La ricostruzione barocca della Sicilia
Le sfaccettature della Sicilia sono infinite. Dominazioni e culture si sono susseguite nei secoli, accostandosi e sovrapponendosi. Accostandosi, senza mai distruggersi. Questo leitmotiv sembrava destinato a perdurare senza interruzioni lungo tutta la storia siciliana, ma non teneva conto dell’imprevedibile: il 9 e l’11 gennaio del 1693 la Val di Noto fu quasi totalmente distrutta da scosse sismiche di magnitudo 7.4. Questo risulta ad oggi uno dei terremoti più intensi della storia in Italia fra quelli iscritti nel Catalogo parametrico dei terremoti italiani, che sconvolse il territorio coinvolgendo circa 80 città, venti delle quali rase al suolo, e migliaia di persone che perirono sotto le macerie.
Una catastrofe tale avrebbe potuto distruggere non solo la vita ma anche gli animi dei siciliani. Ma questi ultimi si dimostrarono subito pronti a rialzare la testa e ripartire da zero. La ricostruzione venne affidata al duca di Camastra Giuseppe Lanza e all’ingegnere militare olandese Carlos de Grunembergh. I punti cardine della “nuova” Sicilia sud-orientale furono la difesa dall’insidia barbaresca e l’adeguamento al movimento culturale che si stava diffondendo in Italia, il barocco.
Il pericolo infatti proveniva dal mare. La grande guerra del Mediterraneo fra la coalizione cristiana strettasi attorno alla corona spagnola e la “strana” alleanza franco-turco-barbaresca aveva portato in dote l’esigenza per l’Isola di impermeabilizzarsi alle scorrerie e di essere altresì base strategica per attacchi diretti verso le terre degli “infedeli”. Dopo il conflitto vero e proprio si passò alla guerriglia di corsa e, ovviamente, la Sicilia era una preda invitante. Centinaia furono le incursioni barbaresche dopo la battaglia di Lepanto, e con il passare del tempo le fortificazioni si indebolivano e le torri si sgretolavano, facilitando le scorribande corsare che sarebbero continuate fino alla conquista francese di Algeri del 1830. Paradossalmente il terremoto fornì l’occasione per ridisegnare le geografie cittadine e difensive, modernizzandole e rendendole più funzionali.
Lo schema urbanistico proposto dal Grunembergh si basava su piante ortogonali e strade larghe, un tracciato che soppiantava i vicoli stretti e irregolari dei borghi originari. Strade e piazze principali scandivano la scacchiera di costruzioni e si prestavano ottimamente all’utilizzo barocco dello spazio cittadino, come vedremo a breve. Le città distrutte vennero ricostruite prontamente: spesso furono riedificate sulle loro rovine; alcune vennero “sdoppiate” con il mantenimento del borgo storico accanto al nuovo, come nel caso di Ragusa che fu divisa in “supera” e “iusu”; altre vennero spostate, come nel caso di Noto, per le mire speculative dei ricchi proprietari terrieri e per le pretese dei finanziatori ecclesiastici; altri nuovi paesi furono fondati per popolare il latifondo e per incrementare le produzioni agricole (e la classe nobiliare). La fondazione di una nuova comunità cittadina veniva infatti gestita dai baroni tramite la licentia populandi, che rendeva il fondatore di un nuovo paese il signore del proprio “stato feudale”, con in dote un voto in Senato se la comunità contava al suo interno almeno ottanta famiglie. Questa prassi era poi sublimata dall’acquisto di un titolo nobiliare dalla corona spagnola, che aveva trovato in questa “vendita della titolarità” un escamotage per rimpinguare le disastrate casse statali dopo il conflitto contro i Turchi. Tornando a parlare della struttura urbana, si era in precedenza accennato alla penetrazione del Barocco in Sicilia. Questo movimento culturale iniziò a espandersi da Roma durante il XVI secolo e spiccava per la sua propensione naturale alla ricerca del lusso capace di stupire chi osserva. In Sicilia trovò fortuna una generazione di architetti che si erano formati in Italia per poi tornare sull’Isola nel momento in cui lo stile “riccioluto” stava iniziando a trasformarsi in barocchetto e rococò. L’esponente più importante che lavorò alla ricostruzione fu probabilmente Giovan Battista Vaccarini, che ridisegnò il volto di Catania. Nel XVIII secolo lo stile barocco siciliano cominciò a brillare di luce propria, distaccandosi dai canoni italici; esempi principali sono le città di Ragusa, la già citata Catania e, soprattutto, Noto (definita da John J. Isle «The perfect baroque city» nell’omonimo libro). L’ampio utilizzo di marmi mischi, le rifiniture di pilastri e colonne, lo sfruttamento ornamentale della pietra lavica etnea, le presenza di grandi scalinate esterne, lo spostamento delle campane nelle facciate delle chiese, l’immissione di statue e putti nelle piazze e nelle facciate di edifici pubblici ed ecclesiastici, le pavimentazioni marmoree e la cura del chiaroscuro tramite giochi di luci e ombre, sono caratteristiche fondamentali del Barocco siciliano a livello architettonico. Ma la ricerca dello stupore non è una prerogativa solo artistica; anzi, è doveroso segnalare come il barocco sia soprattutto pensiero, stile, moda, quella che Maraval definirà cultura di massa.
La mentalità barocca non era una novità all’indomani del sisma, aveva infatti attraversato lo Stretto già un secolo e mezzo prima del terremoto, importata nella capitale dal vicerè Gonzaga insieme alla moglie Elisabetta, fautori delle prime rappresentazioni ludiche del genere con sfilate e tornei, fino addirittura a una battuta di caccia “artificiale” nel piano della Marina. Da questo momento in poi le ricorrenze religiose e/o civili diventano il pretesto perfetto per inscenare parate e rappresentazioni, e le città si trasformano in grandi teatri. La fisionomia di Palermo era stata adattata a questa esigenza di città palcoscenico. Giovanni Isgrò sottolinea la nuova chiave di lettura degli assi maestri della città: il Cassaro, congiungendo il Palazzo Reale al Castello a mare, intervallato da cinque piazze, assunse la valenza di axis mundi, la via più “nobile”, mentre la via Maqueda nobilitava a sua volta il Palazzo del Governo civico, ponendo il Senato in una posizione simbolica, in quanto sottomesso alla corona spagnola ma lo stesso rispettata. Se l’ampiezza di questi assi viari viene messa a confronto con le “viuzze” cittadine, si capisce quanto i primi si connotino come palcoscenico della grandezza e della potenza di tutti gli organi di governo, ma anche come al contempo sottolineino le differenze gerarchiche. Lungo le due strade maestre si stagliavano statue ed effigi dei monarchi più prestigiosi e dei santi, e si affacciavano il Palazzo arcivescovile, il piano della Cattedrale e quello dei Bologni. Sempre Isgrò nota come da Porta Felice partissero gli sfarzosi cortei verso il Duomo e/o il Palazzo Reale, passando da “tappe forzate” dalla gerarchicamente crescente appartenenza, tra le quali spiccava la piazza Villena (o piazza dell’ottagono, oggi chiamata anche “Quattro canti”), punto di congiunzione dei due assi viari, che celebrava con delle effigi statuarie le quattro stagioni, i re spagnoli e le patrone dei quattro quartieri cittadini, a loro volta sormontate dall’aquila. Questo simbolismo finemente ricercato, unito alla sfarzosità che caratterizzava le rappresentazioni, era finalizzato a sottolineare il prestigio dei ceti dominanti, sia politici che religiosi. La Chiesa infatti sfruttava le occasioni festive per la propaganda controriformista, trovando nell’ordine gesuitico un ottimo interprete. I palermitani adoravano prendere parte alle feste, attorniata da tale sfarzo la gente era quasi ‘avvolta’ nella sua totalità; le feste la estasiavano, ammaliavano, la rendeva timorata e rispettosa.
La committenza delle feste spettava al Senato, capace di coinvolgere tutte le categorie sociali, e si sfruttava ogni occasione per “festeggiare”: dalle celebrazioni per il monarca a seguito dei successi, delle nozze, dei compleanni della famiglia reale, addirittura delle dipartite (e si sviluppa il “funeral teatro” e la più importante celebrazione fu quella per la morte di Carlo III di Borbone, i cui funerali furono definiti «superbissimi» dal marchese di Villabianca), si passava fino alla sfera religiosa, con le celebrazioni religiose del calendario liturgico, le santificazioni e beatificazioni, le feste dei patroni e, soprattutto, il festino di santa Rosalia.
La storia del festino nasce nel 1624: il 15 luglio vennero rinvenute sul monte Pellegrino le spoglie attribuite alla santa eremita e di lì a poco si susseguiranno vari miracoli fino al debellamento della peste che falcidiava Palermo, dichiarata sconfitta «per grazia della Vergine e intercessione di Rosalia». Da allora (e ancora oggi) il 15 luglio si celebrano le vittorie della santuzza. Nel 1686 fu costruito il primo carro con una Rosalia trionfante, avvolta dalle ali dell’aquila, svettante su un piano mobile a forma di conchiglia d’oro. Isgrò descrive la prassi che caratterizzò per decenni i festini come tripartita: una sacrale processione lungo il Cassaro culminante in uno spettacolo pirotecnico il primo giorno, a seguire una mostra degli apparati nell’interno della Cattedrale, finendo quindi il terzo giorno con una corsa di barberi e una seconda processione per le vie più importanti della città. Strade, facciate e porte si adornavano ogni volta con fittizie decorazioni curate nei minimi particolari, capaci di ammaliare la cittadinanza ed estasiare i visitatori, e non solo per il festino ma per ogni celebrazione cittadina. Il Senato commissionava la realizzazione di addobbi e macchine alle maestranze palermitane, che nell’artigianato artistico avevano trovato una forte identità e un settore di specializzazione assai redditizio, almeno finché la monarchia borbonica non abbandonò la strategia propagandistica delle feste all’avvento dell’Illuminismo. Palermo divenne un modello per la Sicilia intera, un modello da imitare e migliorare, in quanto nella capitale il barocco si era perfettamente mescolato alla città ma proprio per la persistenza delle infrastrutture precedenti non riuscì ad esprimersi con tutto il suo estro. Ci riuscirà altrove.
Tra il XVI e il XVIII secolo vi era quindi stata una fortissima influenza barocca ad ogni livello della civiltà siciliana: cultura, tradizioni, architettura e urbanistica erano state contaminate dalla mentalità del “riccioluto” stile, e il terremoto del 1693 permise di ridisegnare la Val di Noto con delle inimitabili caratteristiche passate alla storia con il nome di Barocco siciliano, lo zenit del barocco europeo, tanto da spingere l’Unesco a inserire la città della vallata fra i Patrimoni dell’Umanità.
Per approfondire la redazione consiglia:
– A. Crisantino. Breve storia della Sicilia. Le radici antiche dei problemi di oggi. Trapani, Di Girolamo, 2012.
– John J. Ide. Noto, the Perfect Baroque City. Journal of the Royal Institute of British Architects, n. 66, 1958.
– G. Isgrò. Feste barocche a Palermo. Palermo, Flaccovio, 1981.
– J. A. Maravall. La cultura del barocco. Analisi della struttura storica. Bologna, Il Mulino, 1985.
– G. E. di Blasi. Storia cronologica dei viceré, luogotenenti e presidenti del Regno di Sicilia. Palermo 1790-91.
– E. Boschi (ed.). Catalogo parametrico dei terremoti italiani. Bologna, Compositori, 1999.