La Settimana Santa in Sicilia – Parte prima
Dai Misteri alle Riattiati: forme e funzioni delle rappresentazioni festive della passione, morte e resurrezione del Cristo nelle città e nei paesi siciliani
La processione dei Misteri di Trapani, quella del Cristo Morto e degli incappucciati di Enna, il corteo della Real Maestranza e la processione delle Vare di Caltanissetta, sono, indubbiamente, alcune tra le più note manifestazioni della Settimana Santa siciliana. Lo sono per una serie di ragioni che interessano diverse sfere espressive e differenti livelli di fruizione: l’ampia partecipazione di fedeli e di turisti, la forte connotazione sociale e identitaria declinata dai mestieri, dalle confraternite e dalle maestranze, la possente estetica delle passioni che si dispiega nei gesti e nelle sonorità (le musiche bandistiche, i canti, le acclamazioni), nei vistosi costumi, negli imponenti gruppi statuari e nei complessi apparati festivi. Come accade in ogni grande festa comunitaria, autentico fatto sociale totale, queste cerimonie mettono in scena, a un tempo, il come si è stati, il come si vorrebbe essere e il come si è. Storie, memorie, desideri e realtà, agiti e partecipati, si frammischiano ai conflitti politici e alle contraddizioni sociali che, se nel vissuto quotidiano si esprimono in tutta la loro drammaticità, nello spazio-tempo della festa, dunque del mito, sembrano trovare soluzione e senso. La festa, dunque, hic et nunc, ricompone e rifonda il cosmos urbano e sociale e riafferma l’esserci dei singoli e della comunità entro l’unica cornice realmente e compiutamente legittimante, quella del sacro.
Non va mai dimenticato, tuttavia, che la festa è luogo di esercizio della “dialettica del potere” e di ricerca del consenso popolare che si dispiegano nel controllo dei momenti cerimoniali apicali e dei simboli rituali. In quanto momenti di esibizione pubblica della propria fede e di esposizione di una “ideale” identità comunitaria, i riti della Settimana Santa sono, d’altronde, nel loro complesso, lo spazio-tempo elettivo di affermazione, negoziazione e riconfigurazione dei rapporti di potere che insistono tra le diverse componenti che animano e “governano”, più o meno ufficialmente, più o meno esplicitamente, le società paesane: istituzioni municipali, clero, confraternite, associazioni “culturali”, “di mestiere”, “politiche”, “di interesse”, talora anche gruppi malavitosi, ecc.
Ciascuna di tali componenti, di tali agencies territoriali, promuove specifici e spesso tra loro confliggenti interessi ricercando il controllo dei momenti topici dei riti e manipolandone ad arte il simbolismo rituale. Così, al di sotto di una narrazione scenica che vuole offrire complessivamente l’immagine di una comunità unita e solidale, capace di ricomporre ogni tensione attraverso la condivisione del culto cattolico e delle pratiche religiose “tradizionali”, si può cogliere il dispiegarsi di conflitti tra municipalità e Chiesa, tra Chiesa e confraternite, tra le diverse fazioni di fedeli, variamente aggregate, che rappresentano gruppi economico-politici antagonisti.
L’osservazione delle dinamiche sottese alle maestose cerimonie urbane di Trapani, Enna, Caltanissetta è solo un primo passo, sia pur fondamentale, verso la comprensione della Settimana Santa siciliana, un passo che se non seguito da altri, rischierebbe di proporre di questo complesso cerimoniale un’immagine parziale e distorta. Queste cerimonie urbane, infatti, sono sintesi eccellente, di una specifica tipologia celebrativa di forte marcatura civica e istituzionale (religiosa e laica) che, ad esempio, si ritrova altrimenti espressa nelle varette di Messina o di Barcellona Pozzo di Gotto, nei Misteri di Erice; una tipologia, dunque, alla quale è necessario e ineludibile accostare quelle altre e diverse espressioni rituali, talora rutilanti e eterodosse, che ricorrono nelle feste pasquali isolane.
Una Pasqua polimorfa
La pluralità dei simboli e delle azioni rituali che caratterizza le cerimonie della Settimana Santa in Sicilia è di fatto irriducibile a una lettura univoca. Non c’è iter festivo locale che possa considerarsi morfologicamente riassuntivo e rappresentativo della molteplicità e della ricchezza delle storie e delle tradizioni culturali e cultuali, delle pratiche rituali, delle espressioni artistiche e performative variamente articolate nei diversi centri dell’Isola (cf. Buttitta 1978 e 1990; Plumari 2003 e 2009; Buttitta I. E. 2016). Al di sotto, tuttavia, della molteplicità delle forme e dei significati che si declinano nelle diverse feste pasquali è dato riconoscere alcuni elementi comuni e ricorrenti. Le feste di Pasqua, infatti, in quanto momento centrale e fondativo di quel calendario cerimoniale che scandisce i tempi del lavoro e della vita in comune, possono sempre essere considerate autentiche feste di capodanno.
Se ciascun paese siciliano festeggia, infatti, in momenti diversi dell’anno il suo santo patrono, tutti, indistintamente, celebrano la Settimana Santa con solenni funzioni, processioni, sacre rappresentazioni. Dai riti pasquali tutto parte e a questi tutto ritorna poiché la vicenda di morte e resurrezione di Dio sussume in sé quella del ciclico esaurimento e della rinascita della natura e della società. I riti pasquali si pongono pertanto come modello e, assunti nel loro insieme, dispiegano tutti i simboli rituali (materiali, gestuali, verbali, sonori, ecc.) ricorrenti nelle feste religiose isolane: processioni di confraternite e maestranze, drammatizzazioni e sacre rappresentazioni, ostensioni di allori e altri vegetali, danze e corse dei fercoli, falò e fiaccolate, maschere e fantocci giganti, canti, acclamazioni e preghiere, pratiche penitenziali, produzione e consumo di dolci e di pani, ecc.
Nei riti della Settimana Santa si osservano di fatto convivere, integrarsi e confondersi simboli e comportamenti di tradizione liturgica e di matrice devozionale e penitenziale con simboli e comportamenti di evidente origine precristiana o comunque connessi a una visione del mondo e della vita e a una concezione dello spazio e del tempo proprie delle culture agrarie euro-mediterranee, le quali tutte hanno storicamente elaborato «quella che può essere definita una religione cosmica, poiché l’attività religiosa è concentrata intorno al mistero centrale: il rinnovamento periodico del Mondo» (Eliade, 1979, I, 54). Ciò non ha nulla di sorprendente poiché da un lato l’avvento della primavera ha da sempre costituito nelle civiltà a prevalente economia agropastorale il momento di grandi celebrazioni mirate a garantire la rifondazione del tempo e della società e, appunto, caratterizzate dall’esaltazione di simbolismi alimentari, vitalistici e fecondativi, dall’altro la Pasqua (Pesach – Massoth) è una festa strettamente connessa, sin dal momento della sua istituzione veterotestamentaria, ai ritmi stagionali e ai cicli produttivi: la Resurrezione del Cristo può caricarsi, così, in ambito folklorico, di una valenza segnica che trascende il significato liturgico venendo a rappresentare non solo la sconfitta della morte e la redenzione dell’Uomo ma anche, su un piano più generale, la vittoria del cosmos sul caos, il rifarsi del tempo e dello spazio e il rigenerarsi della vita sociale e naturale (cf. Giallombardo 2006; Buttitta I. E. 2013: 77 ss.).
Simbolismi agrari
La festa di Pasqua è, dunque, festa di capodanno e come tale ne presenta tutti i caratteri distintivi a cominciare appunto dall’insistita presenza di simboli rituali diretti a segnalare il risveglio della vita vegetale. Questi elementi si ritrovano, variamente ostentati e composti, in numerosi momenti rituali: dai rami di palma e d’ulivo della Domenica delle Palme, ai germogli di frumento (i lavureddi) dei “sepolcri” e alle arance delle “mense” del Giovedì Santo; dai mazzi di fave verdi del Venerdì Santo, ai fiori, alla frutta fresca, alle fronde e agli alberi di alloro e d’arancio della Domenica di Pasqua.
Un po’ ovunque la mattina della Domenica delle Palme la cerimonia della benedizione dei rami è preceduta da più o meno lunghe processioni, talora drammatizzate con la presenza di attori che mettono in scena l’ingresso di Gesù a Gerusalemme in compagnia degli apostoli (così per esempio a Caccamo e a Realmonte). A Gangi, in particolare, per la Domenica delle Palme, ciascuna delle dieci diverse confraternite reca in processione a cunocchia, un grande fascio di rami di palma adorno di fiori, datteri, crocette di legno. Queste sono condotte, insieme ai rispettivi stendardi e crocifissi confraternali, presso la Chiesa Madre al suono dei tamburi. Qui giunti i confrati entrano nel tempio e vanno a disporre i cunocchi presso l’altare per la benedizione. Terminata la funzione, le confraternite con i rispettivi fasci di palme si compongono in corteo e percorrono le vie del centro storico fino a raggiungere la chiesa del SS. Salvatore. Al termine del rito la processione rientra in Chiesa Madre per la celebrazione della messa. Giunti dinanzi al tempio i tamburinai accompagnano la cunocchia e la propria confraternita fino alla porta principale e qui si arrestano continuando a suonare finché la stessa non avrà percorso la navata centrale per poi essere disposta in una delle due navate secondarie. Completato l’ingresso delle palme, i suonatori di tamburi, raccoltisi insieme, eseguono la tamburinata. Al termine della messa tutti i confrati recano le cunocchie presso le rispettive chiese: qui queste vengono smontate e i rami distribuiti tra amici e parenti. La palma, infatti, conserva a livello popolare un valore magico-religioso e ad essa si attribuisce la funzione di proteggere il nucleo familiare e di scongiurare malattie e calamità (Cusumano 1990; Cedrini 1990).
Prorompenti simbolismi vegetali si osservano anche in talune processioni del Venerdì Santo, significativamente associando il tema della passione e morte del Cristo con quello della rinascita vegetale e del ritorno dell’abbondanza. Così a Bronte dove nel giorno del Venerdì santo si svolge un complesso intreccio di processioni che vede i fercoli sacri addobbati con frutti di stagione e soprattutto con grandi mazzi di fave verdi. Ma il trionfo della vegetazione si celebra in tutte le sue varietà per la Domenica di Pasqua. Così a Terrasini dove interi alberi di arancio amaro, addobbati con fazzoletti, giummi (fiocchi sferici di lana), nastri colorati, coccarde e rinfoltiti nella chioma con l’aggiunta di abbondanti fronde vengono condotti in corteo per le vie dell’abitato accompagnati dalla banda. Sono i giovani scapoli (i schetti) a occuparsi del trasporto. Durante il tragitto essi si provano in gare di abilità e forza nel sollevare i pesanti alberi in competizione tra loro e con i maritati (sposati). L’albero viene allora tenuto in equilibrio sul palmo della mano, ma anche sulla fronte e sul naso. I giovani cercano così di mettere in evidenza le proprie attitudini virili.
Gli schietti, con il loro bisogno di affermare pubblicamente le proprie doti virili, sono pure protagonisti a Caltabellotta dove conducono, a tratti correndo al suono di musiche incalzanti (riattiata), il fercolo (vara) di San Michele dalla prima mattinata della Domenica di Resurrezione fino all’incontro serale tra i simulacri dell’Addolorata e del Cristo Risorto. Qui è l’alloro a dominare la scena: oltre ad essere abbondantemente utilizzato per l’addobbo delle strade, esso compare, in forma di vero e proprio albero, alle spalle dell’Arcangelo quasi a suggerirne l’intima identità. Il radicamento dell’attuale cerimonia in tradizioni fortemente connotate dalla dimensione agraria viene ulteriormente suggerito dalle numerose violacciocche (balicu) che ricoprono la lancia del Santo e dalla presenza di un mazzo di spighe nella mano destra della statua del Cristo risorto. Anche a Burgio la vara di San Michele, che portata a spalla dai giovani, corre e danza per le vie dell’abitato al suono della sammichiliata, è riccamente addobbata con fiori e alloro; alloro che si osserva anche nell’addobbo delle vare e nelle mani dei devoti nel corso delle pomeridiane riattiati di San Vito e San Luca che salutano, con audaci evoluzioni dei fercoli, la Resurrezione del Cristo.
In diversa forma si celebra il ritorno della vita e dell’abbondanza a Misilmeri dove la Domenica di Pasqua, così come in molti altri centri siciliani, si svolge, il tradizionale incontro tra il Cristo Risorto e la Vergine Maria. In questa occasione i due fercoli processionali vengono addobbati ciascuno con quattro mazzuna: composizioni a forma di cono di fiori multicolori e di primizie di frutta. In cima al mazzuni, inoltre, viene posta una palma bianca, mentre nella parte bassa si trovano numerosi nastri dai colori vivaci.
I sacri pani
La Pasqua si distingue in Sicilia anche per la consuetudine di preparare, donare, consumare particolari preparazioni a base di frumento: pani o biscotti di vario nome, forma e struttura nei quali, in genere, è inserito un uovo. Si tratta, in tutta evidenza, di alimenti le cui funzioni simboliche prevalgono su quella strettamente nutrizionale, venendo questi pani da un lato a sussumere, tanto nelle forme quanto nelle modalità di consumo, i valori e i significati della festa, dall’altro a configurarsi come veri e propri segni di quel tempo e di quel luogo. Essi, infatti, sono immediatamente riconoscibili per la loro particolare morfologia (ora animale ora vegetale ora connessa alla vicenda cristologica e alla liturgia) e individuati da una diversa denominazione: pupu cull’uovu a Corleone e vari altri centri; cannateddu a Prizzi e a Enna; panarinu a Canicattini Bagni e Avola; pupidda a Ferla; palummedda a Mussomeli; cannileri a Caltabellotta, San Biagio Platani, Caltanissetta; aceddu cu l’ova a Modica e Augusta; campanaru a Trapani; cannatuni ad Alcamo e Salaparuta, ecc. (cf. Ruffino 1995). Distribuiti, spezzati, mangiati, questi alimenti rappresentano, a un tempo, un simbolo della comunità vivente e un medium della comunicazione sociale: «L’abbondanza alimentare veicola infatti significati legati funzionalmente alla vita e alla rinascita, alla continuità del gruppo espressa da quelle catene di alleanze interpersonali e comunitarie che sono lo scopo ultimo dei numerosi scambi di doni alimentari praticati nelle feste» (Giallombardo 1990: 30).
Un esempio ben noto del ruolo assunto dal pane in seno alle cerimonie della Settimana Santa è offerto dagli archi che, la Domenica di Pasqua, fanno da cornice all’incontro dei simulacri del Cristo Risorto e della Madonna Addolorata a San Biagio Platani e a Casteltermini. In particolare a San Biagio gli archi raggiungono una sorprendente complessità di architetture. Essi sono composti da numerosissimi pani disposti su complesse intelaiature di ferule e canne rivestite di agrumi, fiori, datteri, rosmarino, rami e foglie di alloro e di palma. Tali pani presentano una variegata morfologia: ciambelle, angeli musici, campane, galletti, colombe, crocefissi, scene della passione, etc. Raccontano da un lato la vicenda del Cristo e espongono dall’altro il trionfo della vita generato dalla sua Resurrezione.
Particolari modalità di consumo di pani e dolci rituali si osservano a Resuttano, Villalba, Vallelunga Pratameno. In quest’ultimo paese il Giovedì Santo gli appartenenti alle confraternite del SS. Sacramento o del Divinissimo, della Madonna del Rosario e del Crocifisso-Madre dei Sette Dolori, preparano, presso i rispettivi oratori, le cene. Ciascuna confraternita allestisce una mensa sulla quale sono deposti 13 agnelli di pasta reale, rappresentanti Cristo e i 12 apostoli durante l’ultima cena, accompagnati da 13 speciali pani, 13 lattughe, cedri, arance e finocchi. Al centro della tavola è posta una statua di zucchero, raffigurante il Cristo risorto, insieme al pane e al vino, simboli dell’Eucaristia. Ai dodici confratelli chiamati a rappresentare gli apostoli spetteranno in dono l’agnello, un pane da cena, un cedro, una lattuga, un finocchio e un arancio. Agli altri confratelli, invece, verrà dato un piccolo agnello di zucchero.
Le corse e le danze
Come si è appena osservato le cerimonie che introducono e accompagnano la resurrezione del Cristo sono non di rado accompagnate da danze e da corse dagli evidenti valori vitalistici e agonali. Straordinario in proposito quanto accade a Scicli in occasione della festa detta U Gioia o Omu vivu. Qui la festa ha inizio la notte del Sabato Santo presso la chiesa di Santa Maria la Nova quando, tra le urla di gioia dei presenti si celebra la Resurrezione del Cristo. Al termine della funzione la folla defluisce, i confrati sgombrano il centro del tempio dai banchi processionali e preso il fercolo su cui è stato innestato il simulacro del Risorto lo fanno danzare in modo irruento, roteando e sollevando le aste sulle palme delle mani. Solo a tarda notte il Cristo è finalmente riposto in attesa della processione del mattino. Alle 12 della Domenica una folla immensa si accalca sul sagrato e sui lati della strada che si allunga al termine della scalinata di Santa Maria. Ha inizio la processione del Venerabile. Il SS. Sacramento, sotto un baldacchino, viene recato in processione accompagnato da un alto stendardo, dall’Arciprete e dalle altre autorità civili e religiose. Al rientro della processione le campane suonano a festa. Tra le acclamazioni il simulacro del Risorto è prelevato dall’interno del tempio e portato sul sagrato dove prende a volteggiare investendo la folla al suono di musiche incalzanti. La vara discende la scalinata e scivola veloce tra la folla che si assiepa ai lati della strada antistante. Tra scosse, strattoni, sbandamenti si raggiunge lo slargo adiacente alla chiesa di Santa Maria della Consolazione. Qui la vara prende a nuovamente a volteggiare mentre esplodono petardi e mortaretti. Il vortice umano s’arresta, riprende la marcia verso la Chiesa Madre, intitolata a Maria del Carmelo. Sostenuta dal suono della banda musicale, compie di corsa tre giri, a tratti sostando per il sollievo dei portatori. Dopo vari tentativi, osteggiati da quella parte di coloro che vorrebbe procedere a oltranza, finalmente il Risorto entra in chiesa dove, tra le acclamazioni dei fedeli, hanno luogo nuove e prolungate evoluzioni.
Non va dubbio che in alcuni casi, laddove in particolare danze e corse si ritrovino in associazione con altri simboli rituali di precedenza arcaica (alloro, fuoco, prove di abilità, lotte, etc.), esse possano essere lette come pratiche rituali derivate, seppur tra trasformazioni e rifunzionalizzazioni, da cerimonie pre-cristiane legate ai cicli naturali e produttivi. Non si può fare a meno infatti, nel caso della danza cerimoniale, in particolare della danza dei santi, di leggerne l’originario significato propiziatorio di fertilità umana, animale, vegetale. I comportamenti tenuti da chi esegue danze e corse si collocano allora nella dimensione dell’orgia, intesa come «eccesso, abbondanza, annullamento di regole e divieti del vivere quotidiano» (Giallombardo 1990: 24) ovvero espansione e scarico emotivo e fisico di energia, in particolare dell’eros inteso come forza vitale che, in quanto manifestata, esibita, drammatizzata rinvia a un universo simbolico che omologa fertilità della natura e degli uomini (cf. D’Agostino 2000).
Far correre e danzare il sacro simulacro, d’altra parte, rigenera lo spazio e il tempo. Il movimento circolare impresso alla vara o i percorsi in tondo che da essa vengono compiuti rinviano al cerchio del tempo, alla ruota vitale che ogni anno deve essere rimessa in movimento. E il centro ideale e reale della gira, il movimento rotatorio, è il simulacro del Risorto. Mai come in questo caso il suo valore di fondatore e protettore della comunità è reso più esplicito. Egli è l’axis mundi intorno al quale ruota l’universo delle cose e degli uomini e la rotazione non fa che enfatizzare una necessità già chiaramente sottesa allo stesso atto processionale: gli occhi del Santo si devono posare su tutto ciò che lo circonda diffondendo ovunque la sua potenza sacrale.
Ringraziamo Attilio Russo e Giuseppe Muccio per le immagini fotografiche ci hanno concesso di pubblicare.