La seconda puntata del viaggio all’interno della biografia di Michele Amari: la nascita della scienza laica dell’arabistica
L’onore della patria. Il popolo di cui scrive Michele Amari si staglia vittorioso sulle rovine dei secoli, per il governo borbonico La guerra del Vespro è molto più d’una battaglia perduta: è un libro che rafforza il sentimento separatista e idealmente mette in un cantuccio i moderati, che non avevano escluso la possibilità di un’intesa con Napoli.
A Parigi, Michele Amari è accolto dalla folta colonia dei siciliani in esilio: davanti all’esule famoso le porte si aprono accoglienti, ma la povertà rende ogni cosa più complicata. Amari ha urgente bisogno di lavorare per vivere, anche se da Palermo lo confortano: “non i curare degli altri lucri che potrebbe fornirti lo scrivere sui giornali. Metti in calma il tuo spirito e concentra tutte le forze al gran lavoro storico che deve raddoppiare la tua fama e riempirti la saccoccia”. A lui è affidata la missione di riscattare l’onore della patria siciliana e gli amici offrono “un’anticipazione senza incomodarti affatto”, una sottoscrizione per procurargli la tranquillità necessaria a scrivere. L’iniziativa sottolinea la forza di un legame che crea parentele elettive: Amari è l’esule outsider senza beni da confiscare, il caso anomalo chiamato a officiare il risveglio della patria da un letargo durato secoli. Si muove nello spazio semantico della nazione siciliana, che esalta il nesso biologico proprio di tutte le nazioni, ma non può certo richiamare la memoria paterna che anzi è motivo di disdoro. All’altare della patria – termine che di per sé evoca parentele – Michele Amari si presenta da solo, e le modeste condizioni economiche lo rendono un esemplare pressoché unico nel panorama degli esuli.
È a Parigi che Amari scopre la Palermo musulmana, nel marzo del ’44 scrive a Filippo Gargallo di una città “grandissima e splendida, arrivata al culmine della corruzione: ci ha di che superbire e di che arrossire”. L’innamoramento non deve però eliminare la cautela.
A Palermo la cattedra di lingua araba era stata istituita per Giuseppe Vella, i cui codici falsificati coincidevano con un imbroglio storico-politico bollato dal maestro Scinà come “arabica impostura”; erano ormai passati molti anni, e un certo dilettantismo era subentrato alle manipolazioni dell’abate Vella. Gli studi di arabo hanno adesso il volto e il nome di Vincenzo Mortillaro marchese di Villarena, che a soli ventitré anni diventa docente dell’esotica materia e a spese dell’Università stampa i Rudimenti di lingua arabica. Mortillaro pubblica ben otto monografie divulgative su argomenti come il Corano e Maometto, i caratteri arabi, le monete e il calendario, tutte sul «Giornale di scienze lettere ed arti»: periodico soppresso perché troppe lodi ha riservato al Vespro di Amari. Nel 1841 aspre contese accademiche hanno portato Giuseppe Caruso sulla cattedra di arabo, al posto di Mortillaro; di quelle polemiche Amari avrebbe scritto: “in quel tempo io non sapea neppur l’alfabeto arabo… ma vivendo nel paese sapea bene che si disputava acremente la cattedra d’arabico”. Ma Palermo, con tutte le sue beghe, è ormai lontana. La lettura della storia dell’Africa e della Sicilia di Ibn Haldûn, pubblicata da Noël des Vergers, spinge Amari a studiare l’arabo e frequentare le lezioni del grande arabista De Sacy. Presto, con ammirevole rapidità, comincia a produrre i frutti della sua fatica.
La scoperta degli Arabi. Negli anni parigini Amari vive una condizione di apprendistato costante e operoso. Al mattino è il malpagato catalogatore dei manoscritti arabici della Biblioteca nazionale, a Salvatore Vigo confida di guadagnare “cinque franchi al giorno per cinque ore di fatica, lavoro e paga sospesi nelle feste, il che torna in valori di Sicilia a due tarì e mezzo”. Tanto lavoro ottiene presto dei risultati.
Arrivato a Parigi nel dicembre del 1842, fra il dicembre del ’45 e il marzo del ’46 Amari pubblica sul «Journal Asiatique» la Descrizione di Palermo del mercante Ibn Haukal e il Viaggio in Sicilia di Mohammed-Ibn-Djobair. I sottoscrittori che aiutano lo storico ormai famoso possono essere soddisfatti. E siccome fanno tutti parte della “misera compagnia dei letterati del paese”, ecco che a fine marzo sul quindicinale palermitano «La Falce» spunta un Prologo dove Amari dichiara di avere avuto i documenti grazie alla cortesia del barone de Slane che li ha scoperti nella biblioteca del re di Francia, e di avere condotto la traduzione “sotto gli auspici dell’erudito prof. Reinard”: sono i protagonisti della neonata arabistica, che si sgancia dagli ordini religiosi divenendo scienza laica.
Su «La Falce» Amari scrive dei Musulmani ed è infervorato, deciso a farsi onore: … questa civiltà diffuse il suo splendore sulle corti di Federico di Svevia e di Manfredi. Allora essa cangiò divisa, andò a messa, parlò latino e italiano, e cooperò al risorgimento delle scienze, delle lettere, delle arti e della industria in Italia… La storia della Sicilia musulmana resta ancora da farsi, e quel ch’è più devono trovarsene i materiali. Fa pena il non aver che pochi meschini avanzi per guidarci nella ricostruzione di quel magnifico edificio, e in questo caso ogni scoverta di un nuovo frammento riesce importantissima… Spero dare fra non molto degli altri estratti tolti da autori arabi che han parlato della Sicilia, come anche una collezione di poesie di arabi siciliani, e così fornirò nuovi interessantissimi materiali per la storia della Sicilia durante il Medioevo.
Allievo prediletto di Domenico Scinà, che proprio a lui aveva assegnato il compito di chiamare il popolo alla riscossa, Michele Amari continua a lavorare sulle orme del maestro.
Da neofita aveva imparato che la storia sconfina con la politica e il passato è come un ripostiglio, dove si può rovistare alla ricerca dell’attrezzo più adatto a modellare il futuro. Conosce il campo teorico creato da Scinà, per anni ha osservato il maestro operare come un demiurgo per dare alla Sicilia “un rango d’onore tra le polite nazioni”. Alla rinascita della patria Scinà aveva dedicato dei libri, da disseminare nei punti nevralgici del grande disegno: i più importanti erano stati gli Elementi di fisica del 1803, la Topografia di Palermo pubblicato nel 1818 e i tre volumi del Prospetto della storia letteraria del XVIII secolo tra il 1824 e il ’27. Un impiego più immediato, quasi un soccorso per lo spirito, l’avevano poi avuto le biografie dei grandi uomini siciliani. Perché la ricetta di Scinà in fondo è semplice: un popolo decaduto ha bisogno di apprendere le glorie e gli esempi dei padri, da cui trarre nutrimento per rigenerarsi. Lo studio su Empedocle, pubblicato a Palermo nel 1813, concludeva con esortazioni accorate: “la gloria di Empedocle, che in parte è ancor nostra, ci dee infiammare a battere lo stesso sentiero. La Sicilia è la stessa ch’era allora ai tempi d’Empedocle”. E nel 1823 il Discorso attorno ad Archimede, sempre chiamato “il nostro Archimede” si conclude con un appello retorico-politico: “saranno dunque vane per noi tante gloriose ricordanze?… mostriamo che gli ingegni siciliani non sono ancora spenti”.
Con La guerra del Vespro Michele Amari aveva risposto al compito che Domenico Scinà e Salvatore Vigo gli avevano assegnato, aveva scritto un libro per infiammare il popolo. Un libro che contro ogni previsione del partito siciliano sarebbe entrato nel canone risorgimentale: perché il Vespro ci mette niente a divenire il simbolo della rivolta degli oppressi, e nell’Europa affamata di miti romanticamente eroici il suo linguaggio viene da tutti compreso. Ma è necessario riempire di contenuti virtuosi un’identità siciliana sempre oppositiva. In una lettera al marchese Gargallo, del 10 agosto 1843, Amari riflette che dopo il Vespro la storia siciliana è stata solo “cagion di rossore”, per concludere “voglio provarmi all’arabo, e se la via non m’è troppo spinosa camminarci quanto potrò”.
La Sicilia araba. Il maestro Scinà aveva indicato la Sicilia greca come luminosa lontana origine ancora capace di produrre nuovi frutti, Michele Amari aveva esaltato nel Vespro l’eroismo del popolo che si ribella alla dominazione straniera. Con la consueta operosità Amari ha sommato gli indizi, decifrato antiche scritture, confrontato i documenti, levato di mezzo Giovanni da Procida quale eroe della rivolta e messo al suo posto un protagonista collettivo, il popolo. In primo piano c’è un’esigenza politica, il bisogno di trovare puntelli su cui poggiare il riscatto della patria siciliana. Suo necessario corollario è un’idea teleologica della storia, dove il momento eroico della riscossa chiude la parabola virtuosa che cominciando con gli Arabi continua con i Normanni. Allora l’isola aveva sparso sulla terraferma “molti semi di quel mirabile incivilimento della comune patria nostra”, ed erano stati questi semi a scacciare dall’Europa le tenebre del Medioevo: le parole di Amari all’inizio della Storia dei Musulmani sono un manifesto programmatico, tutto il gran lavoro sui documenti non le mette mai in discussione.
Amari approda alla Sicilia araba in nome della gloria per sé e per la patria, le due cose in fondo coincidono. Ha quasi quarant’anni, il grande libro pretenderà una religiosa dedizione per tutti i giorni che gli rimangono da vivere. Ma è un libro che esalta lo spirito, nella lettura di Giuseppe Giarrizzo la storia dei Musulmani doveva legittimare l’aspirazione all’egemonia isolana nel quadro del regno meridionale. Ancora una volta il nemico è il Borbone di Napoli. Né sarebbe stato dimenticato l’anticlericalismo.
Pare che l’unico ostacolo sia trovare un editore, un disincantato Giuseppe La Farina gli scrive parole sempre attuali: “la piazza (per dirla in termini mercantili) è così sovraccarica di libri, ch’è una gran fortuna trovare un editore che non pretenda d’essere pagato per stampare”. Sarà poi lo stesso La Farina a scrivergli: “ho trovato alfine un editore che pare voglia intraprendere la stampa della vostra storia araba”. Il primo volume della monumentale fatica esce nel 1854 per l’editore Le Monnier di Firenze.