pubblicato – nella collana diretta da Mario De Lucia (E.S.I. 2016) – una seconda monografia sulla pesca delle spugne, a distanza di tredici anni da quella dedicata allo stesso tema relativamente al XIX secolo (E.S.I. 2003). L’A. ha così completato il quadro della ricostruzione storica rappresentando, con apprezzabile ricchezza di dati e di dettagli, il tratto declinante della parabola di questo particolare tipo di pesca – cosiddetta “speciale”, al pari di quelle del tonno, del corallo, delle sardelle, delle alacce – le cui origini possono farsi risalire almeno al periodo greco-romano. Come già osservava Oppiano Cilice intorno al 180 d.C., «Non vi è lavoro più difficile e penoso di quello del pescatore delle spugne», tratteggiando indelebilmente la caratteristica dominante e persistente nella modalità di questa pesca che ha comportato anche un elevato tributo di vite umane.
Se gli studi sulla pesca nel Mediterraneo sono abbastanza recenti e hanno avuto impulso soprattutto a partire dal primo convegno internazionale svoltosi a Bosa nel settembre del 1994, promosso da Giuseppe Doneddu, nell’ambito di essi le vicende delle pesche speciali rappresentano ancora argomento di nicchia e materia per specialisti e, in particolare, va evidenziato quanto la pesca delle spugne sia poco documentata, diversamente per esempio da quella del tonno, per ricostruire la storia della quale gli studiosi possono avvalersi con profitto di una considerevole mole di scritture pubbliche e private. Nel caso specifico, la ricerca delle fonti archivistiche si è rivelata molto laboriosa e non sempre fruttuosa, tanto da indurre l’A., nelle fasi preparatorie dell’opera, a considerare la possibilità di abbandonare lo studio in questione. Come egli stesso scrive nell’Introduzione, le difficoltà sono derivate non solo dal deficit documentario ma anche dalle «particolari situazioni di cambiamenti e sconvolgimenti dei paesi affacciati sul Mediterraneo».
Nel volume si procede dalle caratteristiche e distribuzione geografica dei pregiati zoofiti, alla descrizione dei sistemi di pesca, delle imbarcazioni utilizzate e dei contratti che regolavano il rapporto di lavoro, nonché alle modalità di lavorazione; seguono poi i capitoli dedicati agli aspetti produttivi, commerciali e legislativi lungo l’arco di un quarantennio relativi alla vasta area marittima nordafricana fino alle acque dell’Egeo, grazie ad una corposa bibliografia italiana e straniera.
Le spugne migliori – sulla cui identità marina (animale o pianta?) i naturalisti si scontrarono almeno fino a metà dell’800, per poi convenire con la prima ipotesi – crescevano a profondità tra le 20-35 braccia lungo le coste settentrionali dell’Africa, Tunisia, Tripolitania, Cirenaica, Egitto, arcipelago dell’Egeo e a sud della Sicilia e quelle più pregiate si sviluppavano sui fondali rocciosi. Spugne di buona qualità si pescavano oltre che a Lampedusa anche tra il porto di Trapani e le Egadi, tra la costa palermitana e Ustica nonché in prossimità di Alicudi, Filicudi, Lipari e Stromboli.
Il sistema più antico era quello di far immergere il pescatore a corpo nudo sul fondo del mare: «legato ad una fune, si tuffava con in mano un pesante pezzo di piombo e nell’altra una falce tagliente». Nell’800, i tuffatori dell’isola di Simi, muniti di una lastra di marmo bianco di forma oblunga e di una rete legata al collo per riporvi le spugne asportate, erano rinomati perché riuscivano a raggiungere anche profondità comprese fra i 30 e gli 80 metri, rimanendo in apnea fino a tre minuti e mezzo. Il periodo ideale per lo svolgimento dell’attività era quello compreso tra giugno e agosto e, comunque finché il tempo lo consentiva.
Accanto a quella tradizionale si svilupparono anche le modalità di prelievo dai fondali più bassi – non oltre i dieci metri – con la fiocina a quattro punte, fissata all’estremità di un’asta in legno di abete resinoso che a sua volta veniva allungata con una serie di aste ad incastro; nonché con la gangava per profondità ben maggiori di quelle raggiungibili dai tuffatori. Questo apparato di reti con cavi e catene del peso di circa 250 chili veniva trainato da grosse imbarcazioni per rastrellare il fondale e – al pari delle odierne reti a strascico – era molto dannoso «perché la draga che toccava i banchi e gli algamenti strappava tutto, anche alghe con uova di pesce, traendo spugne grandi e piccole commerciabili o no per qualità e dimensioni devastando tutto ciecamente».
Il primo punto di svolta nelle modalità di pesca porta, però, la data del 1866, allorché si introdusse nelle acque di Simi l’uso dello scafandro con conseguenti vigorose proteste mosse proprio dai tuffatori più esperti i quali vedevano insidiato il loro primato e il loro stesso lavoro. Naturalmente nel volgere di un ventennio l’innovazione si diffuse rapidamente perché ci si rese conto dell’incremento produttivo che essa consentiva: «operavano nel Mediterraneo alla fine dell’Ottocento non meno di trecento macchine da palombaro» classificate in tre categorie, in relazione alle profondità raggiungibili, da un massimo di 40 braccia (per i pescatori greci il “braccio” misurava metri 1,80 circa) ad un minimo di 10. Se prima dell’utilizzo degli scafandri il pericolo maggiore era rappresentato dagli squali, successivamente sarebbero state le paralisi spastiche agli arti e agli organi interni per la prolungata permanenza nei fondali ad insidiare la vita dei pescatori di spugne. Fra il 1901 e il 1904, ne morirono annualmente non meno di 50.
Le spugne pescate nel Mediterraneo si potevano classificare in sedici varietà, in relazione alla provenienza, alla grandezza, alla forma e al colore e venivano smerciate nel continente europeo attraverso i mercati di Trieste e di Marsiglia. La loro lavorazione cominciava già a bordo per separare lo scheletro delle spugne dalle parti più molli. Una volta sbarcate subivano una seconda lavorazione per renderle di colore giallo paglierino; battute con mazzuole di legno, poi ritagliate e immerse in soluzioni di acido cloridrico «per eliminare eventuali residui calcarei». Seguivano lavaggi in acqua di mare, bagni in acido ossalico e successivamente in una soluzione di permanganato potassico. «Il prodotto della pesca era venduto, di solito, allo stato grezzo dai maggiori commercianti sulle principali piazze europee, in particolare a Londra» dove si operavano altre lavorazioni chimiche per imbiancarle e ammorbidirle.
Tra il 1900 e il 1914 le barche italiane dedite alla pesca delle spugne, attive nelle acque di Lampedusa, con a bordo mediamente 5 membri di equipaggio, variarono da un minimo di 54 nel 1903 ad un massimo di 106 nel 1900. Contemporaneamente quelle straniere presenti nelle stesse acque non furono mai meno di 7, nel 1911, fino al non indifferente numero di 50 nel 1903. L’importanza dei banchi lampedusani era ben nota e nel primo quindicennio del ‘900 si pescavano complessivamente una media di 34 mila chili di spugne per un valore di circa 550 mila lire.
Nel primo dopoguerra si fece più intensa anche la presenza dei pescatori di Torre del Greco – in aggiunta ai siciliani – che oltre ai banchi di Lampedusa raggiungevano le acque della Tripolitania e tunisine. Fino al 1927 i battelli siciliani erano più numerosi di quelli di Torre del Greco, ma le forti perdite conseguite tra il 1926 e il 1928 misero in crisi gli armatori, aggravate poi anche dai primi effetti della grande depressione; «I banchi di Lampedusa erano stati sfruttati, il mercato era in mano ad un solo acquirente, pochi interventi erano stati fatti per l’isola e per i pescatori di spugne il futuro era sempre più nero». La quantità di spugne pescate nei fondali dei mari italiani non bastava a coprire la domanda del mercato interno e le importazioni italiane del prodotto si accrebbero sensibilmente; nel 1925 si raggiunse il picco massimo di 1.030 quintali di spugne gregge importate per un valore di circa 7 milioni e 800 mila lire. Negli anni trenta le imbarcazioni dei compartimenti marittimi nazionali cominciarono a prediligere sempre più i banchi tunisini anche perché in quel Paese la presenza di emigrati soprattutto siciliani (contadini, operai e imprenditori) era da tempo diventata consistente.
Il destino di questo particolare tipo di pesca venne definitivamente segnato dall’inizio del secondo conflitto mondiale, e dagli sconvolgimenti nei possedimenti coloniali delle diverse potenze europee.