La repubblica a Mezzogiorno. Gruppi dirigenti e potere locale in provincia di Ragusa (1943-1960)
I libri di storia hanno sempre sottolineato le differenze tra un Sud arretrato – dunque reazionario – e un Nord dove la Resistenza aveva nutrito la crescita democratica: il Sud è stato quindi ingabbiato in un discorso teorico che enfatizza il ruolo delle forze conservatrici, ignorando le distinzioni fra le diverse aree territoriali. Sono quindi di grande interesse quegli studi che recuperano la complessità di un Meridione-mosaico di realtà, come avviene in La repubblica a Mezzogiorno. Gruppi dirigenti e potere locale in provincia di Ragusa (1943-1960) che Giancarlo Poidomani ha dedicato alla più “italiana” delle province siciliane (Bonanno editore, 352 pagine, 30 euro).
L’arco temporale analizzato va dallo sbarco angloamericano, avvenuto proprio sulle spiagge ragusane, alle elezioni amministrative del 1960 che sono le ultime prima dell’avvento del centro-sinistra. Nel mezzo troviamo la difficile ricostruzione del dopoguerra, la nascita dei partiti di massa e dei nuovi sindacati, la pratica della democrazia a livello locale. Le questioni affrontate coincidono con la formazione del nuovo Stato repubblicano, provando a mettere in risalto attraverso quali atteggiamenti, scelte di campo e opportunismi avviene il passaggio dal fascismo al postfascismo dei gruppi dirigenti, dei ceti intermedi e delle masse popolari: tutta gente che in forme diverse aveva aderito al regime, e che cerca una collocazione nel nuovo contesto politico. Continuità e rotture, dal fascismo alla democrazia. Cioè, come scrive Poidomani, dalla egemonia del partito unico fascista a quella politico-istituzionale della Dc e culturale del Pci. E, per comprendere cosa stentava a nascere e a morire, rivolge l’attenzione non tanto alle campagne e al classico scontro proprietari/contadini ma alla città, agli scenari urbani. Allora troviamo che in provincia di Ragusa gli Alleati non poterono fare a meno di riconoscere l’importanza dei socialisti, che già in epoca prefascista avevano conquistato molte amministrazioni comunali. E il primo prefetto, nominato a Ragusa l’11 ottobre 1943, fu l’avvocato socialista Giovanni Cartia.
Il più importante atto simbolico era però l’epurazione ovvero, come recitava il decreto emanato il 28 dicembre del ’43, la “defascistizzazione delle amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali”. Gli impiegati allontanati dalle loro cariche dovevano rispondere a un questionario, in seguito sarebbero stati giudicati da apposite commissioni.
Nel luglio del 1944 in Sicilia si contavano 7.234 epurati in attesa di giudizio. Erano troppi. Gli antifascisti ragusani vigilano, scrivono al prefetto Cartia lamentando le lungaggini burocratiche e ricordando che, a suo tempo, il regime aveva licenziato settemila impiegati perché socialisti. A Ispica fioccano le lettere anonime, contro il sindaco socialista che commemora Matteotti dimenticando il proprio passato fascista. A Vittoria, Modica, Pozzallo, Scicli e Comiso la partecipazione popolare impedisce il riciclaggio del vecchio personale politico. Le denunce si moltiplicano e a loro idealmente rispondono i tanti documenti prodotti dagli impiegati sospesi che, sempre protestando d’essere stati costretti a iscriversi al partiti “per dare il pane quotidiano alla famiglia”, chiedono d’essere presto reintegrati visto che la disoccupazione tocca livelli altissimi e l’inflazione annulla ogni risparmio. Alla fine una legge del maggio ’49 revoca i provvedimenti, la vecchia burocrazia ritorna nei suoi ruoli e vengono persino riconosciute le indennità maturate durante il forzato allontanamento.
Nel 1946, con l’introduzione del suffragio universale, le masse popolari entrano da protagoniste sulla scena politica italiana segnando una forte discontinuità: non solo con il precedente ventennio fascista, ma anche con lo Stato venuto fuori dal processo unitario. Se lo Stato liberale e poi fascista aveva praticato il centralismo, realizzando una struttura gerarchica dal centro verso la periferia, nel ’46 si capovolgono i rapporti di forza: le elezioni e i partiti di massa rappresentano una volontà politica che, dalla periferia, muove verso il centro.
Anche in questa circostanza la provincia di Ragusa è tranquilla. È lontana dai reati di sangue e dai sequestri di persona così frequenti nella Sicilia occidentale; vi si organizzano manifestazioni al grido di “Abbasso il separatismo”, cioè lo stesso movimento che nella baronale Palermo ricatta tutti quanti. A Ragusa i partiti politici cominciano a ricostituirsi pochi giorni dopo lo sbarco, i primi a rinascere sono i socialisti. Nell’ottobre del ’44 una relazione del prefetto dà il Pci per “regolarmente organizzato”, con sezioni nel circondario e circa 3.800 iscritti. Siamo in una provincia “rossa”, i socialcomunisti ci tengono a prendere ogni iniziativa. Così, quando la marchesa Scininà fa recapitare 200 kg di pasta alla sezione monarchica di Ragusa, i socialisti rispondono e rilanciano con distribuzioni di pasta e anche di farina.
L’esito del referendum istituzionale conferma un quadro più avanzato rispetto alle altre province siciliane. La repubblica prevale in 8 comuni su 12, il dato complessivo dei comuni iblei è del 48, 99% a favore della repubblica: se ne coglie il significato solo se si riflette che a Catania, Messina e Palermo la monarchia ottiene oltre l’80% dei suffragi. Le elezioni per l’Assemblea Costituente confermano che, appoggiata dal clero, la Dc è riuscita a radicarsi in molti comuni. A Ragusa, dove viene organizzato il primo congresso regionale della gioventù democristiana, ottiene il 40,7% dei voti. Nella vicina Comiso e a Modica comunisti e socialisti vanno subito al contrattacco.
Sono i primi passi della nuova democrazia repubblicana, che nasce in un contesto influenzato dalla guerra fredda: anche nella provincia rossa di Ragusa, la Dc si prepara a rappresentare per molti decenni a venire l’area di governo. A lei si contrappone il Pci, con un ruolo di rappresentanza sociale e di iniziativa politica. Ma non è abilitato a governare.